L’uomo_Betty Anne Ndwaru
_Racconto finalista prima edizione Premio Energheia Africa Teller.
Traduzione a cura di Mariella Silvestri
Era disteso lì dal pomeriggio precedente. All’inizio nessuno vi aveva prestato attenzione e dopo tutto, un uomo disteso sotto un albero, in un bel sabato pomeriggio, non era tanto insolito.
Di questi tempi poi così difficili per l’economia del paese non era certo che un uomo disteso per terra all’ombra di un albero in un giardino pubblico potesse attirare l’attenzione di qualcuno.
Probabilmente l’uomo si era stancato a furia di andare in giro in cerca di un lavoro inesistente e per non sentire i morsi della fame si era sdraiato per mettersi a dormire.
Quell’uomo giaceva sotto l’ultimo albero di jacaranda, nel filare che separava il sentiero sterrato dal campo sportivo, nella proprietà di Nyumboni, e sebbene fosse in parte nascosto dall’erba alta, all’angolo del campo, non era completamente invisibile. Chiunque con vista normale avrebbe potuto facilmente notarlo. Eppure nessuno aveva fatto caso a lui.
Solo pochi curiosi gli avevano rivolto degli sguardi, attirati più che altro dai forti accessi di tosse che gli scuotevano tutto il corpo, ma poi per il resto lo avevano ignorato ed erano passati oltre, preoccupandosi di farsi gli affari propri.
Era domenica mattina. Il reverendo Mwema si avviò di corsa a piedi lungo il sentiero sterrato. Guardò l’orologio: erano le sei e mezza. Affrettò il passo. Avrebbe fatto sicuramente tardi per la messa se non avesse camminato più in fretta. Già gli era successo la domenica precedente e, sebbene la congregazione avesse mostrato comprensione per tale ritardo, lui sapeva benissimo che, se fosse diventata un’abitudine, avrebbe rischiato di predicare ad una chiesa quasi vuota come era successo all’inizio appena arrivato in quel luogo.
Solo in seguito i fedeli poterono apprezzare la sua puntualità e grazie alla sua notevole capacità di parlare con spontaneità e concretezza era diventato popolare presso di loro.
La messa delle sette era la prima funzione, ma nonostante ciò era la più frequentata. Il reverendo Mwema non voleva che la sua popolarità potesse essere offuscata o almeno non proprio ora, che avrebbe avuto la possibilità di sostituire il vecchio pastore per un mese. Così decise di prendere la scorciatoia che attraversava il campo e che gli avrebbe fatto guadagnare cinque minuti.
Era troppo presto per trovarvi la squadra di calcio che si allenava, perciò era anche sicuro di non essere colpito da nessun pallone vagante o da qualche giocatore in azione.
Entrando nel campo, aveva quasi inciampato in quel corpo disteso lungo il sentiero. “Sono spiac…” cominciò, ma poi si fermò; quell’uomo aveva un aspetto molto strano, troppo rigido. “Può essere che sia…” pensò il reverendo, ma subito allontanò questo pensiero. Probabilmente era un ubriaco addormentatosi lì; ce ne sono molti al giorno d’oggi. Guardò il suo orologio di nuovo. Le sei e quaranta. Se non si fosse sbrigato sarebbe arrivato anche stavolta in ritardo. Guardò l’uomo di nuovo e concluse, che no, non poteva essere morto. “Inoltre stamattina non potrei proprio fare niente” si disse e pensò ai fedeli e all’incarico che lo attendevano.
“Non ho proprio tempo. Qualcun altro che non ha fretta passerà di quà” e con una preghiera lo affidò al Signore perché ciò si potesse verificare. Poi si allontanò in fretta attraversando il campo.
Il dottor Juma diede un calcio alla macchina, con visibile disappunto.
Si era fermata cinque minuti dopo che era partito da casa sua, proprio vicino al campo sportivo. Guardò l’orologio. Mancavano quindici minuti alle sette. Sarebbe arrivato tardi in chiesa se non si fosse affrettato.
Se avesse cercato di sistemare la macchina o se avesse chiamato qualcuno per farlo avrebbe perso troppo tempo ed inoltre avrebbe potuto sporcare anche l’abito nuovo, comprato per l’occasione poche settimane prima. La cerimonia per il suo ingresso nella congrega dei fedeli più anziani della chiesa era fissata per quel giorno e non poteva assolutamente pensare di presentarsi alla folla con la camicia macchiata di
grasso nero o in ritardo. Sapeva che doveva molto agli anziani che lo avevano giudicato uomo retto e rispettabile, tanto da voler condividere con lui l’onore di quell’incarico, e certamente non poteva metterli in imbarazzo arrivando in ritardo o con l’abito sporco e l’aspetto dimesso.
Decise allora di prendere la scorciatoia che passava lungo il campo sportivo: era un sentiero polveroso ma solo le sue scarpe avrebbero sopportato tale onta; pensò che in fondo era meglio così che essere tutto sporco.
Si accorse subito dell’uomo, appena passò fra i due filari di alberi; era supino con le braccia abbandonate lungo i fianchi con indosso dei pantaloni marroni rattoppati ed un vecchio maglione grigio, il cappello nero e sporco sulla testa e vecchie scarpe di tela senza lacci. Era morto da circa ventiquattr’ore ormai e il dottor Juma era in grado di stabilirlo con la massima certezza. Aveva assistito a tanti decessi nel corso della sua professione. Ma ora non sapeva che fare; probabilmente un morto in un giardino pubblico non era affar suo, ma come uomo che si sarebbe dedicato alla chiesa, in quanto ritenuto giusto e onesto, sentiva di dover fare qualcosa.
La sua coscienza gli imponeva di caricare l’uomo in macchina, di portarlo al più vicino obitorio e poi di chiamare la polizia o per lo meno di chiamarla soltanto. D’altro canto però, toccare e trasportare in macchina uno sconosciuto avrebbe potuto causargli delle noie con la polizia.
Già si immaginava coinvolto in procedure burocratiche lunghissime, sia se si fosse rivolto a loro raccontando una simile storia, sia nel caso in cui avesse semplicemente telefonato per informarli dell’accaduto.
Poi un pensiero che non gli aveva attraversato prima la mente affiorò nella sua coscienza. L’uomo era morto e giaceva in un giardino pubblico; il che restringeva il campo delle ipotesi sulla sua morte. Di questi tempi era possibile essere assassinati ed abbandonati nei campi. Era molto pericoloso passeggiare da soli nel buio in un parco deserto, soprattutto per chi aveva molto da perdere. Guardò il cielo. Non era buio, ma il sole non era ancora alto e non c’era nessuno intorno.
Lui era un uomo che aveva molto da perdere; le chiavi della macchina, un vestito nuovo, un portafoglio pieno di banconote, un orologio d’oro e soprattutto la sua vita che in quel momento gli offriva il massimo delle soddisfazioni. Guardò l’uomo di nuovo. Era dispiaciuto per lui ma non c’era niente da fare e proseguì per il campo di corsa.
John sbriciolò fra le dita la sigaretta quando vide il dottore allontanarsi.
Lo aveva osservato fin dal momento in cui era sceso dalla macchina e l’aveva presa a calci con rabbia. Lo aveva visto lasciare la macchina ed incamminarsi a piedi attraverso il campo; e poi scomparire fra gli ultimi due alberi della fila e non riapparire per un bel po’. Infine lo vide riemergere dal verde scuotendo la testa e con un’espressione preoccupata sul viso. Prima aveva visto il reverendo Mwema fare la stessa cosa. Nessuno dei due sapeva che lui li stava osservando. John era rimasto seduto su uno di quegli alberi a fumare e pensare alla sua vita. Era tornato a casa perché lo avevano sospeso dall’Università per avere incitato gli altri studenti allo sciopero ed averli guidati come loro leader. Era al secondo anno di Legge ed aveva avuto la sfortuna di aver guidato la dimostrazione contro il modo di insegnare dei professori.
La protesta era però degenerata in una rivolta violenta che aveva causato ingenti danni e, pertanto, tutti gli studenti di Legge erano stati sospesi a tempo indeterminato. Questo accadeva due settimane prima.
Erano stati giorni brutti. Era tornato a casa con la valigia in mano e aveva dovuto spiegare a suo padre che era stato sospeso a causa di uno sciopero, dopo che questi aveva venduto il podere di famiglia per permettergli di iscriversi all’Università. I giorni seguenti furono pieni di tensione. Suo padre gli rivolse a mala pena la parola e solo per rimproverarlo ed ordinargli di mettere ordine nella sua vita. Comunque, in quel momento il motivo della sua infelicità era Stella, la sua fidanzata.
Era andato a trovarla il giorno precedente ed era arrivato giusto in tempo per vederla allontanarsi nella direzione opposta, mano nella mano con Muiruri, il suo miglior amico. Oggi aveva intenzione di chiarire con lei e per questo la stava aspettando. Sapeva che Stella avrebbe attraversato il campo sportivo per andare a messa; non mancava mai alla prima funzione della domenica mattina. Ma, adesso, incuriosito dal comportamento insolito del pastore e del dottore, aveva deciso di scoprire che cosa avevano visto di così strano. Li conosceva, erano suoi vicini e buoni amici di suo padre, e così saltò giù dall’albero dove si era appollaiato.
C’era qualcosa lì per terra sotto l’ultimo albero. Dapprima pensò che fosse un cane, ma poi man mano che si avvicinava poté distinguere la figura di un uomo. Notò che giaceva a terra nella rigidità propria della morte e non respirava in quanto mancava il movimento ritmico della respirazione di chi dorme. Si avvicinò chinandosi per vederlo meglio e lo scosse, ma l’uomo non reagì. Era morto e John ne era certo.
Si chiese da quanto tempo giacesse in quel posto e pensò fra sé: “Probabilmente non da molto, altrimenti qualcuno avrebbe già avvisato la polizia”. Il pastore e il dottore lo avevano abbandonato lì e proseguito per la loro strada.
Se avessero voluto chiamare la polizia sarebbero dovuti tornare indietro per raggiungere le loro case o in cerca di qualche telefono pubblico in qualche negozio. La chiesa era nella direzione opposta e loro vi si erano diretti. Probabilmente non volevano essere implicati nella faccenda, pensò John, ma subito dopo si disse che non aveva il diritto di giudicare non conoscendo bene i fatti.
Qualcuno doveva pure informare la polizia; il corpo non poteva rimanere lì nel campo. Tra un po’ sarebbero venuti i bambini a giocare e lo avrebbero visto. Sapeva però che se avesse telefonato alla polizia dichiarando la propria identità avrebbe corso molti rischi. Per cominciare era uno studente sospeso dall’Università; non che questo significasse qualcosa per lui, ma i poliziotti avrebbero potuto sospettarlo dell’omicidio.
Una miriade di buoni motivi per andarsene e lasciar perdere tutto gli balenò nella mente, ma in coscienza non se la sentiva di abbandonare quel corpo senza fare qualcosa. Pensò che molta gente avrebbe cambiato direzione e sperato che qualcun altro informasse la polizia, pensando che in fondo non era affar loro. Ma quell’uomo assomigliava molto a suo padre e lui non poteva scrollarsi di dosso questa responsabilità.
La corporatura era la stessa e se non fosse stato certo di averlo lasciato a dormire nel suo letto avrebbe potuto pensare che fosse lui. Tornò indietro e telefonò alla polizia.
“Se non siete pronte per uscire tra cinque minuti, me ne andrò da solo in chiesa e poi vi arrangerete”. La signora Mwenda sentì suo marito urlare queste parole con rabbia. Era al piano di sopra e cercava di cambiare il vestito candido in chiffon di sua figlia Mary, di cinque anni, che la bambina aveva macchiato con il cioccolato. “Mary, sta ferma e mettiti questo o papà se ne andrà senza di noi”. La rimproverò severamente cercando di farle indossare un vestito verde. “Non voglio questo, voglio quello rosa” disse Mary allontanandolo. La signora Mwenda sospirò; sapeva che non sarebbero andate in nessun luogo se Mary non avesse indossato il vestito rosa. Era il suo compleanno oggi e per lei quello era l’abito giusto per l’occasione. La signora Mwenda era certa che l’incidente del cioccolato era stato intenzionale. La bambina era così eccitata quella mattina che aveva dovuto usare tutte le sue arti di persuasione per farla sedere a fare colazione. E lei poi era ancora in bigodini e accappatoio e Mary in sottoveste e nessuna delle due era pronta per andare a messa. Scese le scale e uscì nel cortile davanti alla casa, dove suo marito era appoggiato alla macchina e guardava il cane nervosamente. “Marcus va senza di noi” disse rivolta al marito. “Devo cambiare Mary e vestirmi; ci vorranno più di cinque minuti”. “Sei sicura? Posso aspettare ancora un po’, del resto è il compleanno di Mary e lei è così eccitata” disse. “No, và e prendi i posti per noi, se aspetti faremo tardi e non ci potremo sedere comodamente” aggiunse. “Va bene” replicò Marcus entrando in macchina. “Ma non fate tardi o perderete la cerimonia d’investitura degli anziani”.
La signora Mwenda rientrò in casa e chiamò Waithera, la ragazza che in cucina stava lavando i piatti. “Puoi stirare il vestito rosa di Mary e aiutarla a indossarlo? Siamo in ritardo” le disse. “Sì, mama” rispose la ragazza con voce triste e fu allora che la signora Mwenda notò i suoi occhi rossi di pianto. “Stai bene Waithera?” chiese preoccupata. La giovane scoppiò in lacrime, tanto da far allarmare la donna che si chiese che cosa potesse preoccupare così una ragazza di vent’anni.
Ormai la conosceva bene, erano due anni che lavorava presso di loro ed era stata sempre allegra e frizzante. Allora la prese per un braccio e la fece sedere. “Waithera che cosa c’è?” Le chiese.
“Mi dispiace di farvi preoccupare mama, ma si tratta di mio padre. Ho appreso ieri che è malato e che è partito da Nyeri per venirmi a cercare qui a Nairobi. Vuole essere accompagnato in ospedale. E’ partito lunedì ed aveva un appuntamento con il medico lo stesso giorno e martedì doveva essere di ritorno a casa. Ma quando non è tornato, mia madre si è preoccupata ed ha mandato un vicino per scoprire che cosa fosse successo, anche perché mio padre aveva insistito per viaggiare da solo” raccontò.
“E tu non lo hai visto?”, chiese la signora Mwenda. “No, fino a ieri non sapevo che fosse malato” rispose Waithera. “Oh, Dio mio è terribile” aggiunse la donna. “Allora ascolta, prepara Mary per uscire ed io andrò a vestirmi e, mentre tu rimarrai qui nel caso tuo padre dovesse arrivare all’improvviso, io, appena sarò in chiesa, informerò mio marito. Se nel frattempo non ci dovessero essere notizie ci rivolgeremo alla polizia per denunciarne la scomparsa. Va bene?”. “Sì mama, grazie” concluse la giovane. Erano le sette e mezza quando la signora Mwenda uscì di casa, spingendo davanti a sé una Mary più docile: avrebbero attraversato il campo sportivo per fare prima. Ad un certo punto la bambina richiamò l’attenzione della madre. “Mamma c’è un uomo morto laggiù”. Il cuore della donna ebbe un sobbalzo e raggiunse di corsa la piccola che inginocchiata davanti all’uomo, lo fissava. “Mary va via di lì” le ordinò afferrandola per allontanarla. Anche lei fissò l’uomo. Sembrava veramente morto, ma non si poteva esserne certi. Del resto per quanto ne sapeva, poteva anche fingere di essere addormentato per poi saltare addosso a chi si fosse avvicinato compassionevolmente. Se poi era morto veramente, non si poteva più aiutarlo e decise di andare in chiesa. Più tardi avrebbe avvisato la polizia ed attraversò di corsa il campo sportivo.
La chiesetta era gremita di fedeli. Il reverendo Mwema era salito sul pulpito.
Aveva temuto questo momento da quando vi era entrato e si era ricordato del brano del Vangelo che doveva commentare quel giorno. Era anche arrivato con dieci minuti di anticipo. Aveva preparato la sua predica per tutta la notte e questa mattina aveva dimenticato la lezione, finché non aveva rivisto i suoi appunti.
Aprì la Bibbia:
Luca 10: 25-37: il buon Samaritano.
Si coprì la faccia con le mani. Il dottor Juma incominciò a muoversi nervosamente.
John, che era appena entrato, uscì subito. La signora Mwenda ebbe come una rivelazione.
Molta gente si era riunita nel campo sportivo nel lasso di tempo in cui i fedeli finita la funzione l’avevano raggiunto. Fra la folla due poliziotti portavano via un corpo mentre altri due cercavano di allontanare i curiosi che spingevano per avvicinarsi e guardare l’uomo ormai cadavere.
Ad una folata di vento improvvisa il lenzuolo bianco che copriva il corpo si sollevò lasciando intravedere il viso dello sconosciuto.
Una ragazza in fondo alla folla urlò e facendosi strada a spintoni corse verso la barella e si lanciò sul corpo senza vita singhiozzando violentemente.
La signora Mwenda riconobbe la giovane: era Waithera.