Skwota_Thadeus Obadha Odenyo
_Racconto finalista sesta edizione Premio Energheia Africa Teller.
Traduzione a cura di Mariella Silvestri
“Mamma, mamma”, gridò Skwota in cerca di aiuto. Un mostro che spostava
la terra era nei dintorni e stava compiendo grandi distruzioni fra le
indifese case di cartone e plastica che gli umili residenti della dolce vallata
avevano indicato come loro residenza per più di tredici anni. I residenti
avevano ricevuto l’avviso di sgombero una settimana prima.
Nonostante il tempestivo preavviso la maggior parte dei residenti non
sapeva dove andare e aveva deciso di aspettare che il bulldozer li strappasse
via di lì. Comunque, alcuni di loro speravano che accadesse un
miracolo e che gli esecutori dello sgombero andassero via. “Questo, questo
e questo”, lei cercava di raccogliere freneticamente tutto ciò che possedeva.
Si sentì il grugnito del bulldozer a meno di cinquanta metri. Le deboli
case soccombevano sotto le pesanti macchine mentre i proprietari
scappavano verso la salvezza. Si potevano sentire i pulcini emettere versi
rauchi mentre cercavano di allontanarsi dalle mascelle del terribile
mostro. Fuori dalle case, mentre facevano roteare i manganelli, poliziotti
dalla faccia truce erano in attesa. Simbolo di oppressione e brutalità
contro i poveri. Fermi, sospesi fra emozioni contrastanti e senso di autorità,
guardavano quelli che dovevano essere sgomberati che non facevano
alcun tentativo di resistenza. Gli occupanti fuggivano fuori dalle
loro case instabili. I loro animali e i loro figli correvano il grave rischio
di essere travolti dal mostro senza cuore. Nella prima casa un bambino
di cinque anni era morto schiacciato poiché era tornato indietro a prendere
il suo giocattolo. I poliziotti avevano pensato che fosse un cane e
lo avevano ignorato del tutto; la madre del bimbo era andata nell’en-
troterra e lo aveva lasciato in custodia a una cugina che la sera prima
era andata a una serata in discoteca nello slum vicino. Non sapeva che
il mostro avrebbe colpito a mezzanotte. “Signore del cielo, perché io?
Perché questo problema non ha mai fine?”, si poteva sentire imprecare
un vicino due case più avanti. Quando infine il bulldozer cominciò a distruggere
la casa di Skwota lei aveva già raccolto le sue cose in un sacco
di sisal. “Ho salvato la mia casa, sono fortunata ad aver salvato la
mia casa dal governo”, sospirava con sollievo guardando con rabbia il
mostro di ferro che inghiotte la casa che aveva conosciuto per diciotto
mesi.
Skwota una adolescente combatteva contro le vicissitudini della vita moderna.
Dopo aver a stento completato la scuola elementare era rimasta
incinta di un fidanzatino che era scappato dopo aver saputo che lo zio
di lei li stava cercando. Anche dopo aver portato completamente a termine
la gravidanza, il piccolo era nato sottopeso ed era morto per una
delle tante malattie infantili africane.
I dottori avevano detto che la malaria aveva causato un grave anemia
nel feto che lo aveva devastato prima della nascita. Quando, in seguito,
sua madre era morta di AIDS Skwota dovette sopportare quel marchio
di infamia e non poté trovare pace a casa. Con il miraggio della vita
migliore che sembrava aspettarla in città, aveva lasciato la sua casa
di mattina presto e aveva chiesto un passaggio a un camion vuoto che
l’aveva portata in città in cambio di un favore sessuale. Al momento del
suo arrivo in città non sapeva dove andare ed era stata accolta dalla Chiesa.
Aveva vissuto con uno dei cristiani per due mesi prima di abbandonarli
un mattino di buonora. Aveva incontrato Bahati, un minatore di una
cava, che di solito consegnava le pietre per i lavori nella chiesa. Durante
il primo appuntamento fu timida e terrorizzata a causa delle sue passate
esperienze, ma Bahati la rassicurò dicendole che era un uomo maturo
e non l’avrebbe mai delusa. Il giorno che era scomparsa dalla casa di
Mlokole, c’erano state delle dicerie secondo le quali era fuggita con uno
dei ragazzi dei dintorni. Dopo due settimane le cose erano ritornate alla
normalità e lei aveva ricominciato ad andare in chiesa con gli altri
cristiani.
Il marito di Skwota aveva lavorato nella cava fino a quando non aveva
incontrato la morte. Il giorno era cominciato male già dall’alba e Skwota
aveva addirittura detto a suo marito che aveva un brutto presentimento
per quel giorno. Aveva sognato che delle api pungevano suo marito. Il
sogno era stato così vivido che poteva dire anche i dettagli riguardanti
il colore dei vestiti che suo marito indossava.
“Vedi, per questo dovresti andare in chiesa invece di andare a lavorare”,
aveva insistito lei quella mattina.
“I sogni sono figli delle menti oziose”, suo marito l’aveva lasciata con un
leggero colpetto. Bahati continuò a lavorare sperando di ritornare a casa
a sera per essere con sua moglie. Posto sbagliato nel momento sbagliato;
aveva finito di lavorare abbastanza presto ed era al mercato per comprare
del cibo quando dei colpi di pistola avevano cominciato a riempire l’aria.
Skwota non riusciva a perdonare la pallottola che aveva ferito mortalmente
suo marito.
Mentre cercava di sistemarsi il sacco in spalla, le lacrime cominciavano
a scivolare lungo le guance. “Se solo Bahati fosse vivo…”, sospirava
profondamente e una cascata di lacrime rabbiose scesero lungo le sue
guance “… forse questo peso sarebbe più leggero”, borbottò. Mentre
lottava, con i suoi pensieri, infine il sacco accettò di scivolare dolcemente
contro la forza di gravità. “We are the children…, we are the children…”,
intonò una canzone di Michael Jackson. Tutti i suoi vicini più prossimi
erano andati via in tempo, ma lei non aveva potuto farlo perché non aveva
un posto dove andare. “Erano brava gente perché l’avevano aiutata
con i resti di suo marito e forse l’avrebbero aiutata anche in questo caso”,
pensò ad alta voce mentre la cacofonia riempiva l’aria e una tempesta
formata dal mostro che lottava portò la polvere dappertutto. C’era
un odore misto di putrefazione e dolci e profumi mentre il mostro creato
dall’uomo appiattiva le case nella dolce vallata. Il terreno tremava
inviando brividi di paura lungo la schiena degli spettatori. Gli uomini
con l’elmetto si muovevano all’unisono cercando i ribelli. La sonnolenza
aveva umiliato tutti i residenti, tanto che i poliziotti non si aspettavano
resistenza. Poi improvvisamente un uomo arrivò di corsa sostenendo che
la sua capra era stata calpestata dal mostro.
“Niente, non c’è niente da fare… niente da fare”, urlò ripetutamente.
La perdita dell’unica cosa che possedeva era insopportabile. I poliziot-
ti ebbero difficoltà nel domare l’uomo che conosceva quei luoghi come
il palmo della sua mano. Si muoveva velocemente da destra a sinistra
costringendo i poliziotti a una corsa frenetica. Quando infine lo acciuffarono,
lo colpirono con i manganelli fino a farlo svenire. Giaceva
in una pozza di sangue, contorcendosi nell’agonia. Era l’unica voce contraria
e ora era tornata la calma e il calderone poteva andare avanti senza
tregua.
I ricordi di quel giorno erano ancora freschi nella sua mente ed eventi
come questa demolizione richiamarono sentimenti di dolore e agonia
nel cuore di Skwota. Quel giorno aveva dovuto corrompere la guardia
di sicurezza del cimitero. La tomba dovette essere scavata a mezzanotte
e il funerale ebbe luogo alle tre del mattino. La notte era nuvolosa e
si poteva a malapena scorgere una lucciola. Una immobilità infernale
ingolfava l’aria gettando un ritmo sepolcrale sui presenti.
“Per favore, prenda questi e mi faccia seppellire mio marito”, ricordava
con le lacrime che debordavano dopo aver colmato i pozzi formati
dai precedenti sfoghi di lacrime.
“No, no, no… Skwota, non prenderò meno di duemila scellini, sai che
io devo solo raccoglierli questi soldi, sono tutti del mio capo”, affermò
Solja mentre camminava nel buio. Skwota aveva racimolato quattromila
scellini e ne aveva usato la metà per pagare il guidatore. Yeye, il guidatore,
ne aveva chiesti di più, ma quando si era reso conto che Skwota
aveva un’altra offerta, aveva accettato di rubare la macchina del suo
capo per portare i parenti al cimitero. “Sto rischiando il lavoro perché
sei una mia vicina e una brava persona. Vorrei poter fare di più”, disse
Yeye mentre intascava i soldi.
“Solja, sei stato un buon vicino per me e non farò nulla per renderti infelice.
Posso offrirti ottocento scellini, per favore, accettali”. Mentre gli
scavatori tiravano fuori l’ottavo piede di terra dalla buca, incontrarono
la carcassa di un altro uomo.
“Non rimescoliamo questi resti perché non sappiamo con cosa potrebbero
colpirci”, disse il capo degli scavatori. Fece un cenno ai suoi sottoposti
affinché coprissero le ossa con uno strato di terra e si preparassero
a seppellire Bahati. Gli scavatori erano abituati a questi incontri e
non ne furono per nulla turbati. Le tombe dovevano essere disposte in
modo che il campo assomigliasse a un giardino per evitare i controlli
delle guardie comunali. Il morto era stato trasportato su un pick up mascherato
da furgone di una compagnia edile. Il corpo era avvolto in un
sudario a vari strati e nascosto sotto un mucchio di concime e fiori.
“Ok, ok Skwota, so che sei rimasta vedova, posso tornare fra qualche
tempo per il resto della somma”, disse l’uomo mentre conservava i soldi
nei calzini. “Dov’è Kago?”, disse facendo riferimento al cadavere.
Da ora in poi era compito di Solja sistemare il corpo di nascosto.
“Lì, vicino al mugumo”, disse Skwota tenendo la mano di Solja e indicandolo
con la sua freccia. “Vai a dire ai parenti di andare via e io farò
il resto del lavoro”, disse lui. Mentre Skwota si dirigeva verso il pick
up inciampò su una lapide e quasi cadde. “Uugh”, si risvegliò dal suo
sonno. Era solo un sogno, un sogno molto triste.
Il bulldozer era nella parte meridionale della valle, e gemeva mentre una
scia di distruzione adornava il paesaggio. Si potevano sentire i pipistrelli
emettere i loro versi mentre tendevano agguati alle falene notturne che
danzavano fra le luci dei bulldozer. Era quasi l’una del mattino e il vento
stava trascinando gentilmente le nuvole verso il centro della valle.
Mentre l’aria si rinfrescava, cominciarono a scendere cascate di luce.
“Dov’è il governo? Dov’è il governo?”, gridava Jirani mentre copriva
il suo bambino con un ulteriore strato di lenzuola. “Mio figlio è malato
e il governo lo sta uccidendo”, disse mentre le lacrime piovevano dal
suo labbro superiore. Il marito di Jirani era morto di AIDS due mesi prima.
Chwora aveva sofferto per due anni prosciugando i risparmi della
famiglia. Un mese prima che morisse dovevano al negoziante cinque
volte i loro guadagni totali. Dukani, il negoziante, provava simpatia per
la famiglia di Chwora poiché venivano dallo stesso villaggio. Mentre i
crediti salivano dovette anche fare dei prestiti per mantenere il negozio
rifornito. Dukani rispettava Chwora per averlo invitato a venire dal villaggio
e averlo aiutato a sistemarsi in quella parte di città. Un giorno
prima della morte di Chwora, Jirani andò al negozio a comprare del latte
e Dukani fu così rattristato dall’infelice prognosi che cominciò a
piangere. “So che soltanto il Padreterno dà e toglie la vita”, disse bagnando
di lacrime i suoi grandi baffi. “Non ho mai avuto un fratello e
prego che lui guarisca presto”, aggiunse mentre le lacrime invocavano
senza pietà il muco affinché defluisse dalle narici. “Spero che tu sia abbastanza
forte da accettare il verdetto finale, lui ha perso la voglia di vivere
e tutto ciò che rimane è il vuoto”, disse Jirani con un tono malinconico
mentre prendeva il cartone di latte. “Possa un domani migliore
essere la nostra speranza contro i danni di oggi”, avrebbe detto Jirani
portando a casa un ulteriore cartone di latte preso a credito.
Disteso sul suo letto di morte, Chwora sapeva che sua moglie stava per
partorire. La faccia malata e giallastra per la morte imminente. Le ossa
delle guance sporgenti e gli occhi incavati nelle orbite. Cercò di emettere
dei suoni “mmm…”.
“Chwora, riposati per favore”, disse accorata. Non sapeva che le stava
dicendo addio. Quando Jirani arrivò all’ospedale il giorno seguente, c’era
una opprimente nuvola di malinconia nell’aria. Suo marito era morto
alle tre del mattino. Credeva che nello stesso momento lo spirito della
morte l’avesse visitata in sogno consentendole di vedere suo marito
ascendere al trono dei morti.
L’aria fredda schiaffeggiava la sua sciarpa ripetutamente, aveva a malapena
vent’anni. A ventitre anni aveva già imparato molto dalla scuola
della vita. Jirani era giunta nello slum per stare con gli amici dopo la
morte di sua zia. Al contrario di Skwota, Jirani era arrivata in città da
bambina. Rinforzata dalle stranezze della vita era flessibile e forte. “La
povertà, l’AIDS e il governo sono tutti nemici”, sputò. “Se solo la mia
famiglia non fosse povera, l’AIDS non avrebbe rubato mio marito”, spiegò.
Jirani sapeva che la morte l’aveva derubata e lei non ne aveva più
paura. “Toto, starai bene, ti porterò dal dottore e tutto andrà bene”, disse
stringendo il bambino più forte.
Mentre si avvicinava l’alba, si poteva sentire il turaco strillare e il gufo
stridere affacciandosi nel nuovo giorno. La notte era particolarmente
lunga e si aspettava con impazienza un nuovo giorno. Skwota era stata
seduta sul sacco contenente ciò che possedeva per un’ora e si sentiva
già stanca in quanto il sacco conteneva oggetti sporgenti messi alla
rinfusa. Alle tre del mattino voleva liberarsi come d’abitudine. Camminò
giù nella valle verso il fosso e si liberò. La strada che conduceva al fosso
era ingombra di rifiuti umani ed era ancora peggio per il buio. Ogni
due passi metteva i piedi su letame suppurante.
“Possa il nuovo giorno arrivare perché ho dormito a stomaco vuoto”,
dicono i saggi per accogliere l’arrivo di un giorno nuovo di zecca. Per
gli abitanti della dolce vallata il nuovo giorno era intriso di malinconia
e morte. Il paesaggio ricoperto di rifiuti definiva ciò che rimaneva delle
loro case. Se le leggi fossero state per i poveri, se solo le leggi avessero
favorito i poveri avrebbero vissuto in pace. Il bestiame che era sopravvissuto
all’agguato notturno era malato e fiacco con ferite aperte
che parlavano dello shock che avevano subito la notte precedente. Come
l’Egitto dopo l’uccisione dei primogeniti, la dolce vallata sanguinava
e si contorceva per il dolore. Skwota trascinò il suo sacco verso lo
slum vicino. Il viaggio era lungo e tortuoso e ogni passo portava la promessa
di vittoria e speranza. Il paesaggio era pittoresco con acque verdi
e grandi discariche di rifiuti. Il terreno era umido di urina fresca e i
camminamenti laterali imbrattati di rifiuti umani. “In questo mondo
pieno di guerre non posso permettermi di perdere”, si disse. “Il mio desiderio
di vivere è più forte dopo ogni incontro con il bulldozer”, disse
sorridendo con le lacrime che cadevano sul sacco. Stringeva le mani intorno
al sacco come se lo abbracciasse. Si girò a guardare la dolce vallata
in lontananza dove aveva vinto un incontro con la morte. Quando
arrivò mezzogiorno i morsi della fame l’attanagliarono consentendo alle
lacrime di scorrere liberamente. “Se solo quella pallottola non avesse
preso la sua vita, avremmo combattuto insieme”, disse mentre il sonno
la portava verso un pacifico riposo.