Per la cruna di un ago_Dominic Chege
_Racconto finalista sesta edizione Premio Energheia Africa Teller.
Traduzione di Sara Giaccotto
Il fruscìo leggero del vento e l’oscillare delle cime degli alberi avvolgevano
la foresta pluviale in un’atmosfera di pace e armonia. La brina era
evaporata e con lei i raggi del sole del mattino, che risplendono sulla terra
marrone e la penetrano in profondità, si erano dispersi. Particelle di
vapore, simili a linee sinuose e impenetrabili, erano sprigionate dal caldo
umido e così intenso da far sudare chiunque.
All’improvviso un enorme bucero batté le ali scomparendo nel verde lenzuolo
della natura, tipica di ogni foresta pluviale. Poco prima un babbuino
era comparso dal nulla scuotendo i grandi rami. Era il mese di ottobre;
a causa dell’acqua abbondante caduta durante il mese passato, alcuni
rami si erano spezzati producendo un rumore sonoro. Il babbuino
era poi scomparso senza nemmeno guardarsi intorno.
Il vento leggero muoveva le acque dello stagno. All’improvviso l’acqua
iniziò a incresparsi, partendo dagli angoli dello stagno. Nient’altro, a parte
il vento, muoveva la natura intorno. Al massimo si sarebbe potuto udire
il fischio acuto dei fucili AK-47 dei cacciatori che rincorrono un animale
selvaggio o sparano contro i leopardi bramosi di carne umana. E
anche se si fossero mai imbattuti in un leopardo, ciò non sarebbe stato
un problema. Tutt’altro; avrebbero potuto perfezionare il tiro.
Quella della caccia era un’arte che praticavano fin da quando erano piccoli.
Probabilmente, un talento ereditato dai nonni. Durante le vacanze, quan-
do le scuole erano chiuse, passavano il loro tempo cacciando. Era il loro
hobby ed erano bravi in questo. Sapevano come sparare. Avevano un tiro
perfetto e sapevano come posizionare le trappole e scuoiare gli animali.
Tempo addietro avevano imparato ad usare archi e frecce, senza che nessuno
gli avesse detto come usarli. Il vecchio del villaggio era solito ripetere:
“Una freccia è una minaccia di cui abbiamo disperatamente bisogno!”.
Talvolta il “Vecchio Padre” usava la pelle degli animali come decorazioni,
per costruire strumenti musicali tradizionali, letti e anche vestiti
tipici che indossava lui stesso o faceva indossare ad altri.
“È una bella giornata, non è vero?”, aveva detto Kaisi, il più alto, forte
e anziano del gruppo.
“Di sicuro la mattinata giusta per far risvegliare tutte le mosche tse-tse
della foresta”, aveva risposto Jimo, “il Bambino”, come da sempre lo
chiamavano. Il fatto che fosse il più piccolo del gruppo gli creava a volte
dei complessi di inferiorità. Nessuno gli permetteva di portare un fucile;
per questo era costretto a nascondersi dietro Kaisi ogni qualvolta
sparava ad un animale. Jimo era addetto al controllo trappole.
“La vita scorre felicemente tutto intorno a noi, Kaisi. Perfino Jimo vuole
arrampicarsi sull’albero più alto e vedere dall’alto l’intera foresta”.
Era una delle solite osservazioni ironiche di Moine.
Tutti erano scoppiati in una risata fragorosa, provocando un’eco che si
era subito smorzato lontano. Ancora una volta il silenzio era piombato
tra loro, un silenzio tombale. Erano pronti a rispondere a qualunque attacco,
specialmente in quella zona della foresta abitata da pericolosi carnivori.
I fucili erano pronti a sparare e gli archi e le frecce pronte a vibrare
dalle loro braccia muscolose. Attraversarono rapidamente il fiumiciattolo;
l’acqua entrò negli stivali. Un desiderio impellente iniziò a
impadronirsi delle loro menti mentre risalivano la scarpata, come una
leonessa che scatta dietro un’antilope.
Si stavano dirigendo verso le due trappole. I pesanti colpi degli stivali riecheggiavano
nel silenzio penetrante, mentre enormi gocce d’acqua cadevano
di tanto in tanto sulle loro giacche. Le chiome degli alberi, sotto le quali
si erano mossi più volte, non si erano ancora asciugate dell’acqua della
notte precedente. Gli alberi, così alti da raggiungere il cielo, non erano
ancora asciutti e l’acqua colava dalle loro chiome come una cascata.
Né Kaisi, né Jimo si accorsero di nulla. Né tanto meno Moine il quale,
timoroso che il terreno potesse aprirsi all’improvviso davanti a sé, creando
dal nulla una voragine, camminava con gli occhi fissi al suolo senza
staccarli da terra.
Il sentiero serpeggiava verso est e le chiome degli alberi erano sempre
più basse. I tre si dovettero fermare e camminarono carponi. Le loro mani
potevano sentire il freddo umido delle foglie secche che giacevano
l’una sull’altra formando uno strato naturale, come un materasso spesso.
Non appena l’ultimo dei tre lombrichi fu a riparo, due profondi fossati
apparvero di fronte a loro. Un ruggito fragoroso li fece trasalire mettendo
in circolo l’adrenalina. Rimasero immobili, aspettando. Il ruggito
riecheggiò sempre più rimbombante, perforando loro i timpani come
una vigorosa esplosione.
“A terra!” gridò Kaisi con il dito sul grilletto, steso in una comoda posizione
da tiro, ma del tutto immobilizzato dalla paura.
“Vroom… Vrrrrooooom!…”. Udirono nuovamente il rombo, ma questa
volta come se fosse in movimento – probabilmente ad velocità.
“Ragazzi! Provate le frecce. Sentite se sono abbastanza appuntite premendole
contro i muscoli. O saremo sbranati come una torta di compleanno!”.
Era la voce di Moine, il primo ad aver avvistato la preda mentre correva
dritta verso il loro nascondiglio. A volte era stato abbastanza fortunato
da ucciderla all’istante, sferrando il primo colpo. Ma per essere sinceri,
con la mano tremante, a causa della posizione in cui si trovava ora,
non gli sarebbe stato possibile. Da quella posizione non poteva avere
una presa sicura sul fucile umido. La preda era a qualche centimetro da
lui, in una posizione perfetta da tiro: gli occhi spalancati, tanto da non
perderlo di vista nemmeno per un attimo, desiderosi di assaporare sangue
umano fino all’ultima goccia.
“Non so che fare, Moine. Bisogna essere precisi in questi casi!”, gridò
uno dei ragazzi. “Meglio perdere un proiettile che lasciarci la pelle, o
no?”, aggiunse con un tono sarcastico.
Kaine sparò un colpo verso la preda, troncando così la conversazione.
Ma il tiro andò a vuoto poiché il proiettile passò sopra la testa della preda
mettendola in fuga. Nessuno poteva credere ai propri occhi; il pericolo
era in agguato davanti a loro; nascosti sotto dei ramoscelli con un
vento così forte da poterli strappare via. Tutti e tre rimasero seduti, immobili,
con le loro bocche spalancate, simili alle porte dell’inferno che
si aprono quando un peccatore muore.
“Quattro!… Tre!… Due!… Un…”, ma non riuscì a terminare il conto
alla rovescia. La preda si era già avventata contro di lui. Moine non
aveva neanche finito di gridare, che il leone gli si era già scagliato contro,
cercando di azzannargli il volto. Non poteva muoversi, la gamba
sinistra era bloccata. Il coltello era lì, scintillante, pronto per essere
usato, a qualunque scopo. Ma Moine non poteva mollare la presa e lasciare
il collo del leone. Era in pericolo! Un pericolo in cui nessuno
avrebbe voluto trovarsi. La saliva del cucciolo cominciò a gocciolargli
sulla giacca, ripetutamente, facendo risuonare ogni goccia come
più grande e pericolosa. L’animale era su di lui, spingeva la testa verso
il petto di Moine. All’improvviso, una freccia sibilò dal cespuglio
e si impiantò nell’animale facendolo crollare a terra. Moine tirò un respiro
profondo, mentre gli altri due corsero verso di lui terrorizzati. Il
sangue sulle mani di Moine era testimonianza della pericolosità di quanto
accaduto. Tutto era reale, fino all’ultimo momento. Naturalmente
nessuno di loro aveva ancora realizzato quanto accaduto, nonostante
Moine fosse consapevole del rischio corso. Una nuova esperienza e
una nuova pelle di leone.
“Ci credi ora, Jimo?”, chiese Kaisi. “Almeno questa volta sei stato preciso
e hai colpito il leone dritto nel collo”.
“Nessuno può reggere alla vista del proprio fratello che si dissangua nel
bacino del Nilo Azzurro”, commentò Jimo. “Un’altra frazione di secondo
avrebbe portato Jimo nella tomba”.
“La finisci con queste sciocchezze?”, gridò Moine. Fu la prima cosa che
disse dopo che la preda era morta. Si rimise in piedi, prese il fucile e se
lo mise in spalla. Jimo e Kaiki lo seguirono riluttanti, scambiandosi occhiate
sconcertanti.
Sfortuna da un lato, ma fortuna dall’altro. Un’antilope era finita nella
trappola numero uno. Era adulta; si dimenava tentando di liberarsi dalla
corda sintetica. Non appena li scorse si girò da un lato, nel suo ultimo
tentativo di salvarsi. Nulla avrebbe salvato l’antilope. Niente, nella
trappola infernale, l’avrebbe potuta liberare. Pochi secondi passarono
prima che il suo lamento cessasse e le tre imponenti figure, tutt’altro che
innocue, le comparissero davanti. Le passarono davanti, facendo finta
di non averla vista; poi il più basso dei tre si fermò e prese un coltello
legato con cura con i lacci degli stivali. Si fermò, sorridendo. La Signora
Antilope non poteva sopportare la vista della lama luccicante, minacciosa,
stretta nella mano destra del cacciatore. Malgrado ciò, restò calma,
mentre si godeva gli ultimi momenti di vita e respirava le ultime
boccate di ossigeno.
La vita di un’antilope innocente strappata via da un cacciatore e dal suo
coltello assetato di sangue – quattro occhi che guardavano, contenti, mentre
la lama d’acciaio penetrava nella pelle marrone. Il sangue sgorgava
dalle vene e dalle arterie come milioni di estuari che risucchiano l’acqua
di un lago.
“Passami il coltello, Signor Macellaio! Jimo! O vuoi scuoiare anche le
ossa!”, chiese Kaisi, tutto preso dal macellare la preda che avrebbe voluto
scuoiare.
“Come avrei voluto vivere prima che i dinosauri si estinguessero! Sarei
stato di sicuro un esperto conciatore. Da quanto ho sentito, gli animali
all’epoca erano così grandi che avresti potuto iniziare a spellarne
uno partendo da dietro, senza che lui se ne accorgesse. Ho sentito che
addirittura avresti potuto raggiungere lo stomaco, tagliare un pò di carne,
impacchettarla in un sacco di plastica e uscire dalla stessa apertura
da cui eri entrato, mentre l’animale dormiva”, disse Jimo, mentre Moine
e Kaisi erano quasi piegati in due dalle risate.
“Smettila!”, disse Moine ridendo. “Non so chi abbia messo in giro una vo-
ce simile sui dinosauri. Kaisi, pensi che gli uomini si siano evoluti completamente?
Nessuno crede alle storie di chi sostiene che l’uomo originariamente
fosse perfetto. Per me queste storie servivano a manovrare gli uomini.
A quel tempo la scrittura non era stata ancora inventata. Magari le
prove al carbonio possono venire in aiuto, ma non credi che i primi attrezzi
scoperti, e che si ritiene siano stati usati dall’uomo, fossero frammenti di
roccia modellati da agenti atmosferici? E poi, perché proprio in Africa? È
vero, l’Africa è la culla della civiltà, ma non è possibile che questi attrezzi
fossero utilizzati ancora prima dell’arrivo dei bianchi? Questo significherebbe
che non abbiamo inventato niente di nuovo!”, disse Maine.
“Abbiamo capito! Saresti capace di riportare in vita Charles Darwin per
avere una risposta!”, disse il Bambino.
Di tanto in tanto, i raggi pomeridiani del sole filtravano attraverso le chiome
degli alberi, creando figure diverse sulle foglie a terra. Il sentiero si faceva
sempre più stretto man mano che procedevano. Alcuni rami erano cresciuti
su entrambi i lati del sentiero, creando un passaggio naturale. Le foglie
gialle ancora attaccate ai rami…, sembrava di essere in un aranceto
durante la fioritura. Le foglie sembravano impazienti di essere accarezzate
dalle calde particelle di gas. In alto, lontane milioni di miglia, per permettere
la fotosintesi, i raggi del sole fornivano clorofilla alle foglie. Alcune
erano morte, desiderose di cadere e decomporsi, piuttosto che restare
appese, penzolanti, senza nutrimento. Non sarebbe stato difficile cadere,
si sarebbero staccate facilmente e avrebbero svolazzato nell’aria, libere,
non appena Moine le avesse toccate. Tutti e tre avevano la mano destra sugli
occhi, per evitare che le punte dei rami graffiassero i loro volti.
Erano passate due settimane dall’ultima volta che avevano fatto visita alla
trappola numero due. Questo significava che probabilmente le piante e
i cespugli avevano ricoperto tutto. Ottobre è un mese piovoso, alle piante
basta un pò d’acqua caduta durante la notte per crescere, mantenendo il calore
del sole durante il giorno.
“Non siamo vicini alla terra di Wanui dove Lucifero crocifigge chi gli ha
mancato di rispetto?”, chiese Kaisi.
Da tempo immemore, la leggenda di Wanui terrorizzava la popolazione
locale. Per anni, la paura scorreva lungo le vene di coloro che girovagavano
nelle profondità della foresta. Wanui non era un animale, neppure un
demone; era un essere umano; non si sa a quale stirpe appartenesse, né perché
avesse scelto la foresta come sua dimora. Il suo corpo era totalmente
ricoperto di peli dalla testa ai piedi; per questo incontrarlo provocava uno
shock a chiunque. Gli animali si erano abituati alla sua presenza e lui aveva
acquisito gli istinti tipici delle bestie, rendendo così la sua vita più semplice.
Chi può vivere da solo, anni e anni, in condizioni durissime e senza
parlare con nessuno? Condizioni durissime? Sì, esposto alle intemperie.
Durante la stagione delle piogge la temperatura crolla e la foresta è avvolta
nella nebbia e nella foschia. E Wanui detestava quel clima. La carne era il
suo cibo quotidiano e si racconta che mangiasse antilopi a colazione e a
pranzo. L’idea di preparare uno stufato con gli uccelli selvatici catturati di
mattina, non gli aveva mai sfiorato il cervello.
“Ci sono delle orme, ragazzi. Credo che qualcuno sia stato qui prima di
noi”, disse Moine, indicando un punto della foresta dove qualcuno, probabilmente,
si era accampato di notte, gettando troppa terra sulle foglie
secche.
Le orme non erano né grandi né piccole. Sicuramente erano state lasciate
da qualcuno che indossava pesanti stivali militari e nemmeno troppo tempo
prima. Sul suolo era visibile solo l’orma di un piede sinistro; questo
poteva significare che l’intruso, o chi per esso, si era potuto nascondere
nella foresta e li stava osservando. O magari aveva lasciato la zona,
incamminandosi verso qualche posto che mai nessuno dei tre avrebbe
immaginato. Tutti cercarono di ignorare quelle orme.
“È Wanui!”, esclamò Jimo. Ma nessuno rispose.
“Non essere sciocco. Wanui non porta scarpe!”, disse Kaisi. E in realtà aveva
ragione. L’ultimo membro della tribù dei Mau Mau camminava scalzo.
Era stato fortunato, e l’uomo bianco lo aveva risparmiato, mentre gli
altri membri della sua tribù erano stati fatti fuori, colpiti da spietati proiet-
tili. Wanui non sapeva nulla della rivoluzione; era rimasto lì, a vagabondare
da un angolo all’altro della foresta. Alcuni dicevano che era morto
per una ferita ad un fianco.
“Quelle funi sono state unite! Non vedete quelle due grandi orme? C’era
anche un cane. Forse un cane da caccia!”, Moine si fece prendere dalla
paura.
“I cacciatori girano per queste zone adesso?”, chiese Jimo, con un tono di
disapprovazione più che interrogativo.
“Qualcuno sta giocando a nascondino. C’è una radice lì che prima non
c’era”, fu quello che Moine riuscì a dire prima che una freccia fosse scagliata
da non si sa dove e gli trafiggesse il petto da dietro. Cadde sulle
ginocchia, a peso morto, mentre il liquido sinoviale assorbiva il colpo.
Nel giro di pochi secondi il suo volto divenne pallido, come quello di
una statua ricoperta di piante, licheni e alghe. Il suo corpo circondato
dal sottobosco; un ultimo alito di vita spirò dal suo corpo.
Il corpo giaceva per terra, accanto alle gambe di Kaisi. Una grossa macchia
rossa si estese intorno alla punta della freccia, allargandosi in un fiume
di sangue che immediatamente impregnò la giacca ed i pantaloni.
Non erano trascorsi nemmeno dieci secondi. Tutto era cambiato, improvvisamente.
A poco più di dieci centimetri dal corpo, una figura scura, avvolta in una
giacca nera, si mosse dietro Kaisi e Jimo. Se uno dei due si fosse girato,
avrebbe visto i pantaloni verde militare infilati negli stivali. Si mise la
faretra sulle spalle. Si era spostata dal suo primo nascondiglio. Si era mossa
verso destra nascondendosi dietro un cespuglio, riparata da un gigantesco
tronco di albero di mogano. Da lì nessuno poteva vederlo. Estrasse
due pistole, una dalla tasca della giacca ed un’altra dalla fondina che
portava allacciata alla cintura. Lentamente tirò fuori un fazzoletto verde
asciugandosi il sudore. Dalla tasca dei pantaloni sfilò un pacchetto, avvolto
in un foglio di carta nera di plastica. Senza far rumore lo aprì. Il
pacchetto custodiva una scatola marrone, simile a quella dei fiammiferi.
Prese quattro pallottole e caricò entrambe le pistole; quindi ripose le
pistole nella fondina della cinta, una a destra e l’altra a sinistra; chiuse
la scatola, la riavvolse nella carta e la ripose in tasca. Dopo di che, sempre
dalla tasca, estrasse un oggetto nero; lo osservò attentamente e se lo
mise in bocca. Che stupido! Non capiva da dove proveniva quel suono.
Solo uno sciocco non avrebbe capito che il suono era provocato dall’aria
soffiata all’interno dell’oggetto.
La tensione era alta. Uno per volta, i due si chinarono su se stessi. Si
guardarono con aria perplessa, poi Jimo esclamò: “Un fischio. L’hai sentito
Kaisi? Dobbiamo sfuggire dai nostri inseguitori”.
Kaisi non disse nulla. Tese la mano destra e strinse quella di Jimo. “Incrociamo
le dita, fratello. Dobbiamo separarci. Ti prometto che ci rivedremo.
Si tratta della nostra vita; dobbiamo lottare per tenercela stretta!”.
Nessuno dei due attese che lo sconosciuto assassino scagliasse la mortale
freccia nel loro corpo. Jimo voltò a sinistra, mentre Kaisi corse in
avanti. I fucili sparavano ritmicamente, dando la caccia ai due ghepardi
in fuga. Una pallottola sfiorò Jimo e lo superò. Nel tentativo di fuggire,
il Bambino era inciampato in un grosso tronco. Non l’aveva visto,
né si era preoccupato di vedere se l’albero fosse caduto per la botta.
Kaisi scivolò e cadde a terra, di fianco. Cadendo, scivolò velocemente
verso il basso, facendosi largo nel sottobosco come una valanga che precipita
a valle. La gamba sinistra inciampò in una radice, ma si liberò subito,
tirandola e facendo forza con le braccia. La caduta gli aveva fatto
guadagnare terreno sui suoi inseguitori, ma la radice lo aveva ferito in
mezzo alle gambe. Sentì un dolore lancinante.
Jimo e Kaisi erano fuori portata. Poco distanti dai loro cacciatori. Ma
nessuno, nemmeno un soldato, poteva sfuggire ad una freccia avvelenata.
Nel giro di mezz’ora, due vite erano state spezzate ed altre due si
erano date alla fuga.
Subito dopo il secondo fischio, sei figure uscirono allo scoperto dal loro
nascondiglio. Il tonfo dei pesanti stivali militari aveva un suono funesto.
“No, andiamo…! No! Forza!”. I pugni chiusi stringevano saldamente
il guinzaglio di possenti segugi.
I cani, alle calcagna delle prede, annusavano di tanto in tanto gli stivali
dei propri padroni, rizzando le orecchie e scodinzolando la coda pelosa,
ogni qualvolta sentivano qualcosa. Tutti gironzolavano intorno al
loro padrone, chino sul corpo di Moine. Gli occhi, privi di qualunque
espressione, esaminavano attentamente il corpo ormai dissanguato. Gli
altri sei lo guardavano impazienti, mentre apriva una tanica di benzina
gettandola sul corpo. Poi, impassibile, si alzò e si voltò verso gli altri
guardandoli negli occhi in cerca di approvazione.
Dalla tasca della giacca estrasse un pacchetto di sigarette e se ne mise
una in bocca. Accese un fiammifero, si accese la sigaretta e lo lanciò
dietro di sé. Una fiammata giallognola avvolse ciò che restava del corpo
di Moine. Non aveva avuto alcuna pietà.
“Meno uno!”, esclamò il leader. “Ne sono rimasti altri due. Andiamo!”.
Sette uomini, preceduti dai loro cani, si misero in marcia. I cani tiravano
con la testa bassa. Nessuno disse nulla. Un semplice mormorìo avrebbe
messo in allarme i fuggitivi. I sette si muovevano velocemente senza
fare alcun rumore, come se stessero camminando in punta di piedi.
I fucili, saldamente impugnati e le dita sul grilletto, pronte a sparare. Rimasero
in silenzio per un pò. Poi il passo leggero dei cani, unito a quello
degli uomini, ruppe il silenzio. Uno dei cani cambiò improvvisamente
direzione.
Il passo dei segugi accelerò e si trasformò in corsa, mentre la distanza
tra loro e i fuggitivi diminuiva. Sempre più nel cuore della foresta. Il
respiro rapido e affannoso rendeva l’aria umida. Il passo leggero era divenuto
sostenuto. Una corsa matta per cercare di tenere l’andatura dei
cani. Il sudore gocciolava sulla maschera nera. “Ferma!”, qualcuno gridò
all’improvviso.
Era la voce del leader. Tutti si bloccarono al comando. “Uno di noi è
stato colpito da una freccia! Si sta trascinando a terra! Venite qui, tutti!”,
continuò.
“Haaa!”, fu l’ultima parola detta dall’uomo prima che il suo corpo si pie-
trificasse, diventasse come un pezzo di legno. Il respiro si fermò e il cuore
smise di battere. I sei cacciatori d’anime si fermarono a guardare il
corpo senza vita, impassibili. Nessuno di loro si avvicinò al cadavere.
Tutti conoscevano la procedura. Una delle pesanti buste che contenevano
la benzina fu svuotata sul corpo senza vita. Come voleva la tradizione,
il leader tagliò una grossa fetta di carne prima che il corpo fosse
avvolto dalle fiamme e un odore di carne bruciata si diffondesse nell’aria.
Il predatore era diventato preda ed era divenuto cenere. Il primo dei
cacciatori d’anime era morto. Nel verde della foresta, davanti agli occhi
di Dio, una terza vita era stata strappata.
“Che riposi in pace! Non disperate! La caccia è ancora aperta”. Una breve
lezione di ciò che può accadere ad un cacciatore. “Andiamo! Non è
lontano. Tra un pò sarete soddisfatti”, disse il leader.
Nessuno si preoccupò del cadavere. Tutti e cinque furono richiamati dall’abbaiare
di uno dei cani, qualche metro più in là, tra i cespugli. Non
sapevano dove fosse con precisione, ma sapevano che l’avrebbero trovato
e che valeva la pena cercare. Era davanti a loro. I movimenti degli
altri cani erano un chiaro segno. Il ringhio dei cani fece scorrere un
brivido di paura nelle vene dei cinque. L’adrenalina era altissima, negli
inseguitori quanto nei fuggitivi. Tutti si misero al riparo, anche se i cani
non scovarono nessuno.
“Qualcuno sta giocando a nascondino!”. Uno degli inseguitori riconobbe
la voce di Kaisi sull’albero. Nonostante fosse terrorizzato dalla paura,
era pronto a correre il rischio. Un soldato non getta facilmente le armi.
Bisogna mantenere la calma e tenere i nervi saldi. Se fosse riuscito ad uccidere
tutti i cani, nessuno avrebbe potuto fiutare le sue tracce e nessuno
sarebbe arrivato al suo compagno. Era pronto a tutto, anche a morire, ma
non da solo. Doveva lottare per la propria vita e vendicare Moine.
“Sparate!”, urlarono i sei. Udito il comando si era nascosto anche lui.
Aveva trovato rifugio su di un ramo. Da lì prese la mira e nel giro di pochi
secondi una raffica di proiettili fu sparata sui cani. Fu il caos; sembrava
essere ai tempi di Sodoma e Gomorra.
Fortunatamente, riuscì ad abbattere tre cani e a ferirne un quarto alla
gamba.
Il latrato del cane in agonia era insopportabile. Era come avere un trapano
nelle orecchie. Un colpo lo zittì per sempre. Tutti rimasero con
le orecchie tese ascoltando l’eco dell’esplosione provocata dallo scoppio
che lentamente si perdeva nel cuore della foresta, alle loro spalle.
E tre! In una giornata cinque vite avevano abbandonato i loro corpi.
“Ha finito i proiettili! Ah! Ah!”, commentò qualcuno.
“Mettiamolo alla prova. Vediamo se lo sciocco ha tanto coraggio da farci
fuori come ha fatto con i nostri cocker. Vediamo se gli è rimasta qualche
pallottola in canna”.
“Ti sei dimenticato del gigante chiamato Golia e del ragazzo, piccolo
come un granello di sabbia, chiamato Davide?”, disse un altro alzando
la pistola e cercando di trovare una miglior posizione per sparare.
Chiuse un occhio e mirò all’albero.
“Spara! Sbrigati! Altrimenti il tuo sedere diventerà come un colabrodo!
Non credo che ti piacerebbe. O no?”, sbraitò il leader, con tono contrariato,
digrignando i denti e tamburellando le dita sul fucile.
Fortunatamente, Kaisi lo aveva scorso ben prima che iniziasse a sparare.
Non mosse un muscolo. Sollevò l’arco e scagliò una freccia contro
il Dio Tecnologico. Si udì un sibilo nell’aria. Kaisi prese così bene
la mira che l’uomo non si accorse nemmeno che la freccia gli aveva
diviso in due il cranio. Lasciò andare la pistola quasi non accettasse
quanto appena accaduto. Ma ormai era morto. Tre più cinque, più uno.
I cinque uomini erano così intenti nel voler scovare Kaisi che non batterono
ciglio. Il rumore assordante dello sparo fu assorbito nelle viscere della
foresta. Cinque uomini contro uno con il vantaggio dei cani. Un disastro,
soprattutto per il giovane nascosto tra le foglie che non sapeva nemmeno
il perché di quel braccaggio. Alla vista dei cani era diventato serissimo.
Con violenza, qualcosa colpì il ramo su cui era seduto. Nel voltarsi Kaisi
si espose come un filo d’erba esposto al vento del deserto. Di colpo
cadde dal suo rifugio. Un volo di dieci metri. Una caduta del genere
avrebbe rotto la spina dorsale a chiunque, ma non la sua. Il letto di foglie
attutì il colpo. Era ancora vivo, ma sfortunatamente la botta era stata
troppo forte per rialzarsi. Sgranò gli occhi e in un attimo spirò. Kaisi
se ne era andato, per sempre.
Jimo correva lungo l’interminabile sentiero, nel cuore della foresta. Grosse
gocce di sudore cadevano sulla sua giacca. Non osava guardarsi le
spalle. Il rumore degli spari lo raggiunse da lontano, lieve.
Una leggera pioggerellina iniziò a scendere, mentre l’oscurità avvolgeva
la foresta in una coperta invisibile, anche al fuggitivo. “Il buio è un
vantaggio”, pensò tra sé e sé, anche se di sicuro gli inseguitori avevano
delle torce. Ma se anche lo avessero raggiunto, le torce avrebbero
guidato la sua freccia. Jimo non aveva ancora visto i cani. Ma quando
il guaito, divenuto ringhio, lo raggiunse, fu assalito dallo sconforto.
Poteva ancora farcela, anche se non sapeva che direzione prendere. La
foresta non era uno dei suoi luoghi preferiti di notte.
Più Jimo correva e più l’abbaiare dei cani sembrava vicino. Sapeva che
lo avrebbero raggiunto se avesse rallentato il ritmo. L’acqua era il nemico
numero uno dei cani. Se avesse raggiunto il fiume, i cani non avrebbero
potuto rintracciare il suo odore. Doveva raggiungere il fiume
Ngoce. Una volta lì, avrebbe nuotato.
Qualcosa all’improvviso lo colpì alle spalle. Cadde di colpo a terra. Era
uno dei cocker! Non lo aveva visto. Jimo sapeva che un solo secondo
perso sarebbe stato letale. Un attimo e si sarebbe ritrovato nella tana
dei leoni. Un leggero movimento e Jimo affondò il coltello nel collo
del cane. Non aveva fatto pochi metri che la luce di una torcia brillò
davanti a lui e una voce profonda gli intimò di fermarsi. Un’altra luce
comparve davanti ai suoi occhi. “Ecco. Siamo giunti alla fine!”, pensò.
Poteva udire altri passi che si avvicinavano. Tutti respiravano affannosamente.
Ci fu un attimo di silenzio. Poi il leader disse: “Sei libero di andare, Ji-
- Ma dove? Dovresti metterti in ginocchio e chiedere perdono dei
tuoi peccati prima di essere avvolto dalle fiamme!”.
“Sto per morire?”, chiese Jimo in preda al panico. Le mani tenevano la
pesante sacca. La lasciò cadere. I minuti passarono. L’arco, la faretra e
il fucile giacevano a terra, sulle foglie, davanti a lui. Non potevano essergli
di nessun aiuto.
Il tonfo acuto provocato dal sacco catturò l’attenzione dei cacciatori. Jimo
approfittò della situazione e cominciò a correre. Distratti dal rumore
non si accorsero che stava scappando. Si girarono verso la direzione
da cui giunse il suono. Poi, di scatto, si voltarono nuovamente verso Jimo.
“Tiro perfetto”, pensarono tutti mentre prendevano la mira. La forza
della disperazione spingeva Jimo a correre. Aveva quasi raggiunto il
fiume. Tutto ciò che avrebbe dovuto fare era gettarsi in acqua. Una forza
sconosciuta lo sosteneva.
I cacciatori scoppiarono a ridere. Appoggiarono i fucili sulle spalle e presero
la mira. Un gioco da ragazzi. Era giunta la fine, sebbene uno di loro
sapesse. Sapeva che niente e nessuno al mondo avrebbe mai potuto
provare lo stupro di quella bambina; di quella innocente di sette anni
che aveva poi ucciso. Solo quei tre ne erano a conoscenza. Ed ora anche
l’ultimo stava per morire.
La brezza della sera riscaldava le acque. E l’acqua tiepida riscaldò le
mani di Kagori, il contadino. Si lavò le mani. Era pronto ad andare quando
scorse un puntino davanti a lui. Si fermò, indeciso se toccarlo o meno.
Non aveva mai visto nulla di simile prima; era una sacca piena d’oro.
Lì? Di notte? Indugiò un attimo, poi la afferrò. Era pesante. Un largo
sorriso comparve sul suo volto. Si riprese dallo stupore e tirando la
sacca tirò fuori dall’acqua il corpo di Jimo.
Immaginava cosa fosse successo. Ne fu certo quando il proiettile venne
estratto dalla spalla. Ciò che non sapeva, però, era che la porta dalla
quale era passato non era visibile ad occhio nudo. Così piccola, microscopica…,
come la cruna di un ago. Ma nonostante tutto, quella notte,
gli abitanti del villaggio danzarono al ritmo della musica prodotta
dallo strumento che il nonno di Jimo aveva fabbricato.