Vittima d’inganno_Michael K. Macharia
_Racconto finalista quinta edizione Premio Energheia Africa Teller.
Traduzione a cura di Nicola Rizzi
Mi tratta come un sempliciotto, approfittando delle necessità della mia
famiglia a suo piacimento. Deve sapere che non può comportarsi in questo
modo ancora per molto tempo. Questo si riprometteva Murimi mentre,
affranto, camminava lungo il sentiero. Il cappotto pendeva trascurato
dalla spalla destra. Una piccola nube di polvere si alzava ad ogni suo
passo accumulandosi in parte su ciò che rimaneva dei suoi pantaloni. Non
era nemmeno in grado di ricordarsi quando li aveva comprati. Forse lo
aveva fatto quando aveva ricevuto la sua ultima paga.
Il sole bruciava e il cielo era limpido. Non pioveva da mesi. La gente del
suo quartiere, inclusa la propria famiglia, sarebbe presto morta di fame
se non fosse accaduto qualcosa di miracoloso per salvare la situazione. Il
sudore che gli cadeva sugli occhi quasi lo accecava. Eppure riusciva a resistere
alle avverse condizioni atmosferiche. Murimi credeva fermamente
che l’uomo è in grado di lottare e vincere contro le forze del male e che
anche la soluzione dei più enormi problemi risiede nell’uomo stesso. Lui,
come molti altri, si sentiva ingannato dal governo che era stato recentemente
eletto. Essi avevano riposto molte delle loro speranze nella nuova
generazione di leader considerati come la panacea dei problemi che avevano
reso la vita della comunità molto precaria nel corso degli anni. Tutti
loro avevano reclamato con forza un cambiamento; pochi, però, erano
consapevoli di quale tipo di cambiamento fosse necessario. Subito dopo
le elezioni, l’atmosfera era euforica poiché tutto il Paese era riuscito ad
abbattere il regime dittatoriale le cui gravi colpe, però, sembravano ora
sbiadite nella coscienza collettiva. Lo stato di euforia si era trasformato
in un senso di apatia e poi di disperazione estrema.
Murimi fu distolto da questa momentanea aberrazione dalle voci delle donne
del villaggio che si erano recate al fiume per procurarsi l’acqua necessaria
alle loro abitazioni. Il fiume sembrava l’unico segno di vita per gli sventurati
abitanti del villaggio. Le donne parlavano animatamente e Murimi
riuscì a cogliere solo poche parole mentre si avvicinava a loro.
“… non possiamo più aver fiducia in loro”, disse una delle donne.
“Io mi ero svegliata molto presto quella mattina e avevo lasciato i miei
bambini senza niente per rompere il lungo digiuno notturno”, disse un’altra
donna.
“Io non volevo perdermi quell’importante momento politico”, aggiunse
un’altra ancora, “l’unica cosa che importava era che ci fosse qualcuno che
ricordasse le tribolazioni patite dagli oppressi”.
Un’altra s’intromise dicendo: “I politici sono come i serpenti; usano parole
dolci solo per ottenere il tuo voto e poi ti dimenticano fino alle successive
elezioni”.
“Non c’è da meravigliarsi se per loro viene prima lo stomaco”, concluse
Wambui, facendo ridere tutte le altre donne.
Murimi le vide sedute ciascuna sulla propria tanica e continuò il suo cammino
sull’altro lato del fiume quasi ignorandole, ma riflettendo su quanto
aveva sentito.
“Che cosa ha sconvolto la nostra madrepatria, giacché tutti sembrano preoccuparsi
per la stessa cosa?”, pensò tra sé. “Sono anche loro vittime dell’inganno?”,
si chiese.
“Questa è la più grande tragedia del nostro tempo”, pensò.
Era stanco perché era stato di servizio per tutta la notte. Detestava pensare
al lavoro che faceva, eppure ogni sera si ritrovava a percorrere quella
strada. Era deluso dal fatto di dover lavorare senza ricevere il salario.
Si chiedeva perché avrebbe dovuto continuare a lottare quando l’indipendenza
era stata raggiunta da tempo. Era ormai evidente che, benché
l’indipendenza fosse stata raggiunta, la libertà economica era ancora un
miraggio.
Il colonialismo era stato sostituito da una bestia più feroce: gli imperialisti
neri che possedevano e controllavano i mezzi di produzione. Inoltre
Murimi aveva preso coscienza, come molti altri braccianti, che il suo lavoro
serviva ad arricchire i ricchi. Il lavoro per guadagnarsi da vivere era
diventato un lavoro per mantenere in vita i ricchi.
Era uscito di casa la sera prima senza un soldo in tasca e suo figlio sarebbe
rimasto digiuno per il terzo giorno di seguito se sua madre non fosse
riuscita a procurargli qualcosa da mangiare.
Era preoccupato che il rapporto con sua moglie stesse scivolando dalla
padella alla brace. Lei stava diventando sempre più litigiosa e minacciava
di abbandonarlo con la scusa di soffrire per le fredde e solitarie notti,
una condizione divenuta diffusa fra le giovani donne i cui mariti lavoravano
come guardiani notturni. La sua vita era giunta ad un bivio: lasciare
il lavoro e riconciliarsi con sua moglie o lasciare sua moglie e tenersi
il lavoro che non gli consentiva neanche di mantenere la famiglia. Lui aveva
bisogno di entrambi.
Murimi aveva frequentato la scuola superiore con eccellenti risultati che
lo avevano spinto ad iscriversi all’Università. Aveva studiato filosofia superando
l’esame finale col massimo dei voti e con la lode. Aveva sperato
di ottenere un buon lavoro in qualche organizzazione non governativa
prima di continuare gli studi post-laurea. Al conseguimento della laurea,
aveva fatto domanda presso alcune organizzazioni che gli avevano promesso
di contattarlo quanto prima. Ma i giorni diventarono settimane e
poi mesi, e non accadde niente.
Lontano dalle aule universitarie la realtà si rivelava cruda e confusa. La
filosofia rimaneva al massimo un’attività intellettuale, una mera esperienza
platonica i cui paradigmi mal si addicevano alla moderna società dei consumi.
Murimi si era ritrovato a fare il beachcomber (persona che vive di ciò che
il mare rigetta sulla spiaggia) prima di avere il posto di guardiano, grazie
alla gentilezza del suo boss, Karianime.
Costui era per Murimi il compendio di tutti i suoi problemi. Era un uomo
basso e robusto, con una pancia prominente e aveva capelli rari come
le conifere nel deserto del Sahara. Aveva una faccia larga con il naso
sempre spellato piantato proprio nel mezzo. Era abbastanza ricco; possedeva
una grande fattoria poco sfruttata alla periferia della città. Si era comunque
costruito un bungalow dove viveva con sua moglie e due figli
che frequentavano le scuole superiori della città. I ragazzi sarebbero tornati
a casa per il prossimo Natale ormai vicino.
Fu in questa fattoria che Murimi fu assunto come guardiano. Arrivava alla
fattoria scrupolosamente puntuale alle sei della sera, pronto per il suo
turno. Doveva stazionare al cancello e la sua principale responsabilità consisteva
nell’aprire il cancello alla bella Mercedes Benz di Karianime guidata
da uno chauffeur.
Non si può certo affermare che Karianime avesse sudato per diventare ricco.
Suo padre era un famoso uomo politico molto influente nell’arena della
politica. Dopo i suoi O levels1, che non aveva superato, lo aveva inserito
nel Ministero come giovane funzionario. Allora la norma non era il
merito: erano tempi in cui i soldi parlavano forte e chiaro. Karianime, che
non era uno stupido, imparò rapidamente le regole del gioco che gli consentirono
di manipolare la sua scalata nella pubblica amministrazione. Raggiunse
una posizione tanto influente che chiunque lo andava a trovare nel
suo ufficio per chiedere aiuto doveva ungerlo per bene. A ciò si aggiungeva
la fortuna ereditata che gli consentiva di avere uno status sociale invidiabile
ed anche di essere a contatto con i potenti nei corridoi del potere
e del prestigio.
Murimi, comunque, non si lasciava influenzare dal prestigio di Karianime
che era il responsabile del suo stato di indigenza. Infatti, non riceveva
il salario, se meritava di essere considerato tale, da molti mesi. La sua
famiglia ormai ridotta in miseria, stava morendo di fame e suo figlio non
andava più a scuola perché non c’erano i soldi per pagare le rette. Questa
situazione era insopportabile e non riusciva a capire perché Karianime
era diventato così disumano nei confronti dei suoi dipendenti.
Murimi era depresso e camminava come un robot controllato da poteri al
di là della propria comprensione.
“Cos’è la vita?”, si chiedeva.
“Qual è il significato delle cose che faccio?”
“Si rende conto questa gente che è il nostro sangue e il nostro sudore a
renderli ricchi e potenti?”
“Purtroppo no, poiché non hanno né la ragione per capire né il cuore per
sentire”. Queste erano le considerazioni che lo accompagnarono fino alla
sua povera casa davanti al cui cancello giaceva suo figlio Karigu.
L’immagine di suo figlio, disteso lì quasi senza vita, lo sconcertò. Di una
cosa era sicuro: il ragazzo non aveva mangiato niente. Fu preso da forte
disperazione e nello stesso tempo da violenta rabbia. Doveva fare qualcosa,
e in fretta, per salvare suo figlio senza il quale la vita non avrebbe
più avuto alcun significato. Si precipitò verso suo figlio e s’inginocchiò
per sentirgli le pulsazioni. Chiamò sua moglie “Mugure! Mugure!”. Non
ebbe risposta. Si alzò e corse dentro casa gridando il nome di sua moglie.
Silenzio mortale! Lo accolse un silenzio freddo come una tomba. La rabbia
si trasformò in panico, mentre cercava di rendersi conto della cruda
realtà della sua terribile condizione. Totale solitudine.
Mugure lo aveva lasciato, infine. Si sentì come un pallone sgonfiato. Ritornò
da suo figlio incapace di pensare e s’inginocchiò accanto a quel corpo
sentendosi troppo afflitto per continuare a lottare.
“Avrei dovuto fare qualcosa”, pensò tormentato dai rimorsi, ma era
troppo tardi. Gli eventi lo avevano sopraffatto. Trascorse il resto del giorno
in uno stato spasmodico di frustrazione, disperazione e senso di colpa.
Quella sera andò a lavorare con un solo pensiero: dare una lezione
a Karianime.
La mattina Karianime, dopo la doccia, era solito stare dietro la finestra
della sua camera da letto. Proprio davanti a questa finestra si ergeva un
albero che ospitava i nidi di numerosi uccelli e lui si deliziava a sentire il
loro cinguettare prima di vestirsi per la colazione. Ma quella mattina, intorno
all’albero vi era qualcosa di misterioso: mancavano gli uccelli. Karianime
rimase turbato da quel freddo silenzio e guardò attentamente la
pianta senza sapere cosa cercare.
Era lì. Lo vide chiaramente e per questo rimase scioccato. Sentì un nodo
alla gola e quasi vomitò. Non poteva tornare a vedere ciò che aveva visto.
Si voltò e corse verso la sala da pranzo dove trovò sua moglie che
stava preparando la tavola per la colazione. Ansimava e la moglie notò
qualcosa di strano in lui. Quella mattina non l’aveva salutata come al solito
e non le aveva nemmeno rivolto la parola. Era lì immobile. Gli si avvicinò
per capire cosa lo rendesse così insolitamente silenzioso. “Che cosa
hai?”, gli chiese, ma non ricevette risposta. Notò, comunque, che vi
era qualcosa di terribile che lo turbava.
“Qualcosa non va?”, gli chiese di nuovo.
Lui le prese il braccio e la condusse alla finestra e, senza parlare, indicò
l’albero. La donna non scorse niente di particolare. Karianime puntò di
nuovo il suo indice verso l’albero e questa volta lei lo vide. Non poteva
non vederlo.
“Uuuu! Uuuu! Uuuu!” gridò. Eccolo: Murimi morto che dondolava davanti
alla finestra della camera da letto con gli occhi sbarrati e la lingua
di fuori.
Un sempliciotto, questo era apparentemente. Aveva parlato una sola volta,
e per tutte.