Quanto può interessare una cultura che sta per scomparire?_Jack Ernest Mbiso
_Racconto finalista quinta edizione Premio Energheia Africa Teller.
Traduzione a cura di Sara Giaccotto
“Sembrerebbe divertente!”, pensai tra me e me, “dieci giorni e dieci notti,
da solo, nella foresta”, mi sembrava un’ipotesi terrificante. Ma poiché
questo era l’unico modo per diventare un membro rispettato nella
società, ero pronto a seguire fino in fondo le tradizioni della mia gente.
La prima difficoltà, nonché la parte più dolorosa, l’avevo superata. Devo
ammettere che quella è stata l’esperienza più dolorosa che abbia mai
vissuto.
Mio padre e mio fratello maggiore ci erano entrambi già passati. Ogni
qual volta vedevo la loro bocca e notavo quanto rispetto si erano guadagnati
nella società, dentro di me sapevo che era necessario affrontare
quel terribile dolore. Ricordo la settimana prima dell’estrazione dei
miei sei denti inferiori. Tutti i giorni, di mattina presto, mi dovevo incontrare
con i miei coetanei e andare con loro giù al fiume per bere con
la bocca, come gli animali. Lungo il tragitto per arrivare al fiume non
potevamo parlare tra di noi, né rivolgere la parola a nessun altro. Si trattava
di disciplina.
Gli anziani del villaggio ci arrivavano alle spalle, all’improvviso. Qualcuno
di loro fingeva di essere ubriaco o anche bestemmiava e abusava
di noi. Ma a noi non era permesso reagire, né verbalmente né fisicamente.
Dovevamo ignorarli. Altri anziani furbastri raccontavano storielle molto
divertenti, ma a noi ridere durante questa intera settimana era vietato.
Non ci era permesso far uscire dalla bocca alcun tipo di suono. Con-
tinuavamo a tenere le labbra completamente serrate e ruminavamo di
continuo l’erba che ci veniva data dall’anziano del villaggio. Mangiavamo
stando da soli e dormivamo nelle stalle degli animali.
Ogni sera, davanti al fuoco, un anziano ci raccontava delle storie… di come
uno dei suoi coetanei era morto dissanguato dopo che i suoi denti gli
erano stati estratti. Il motivo di tutto ciò era legato al fatto che questi era
un noto bugiardo. Ad un altro le gengive si erano gonfiate fino a far esplodere
le guance e ciò perché questo tipo era solito fare le smorfie alla gente
durante la settimana dell’iniziazione. Dato che non ci era permesso di
proferire parola, non potevamo commentare tra di noi dei nostri diversi
caratteri.
La mattina dell’iniziazione ci dirigemmo al fiume molto presto. Con nostro
grande stupore, gli anziani del villaggio e colui che era addetto all’iniziazione
erano già lì e bevevano dal fiume. Ognuno di noi si inginocchiò
e cominciò a bere. “Non vi alzate. Continuate a bere”, ci disse uno
degli anziani. Prima ancora di capire cosa sarebbe successo, ci ritrovammo
immersi nell’acqua gelida del fiume. Gli anziani guardavano verso di
noi e ci davano altre istruzioni. Ad ogni terzo colpo del loro bastone da
passeggio, dovevamo immergerci sott’acqua. Loro ci guardavano. Chiunque
di noi fosse rimasto sott’acqua più a lungo degli altri sarebbe diventato
il leader del gruppo.
L’esercizio continuò finché gli uccelli non cominciarono a svegliarsi. Era
la seconda selezione. Mio padre non riuscì a nascondere il suo orgoglio
quando fui dichiarato capo di un gruppo di cinquanta ragazzini. Per prima
cosa dovetti vedermela con il bisturi. L’iniziatore avrebbe conficcato
un bisturi tagliente come un coltello nelle mie gengive. Fece così da entrambi
i lati, per ogni dente, ed alla fine, come un cuneo, avrebbe tentato
di estirpare il dente dalla radice.
Mio padre mi lanciava sguardi di fuoco ogni qual volta emettevo un qualsiasi
suono.
“Non posso deludere mio padre”, ripetevo a me stesso.
Quando l’iniziatore tolse l’ultimo dente ero pieno di sangue e tutto dolorante.
Mio padre saltò nel fiume ed io fui spinto verso di lui. Per poco mio
padre non mi affogò. Continuò anche a nominare i nostri avi e a dire loro
“Ecco il sacrificio che stavate aspettando. Ora sono pronto ad unirmi
a voi”. Gli altri ragazzi della mia età erano ancora in acqua, aspettando
in fila pronti per questa prova.
Mio padre mi trascinò davanti al fuoco che stava dall’altra parte del fiume.
Era ormai l’alba, quando raggiungemmo il fuoco, e gli uccelli cantavano.
Accovacciato vicino al fuoco c’era un uomo anziano, il più anziano
del villaggio. C’erano diversi coltelli nel fuoco ardente.
“Ora puoi parlare e se devi piangere è il momento di farlo ora, davanti
al fuoco. Dopo oggi, qualunque sia il dolore o il piacere, voglio la tua
promessa che non piangerai mai più, né emetterai alcun suono simile al
lamento”.
Feci la promessa che non avrei mai mostrato i miei sentimenti, non importa
cosa mi sarebbe successo. L’uomo anziano prese un coltello rovente.
La mia bocca era aperta e toccò le sei ferite dei miei denti mancanti.
Credetemi, il dolore era inimmaginabile! Me la feci quasi addosso.
Strillai per il dolore; voglio vivere per poter raccontare ai miei
pronipoti ciò che mi accadde dopo. Mio padre mi diede una lancia ed
un bastone. Mi disse di andare a casa dalla mia mandria che mi stava
aspettando nella stalla.
Ed ora, eccomi qui! Non so dire cosa sia accaduto ai miei coetanei. Non
so chi mi seguì nell’iniziazione davanti al fuoco. Mio padre mi aveva
detto tutto ciò che riteneva importante. Il resto lo avrei saputo al mio rientro
al villaggio, dopo aver trascorso dieci giorni nella foresta. Ciò che
desideravo era rientrare al villaggio ed essere rispettato da tutti.
Da grande volevo diventare un capo. Sono consapevole della mia bravura
nel prendere decisioni appropriate alle situazioni. E una volta diventato
capo, tutti mi avrebbero rispettato. Persino gli stranieri che governano
la nostra terra, anche loro mi avrebbero portato rispetto; del resto
non avrebbero avuto altra scelta. Tra noi chi non aveva i denti ero
io e non loro! Il rispetto si dimostra in una sola direzione. Se hai i denti
rispetti colui che non li ha. Se non hai i denti, allora impartisci gli ordini
a chi invece i denti li ha. Per questo gli stranieri non avrebbero avuto
altra scelta.
Grazie ai miei tre tori adulti ed alle altre sette vacche giovani, un giorno
sarei diventato ricco. Presi il mio bestiame ed andai via. Avevo dieci
bastoncini con me. Ogni notte ne avrei buttato uno ed una volta ter-
minati tutti sarei tornato a casa. Non vedevo l’ora di trascorrere la mia
prima notte nella foresta. Dalle colline potevo scorgere il fumo del villaggio
in lontananza. Nonnon potevo evitare di domandarmi il perché di
quel fumo. Cosa stavano cucinando? Cos’era che sprigionava tutto quel
fumo grigio e quel particolare odore? “Quando sarò capo”, mi dicevo,“invierò
dei messaggeri in quei villaggi per spiare i loro abitanti e scoprire
ciò che fanno. Gira voce che gli stranieri attaccano i villaggi bruciando
le case, uccidendo gli adulti e saccheggiandoli dei loro animali. Gli adulti
parlano sempre di cose di questo tipo. Una volta rientrato al villaggio
sarò anch’io un adulto e potrò partecipare alle discussioni, iniziando a prendere
decisioni”. A questo pensavo. Da tutto ciò mi separavano solamente
dieci lune.
Quella prima notte salii su uno di quei grandi alberi ombrosi. Mio padre
mi aveva detto che mai nessun animale selvatico ne avrebbe attaccato un
altro sui rami di un albero. Durante la mia vita non avevo mai avuto paura,
e sicuramente questo non sarebbe stato il momento più adatto per averne.
Dormii profondamente e sognai di trovarmi in un mercato e di rapire
la ragazza che sarebbe diventata la mia prima moglie. Scappando via, con
lei sulle spalle, potevo sentire i suoi fratelli mentre mi inseguivano. Non
avrei avuto alcun problema con la ragazza. Anch’io le piacevo ed era d’accordo
che l’avrei messa giù e saremmo scappati via insieme. Le ordinai
di corrermi davanti, e mentre correvo le grida di quell’inseguimento divennero
sempre più alte. Mi ricordo che nel mio sogno stavo cercando di
saltare oltre la siepe di rovi quando caddi a testa in giù. Fu allora che mi
svegliai. Non ricordo dove mi trovassi, ma all’improvviso fui assalito da
un dubbio: dov’erano i miei animali? C’era un gran rumore, una eccitazione
di voci di donne e bambini.
“O miei avi! Cosa succede?”, ricordo che chiesi guardando verso il cielo.
Fu allora che vidi delle donne e dei bambini, degli uomini e dei ragazzi
che correvano verso il cuore della foresta. Non capivo cosa stesse
accadendo. Tutti e dieci i miei capi di bestiame erano spariti senza
lasciare traccia. Mi unii alla folla. Nessuno era in grado di dirmi cosa
stesse succedendo. Non facemmo altro che correre e correre fino a che
non spuntò il giorno. Continuammo a camminare nella foresta. Stavamo
procedendo in direzione del sole. Verso mezzogiorno un uomo ci
ordinò di fermarci. Alle donne, ai bambini ed agli anziani, invece, fu
ordinato di continuare a camminare fino al villaggio successivo. Quanto
a noi uomini, dovevamo dirigerci verso la stella minore. Lì avremmo
trovato alcuni anziani.
Qualcuno disse: “E’ giunto il momento per noi di unirci alla battaglia”.
All’improvviso tutto mi fu chiaro. Gli stranieri erano giunti al mio villaggio
ed avevano distrutto tutto ciò che si erano trovati davanti. Mi dissero
che mio padre, per primo, aveva combattuto per difendere la propria
casa dal fuoco ed era stato ferito da una spada. Il suo corpo era stato
fatti a pezzi e gettato in casa prima che le fosse dato fuoco.
Camminammo in direzione delle colline. Per due lune non facemmo altro
che camminare, avevamo poco da dirci. Quando raggiungemmo la
nostra destinazione fummo accolti con grande calore. Mangiammo della
carne, tantissima carne. Poi ci diedero delle armi e delle vecchie uniformi
da soldato. Un uomo alto e scuro di pelle si fermò davanti a noi
e disse: “Non siamo qui per impressionare nessuno. Non siamo qui per
muovere guerra contro nessuno. Siamo qui per proteggere la nostra terra
e le nostre proprietà. L’unica cosa che sappiamo fare bene è respirare.
Tutto il resto non ha importanza. Sappiamo chi sono i nostri nemici
e li uccideremo. Si stanno muovendo attraverso le vie principali, ma noi
li aspetteremo al fiume. Li uccideremo; prenderemo loro i vestiti e le
armi. Poi aspetteremo il secondo gruppo. Domani mattina cominceremo
ad insegnare ad ognuno di voi a maneggiare un’arma. E’ l’unica cosa
che dovete imparare. Avete occhi ed orecchi: usateli! Per quanto riguarda
il resto, imparerete tutto prima che il nemico giunga al fiume.
Non voglio domande! Non voglio incertezze! Ucciderò chiunque di voi
mostrerà il minimo dubbio!”. Questa fu l’unica cosa che l’uomo ci disse.
Poi se ne andò ed anche noi ci ritirammo. Nessuno doveva sapere
chi fosse quell’uomo e perché camminasse zoppicando. Ad una delle
sue orecchie mancava un lobo.
Dopo circa un mese il nemico arrivò al fiume. Erano in molti, ma non
sapevano che avevamo costruito una trappola. Tutti caddero nel fosso
che avevamo scavato. Molti di loro morirono per il morso dei serpenti;
altri si ruppero il collo cadendo e quei pochi che cercarono di scappare
furono raggiunti dalle pallottole. Mi aspettai delle feste per quella sera.
Mi sbagliavo. L’uomo zoppo non mostrò alcuna emozione. Nessuno disse
una parola. Tutti si misero a canticchiare una canzone che io stesso
conoscevo:
Madre mia, padre mio, fratello mio,
tutti voi che avete dato un senso alla mia vita,
questa sera spiate come il nemico passerà la notte,
e domani mattina mostratemi come rivolgermi verso il tramonto.
Madre mia, tu sei ancora forte;
padre mio, tu sei ancora vivo;
fratelli miei, sorelle mie, aspettateci al fiume.
Canticchiammo questa canzone finché tutti si addormentarono. La
mattina seguente risalimmo sulla collina dove avremmo atteso le prossime
truppe. Mi fermai a pensare. Il pensiero andò alle dieci bestie, al
sogno che avevo fatto sulla mia futura moglie, a mio padre fatto a pezzi
e bruciato nella mia casa. Questi pensieri mi fecero male. Il vero problema
era che qui, tra la gente, nessuno parlava. Si parlava solamente
durante l’allenamento, ma quando ci si fermava per rilassarsi un po’
era come se ciascuno fosse impegnato a risolvere i propri problemi.
Il terzo mese incontrai un ragazzo della mia età. Era stato con me, nel
mio gruppo, per tutto questo tempo ma non lo conoscevo. Persino
adesso non facemmo altro che lanciarci sguardi d’intesa. Fu tutto qui.
Da quel momento in poi, ci cercavamo di notte, in silenzio, e quando
ci incontravamo ci lanciavamo delle occhiate e poi tornavamo ognuno
al proprio posto. Una notte, però, non si fece vivo. Quella notte non
chiusi occhio.
Il giorno seguente ci spostammo su un’altra collina. Il comandante con
un solo lobo ci radunò tutti. Dentro di me ero felice, perché avrei rivisto
il mio amico. Lo vidi durante la parata, ma non ne fui felice. Il comandante
mostrò dei cadaveri, tre per la precisione. Poi disse: “Se tra
di voi c’è qualcuno che vuole sapere cosa sia successo a questi tre, allora
se ne vada e si cerchi un altro accampamento. Qui le regole le faccio
io, tranne che per il vostro respiro. Prima di fare qualcosa dovete
chiedermi il permesso. E ricordate: le domande non mi piacciono! Quan-
do vi ordino di far da guardia al cibo, non vi è permesso mangiare più
di noi. Se lo fate io vi uccido!”. Terminò di parlare e si allontanò verso
la foresta.
Potevo sentire il terrore che si impadroniva di ognuno di noi. Nella foresta
rimase un solo gruppo. Cominciò a piovere. Fu quella mattina che
decisi che sarei scappato da lì, da quella guerra. Non sapevo più chi
fosse il mio nemico. L’unica cosa che volevo era andare al campo profughi.
Mio padre mi aveva raccontato di un campo nel paese di confine
dove viveva gente come me: senza genitori, parenti e senza casa. In
quel paese la gente ti dava da mangiare e un posto in cui dormire. Mio
padre mi aveva anche raccontato che in quel campo avrei potuto imparare
a leggere e scrivere in un’altra lingua. L’unica cosa su cui ci diffidò
era il Dio che queste persone predicavano. Mio padre diceva sempre:
“Lì c’è un Dio che non vuole che un uomo abbia più mogli; un
Dio che non vuole che i suoi figli vadano dallo stregone per curarsi;
un Dio che ordina di fuggire anziché lottare quando qualcuno ti attacca;
un Dio che vuole che si amino i propri nemici; un Dio che vuole
che si legga un libro e che si creda in quanto c’è scritto senza avere alcun
segno come prova; un Dio che non vuole che si uccidano animali
o si versi del sangue come sacrificio…”. “Bambini miei. Se io dovessi
morire e voi doveste andare in una terra lontana, accettate qualunque
cosa, ma non questo Dio!”.
Adesso, qui, stavo meditando di raggiungere questo campo. Avevo deciso.
Ero pronto ad andare. Quella notte ebbi non pochi problemi, pensando
a quel Dio su cui mio padre ci aveva ragguagliato. Quella notte, non
appena ci fummo accampati sotto un albero, cominciò a piovere. I fulmini
colpirono l’albero e il fuoco si diffuse ovunque. Tre dei miei compagni
morirono durante il sonno. Ero paralizzato, non riuscivo a muovermi.
All’improvviso mi apparvero tre uomini vestiti di bianco. Il capo dei tre
cominciò ad impartire ordini. “Non lasciate questo ragazzo. Portatelo con
voi”, disse puntando la lama appuntita verso di me. Dalla mia bocca uscirono
parole convulse: “O mio Dio! Cosa ho fatto per meritarmi questo!”.
E improvvisamente i tre uomini bianchi scomparvero. Corsi verso la macchia,
dove stavano gli altri che erano rimasti a guardare. Cominciai a raccontare
loro dei tre uomini. Non mi credettero. Mi avevano visto giace-
re lì, tra le fiamme, ma non avevano visto alcun uomo con una spada e
vestito di bianco. Quella notte nessuno di noi dormì.
Un ragazzo, poco più grande di me, disse di credere alla mia storia. Mi
disse che anche a lui era capitata la stessa cosa. Disse che aveva nominato
il nome di Dio e che subito dopo i tre uomini erano scomparsi. Il ragazzo
si chiamava Metak. Mi disse anche di avere con sé un libricino che
raccontava di Dio e che leggeva sempre. A partire dal giorno seguente Metak
ed io diventammo grandi amici. Gli rivelai la mia intenzione di scappare.
Mi disse che aveva già un piano e che me lo avrebbe svelato non
appena fosse riuscito a rubare abbastanza scorte dagli uomini che trasportavano
il cibo.
I giorni passarono e la mia storia giunse alle orecchie del comandante.
Un pomeriggio, aveva appena terminato di piovere, mi fece chiamare. Pensai
che mi avrebbe ucciso. Dirigendomi verso la sua tenda cominciai a
chiedere a Dio di non farmi morire:“Oh Dio di Metak, ti prego, se ci sei
e mi vuoi bene, così come Metak sostiene, allora fa che quell’uomo non
mi uccida. Amen!”. Ripetei questa preghiera finché non cominciai a tremare.
Quando raggiunsi il luogo in cui si trovava il comandante il mio
corpo era tutto un fremito. L’uomo mi prese per la spalla e non proferì
parola. Poi disse: “Da oggi porterai il cibo agli altri. Un giorno diventerai
un grande guerriero, persino più grande di me”. Poi contrasse la bocca
e sputò verso di me. Si avvicinò alla sua sacca e mi diede una pistola
dicendomi che si chiamava colt. Mi mostrò come utilizzarla, come caricarla
e come pulirla. Quella notte dormii nella tenda del comandante. In
realtà però non chiusi occhio. La mia mano non lasciò un attimo il calcio
della pistola, nascosta sotto il cuscino.
Ogni volta che il comandante rientrava nella tenda dopo essere uscito per
fare un breve giro di ricognizione si fermava vicino a me e diceva: “Giovane
uomo non stai dormendo e non fare finta. Il tuo respiro mi dice che
non stai dormendo. Ma fai bene a restare sveglio, così puoi pensare”. All’alba
mi rimandò tra i miei compagni. Il leader del mio gruppo mi diede
un sacco di tela contenente della carne e delle ossa. La carne era secca
ed era conservata in buste nere di plastica. In alcuni barattoli c’erano
piselli e mais. Mi fu anche data una nuova uniforme e per la prima volta
indossai una sciarpa come copricapo. Alla fine mi disse: “Adesso sei luo-
gotenente”. Tutti si alzarono con in mano le loro borse e mi salutarono,
persino il mio amico Metak.
Decidemmo quindi di abbandonare l’accampamento e ci mettemmo
in marcia. Il mio amico mi disse che ci stavamo dirigendo verso il campo
profughi, nelle terre lontane. Non riuscivo a credere a ciò che era
successo. Al tramonto io ed il mio amico ci trovammo ad attraversare
un ruscello. Ci stavamo dirigendo verso un villaggio che avevamo
visto in precedenza. Ci accampammo appena fuori il villaggio. Il mattino
seguente ci avvicinammo ad un anziano che stava sistemando le
sue trappole. Il mio amico si rivolse all’uomo in una lingua che io non
conoscevo. Tutto ciò che capii fu: “Loki, Kenya, Kakuma”. Dopo circa
un’ora ci rimettemmo in cammino seguendo le indicazioni dell’uomo.
In seguito il mio amico mi disse che se avessimo marciato giorno e
notte allora, entro tre lune, avremmo raggiunto Loki e da lì saremmo
arrivati al campo di Kakuma.
Aveva ragione. Allo scadere della terza luna raggiungemmo un posto
dai bellissimi edifici ed abitato da molta gente. Qualcuno proveniva
dal mio villaggio. Ritrovai persino mia sorella minore. Per la prima volta,
dopo tanto tempo, fui felice. Ci fu data della carta con su scritte delle
frasi. A chiunque fosse diretto al campo venne dato questo foglio.
Mia sorella non stava troppo bene. Sudò e vomitò per tutto il tempo.
Il mio amico, ormai, era diventato il capo. Era in grado di ascoltare la
gente e di tradurre nella lingua locale ciò che si diceva. Ci disse che il
giorno seguente ci saremmo diretti a Kakuma. Ancora adesso riesco a
ricordare la nostra gioia. Persino mia sorella ammalata riuscì a fare un
sorriso. Quella notte mia sorella stette talmente male da non poter
nemmeno sedersi da sola. Sapevo come curarla, ma in questa strana
terra non c’erano erbe. Dove avrei potuto trovare l’erba medica? Cominciai
a pregare il Dio di Metak di guarire mia sorella.
Durante la mattina del giorno seguente salimmo su dei carri diretti a
Kakuma. Tenevo mia sorella sulle gambe. Continuava a vomitare e tremare.
Poi cominciò ad avere freddo. La donna seduta vicino a me esclamò:
“E’ morta. Gettala giù dal carro!”. Come avrei potuto fare una cosa
simile? Sapevo che mia sorella era morta, potevo vederlo, ma gettare
il suo corpo dal carro in movimento… non potevo farlo. Altri carri
seguivano il nostro. Chiesi al nostro guidatore di fermare il carro così
da poter seppellire mia sorella sul ciglio della strada. Ma non era sua
intenzione fermarsi. Calde lacrime cominciarono allora a scendermi
giù sulla faccia. Cominciai a mormorare una canzone funebre:
Ora che sei arrivata
devi ripartire con qualcun altro;
e quel qualcuno è Ajoik, mia sorella.
Ti affido mia sorella.
Aspetterò che tu torni per me.
Ti prego, ritorna, ma non subito.
Dammi il tempo per preparare…
preparare la mia anima.
Tutti coloro che erano con me sul carro cominciarono a mormorare la canzone.
Ciò mi diede forza e rimasi con Ajoik tra le braccia. La gettai giù,
per terra e guardai mentre gli altri carri, dietro di noi, passavano sulle ossa
e sul corpo di mia sorella. Rimasi lì a lungo finché una delle donne non
mi si avvicinò e mi prese per una spalla. Mi mormorò: “Coraggio, giovane
uomo! Hai fatto la cosa migliore. Hai fatto l’unica cosa possibile,
ciò che avrebbe fatto chiunque di noi. Per lo meno hai potuto dare a tua
sorella un ultimo saluto. Come dice la canzone, prepariamoci perché il
visitatore non tarderà a tornare; tutti noi lo sappiamo”.
Il nostro viaggio fu breve. Tutti noi raggiungemmo il luogo di destinazione
incolumi e cominciammo a preparare il nostro capanno con i teli di
plastica che ci vennero dati. Da allora questa terra straniera è la mia casa.
Frequento la scuola per imparare a leggere e scrivere in inglese. Ogni
domenica incontriamo un uomo che ci parla di Dio. So che quello è lo
stesso Dio che mi ha salvato dai tre uomini vestiti di bianco che volevano
portarmi con loro. Il mio unico rimpianto è quello di non essere tornato
al mio villaggio con i miei dieci animali. Non sono tornato indietro
e non ho affrontato il coltello dell’iniziatore. Sono solo ad un passo dal
diventare adulto. Chi posso accusare per aver sottratto a me ed ai miei coetanei
il diritto alle nostre tradizioni? Chi potrebbe essere, adesso, il capo
del nostro villaggio? Chi potrebbe essere “L’uomo della pioggia”, il
“Protettore dalla tempesta”, l’“Indovino” e, ancora di più, chi potrebbe
essere lo “Stregone” del nostro villaggio?
Ora che mi avete conosciuto potete aiutarmi. Nella mia terra, il Sudan,
non abbiamo solamente perso delle vite; abbiamo perso intere generazioni,
abbiamo perso la cultura e, cosa ancora più importante, abbiamo perso la
nostra integrità. Chi siamo e quali sono i nostri valori? Aiutateci a guarire;
aiutateci a tornare nella nostra terra. Aiutateci ad imparare a saper perdonare
il nemico. Poiché perdonando saremo in grado di costruire delle
certezze e di migliorare noi stessi.
Non restate fermi a guardare ed ascoltare, alzatevi e fate qualcosa.