120 MINUTI_Rima Abdel Fattah
_Traduzione di Barbara Caron
Entrando, lei canticchiava ancora il ritornello che trasmettevano alla radio, mentre parcheggiava la sua auto. Lanciò le chiavi sul tavolo. Il portachiavi colpì il bordo del ripiano e cadde senza rumore sul tappeto. Si chinò a raccoglierlo. Il tavolo rotondo, in legno massiccio di ciliegio, ed il vecchio tappeto scarlatto, eredità preziosa di una bisnonna, erano il suo orgoglio. Sfiorò con un dito il legno graffiato, accarezzando un resto di vernice sotto il quale traspariva un labirinto di anelli.
Quante volte da bambina si era divertita a contarli, provando ad indovinare l’età di quel pezzo di legno. Dubitava all’epoca che ci si sarebbe affezionata, un giorno, come ad un’ancora di salvezza. Dubitava che avrebbe rifiutato – nonostante le osservazioni dei suoi amici e gli sguardi ironici dei suoi ospiti – di cambiare l’arredamento di quest’angolo del suo appartamento, che chiedeva a gran voce di essere rimodernato!
Si voltò e raggiunse la cucina, della quale bastava oltrepassare la soglia perché un sistema elettronico d’illuminazione e di aria condizionata scattasse.
Un’occhiata al suo orologio le confermò che era in ritardo.
Ore 17.55.
I suoi ospiti sarebbero presto arrivati. Il semplice menù che si era ripromessa di preparare per loro era attaccato sulla porta del frigorifero. Doveva mettersi al lavoro. Mentre era indaffarata davanti al bancone al centro della grande cucina, si concentrava sui suoi battiti cardiaci, in preda al panico come ogni volta che si sentiva incapace di gestire una situazione. Si sforzava di dare un ritmo ragionevole al suo respiro.
Con un po’ di fortuna, i suoi ospiti avrebbero potuto accumulare del ritardo dovuto al traffico in entrata in città, forse fermandosi da un fioraio, esitanti nella scelta di un mazzo di rose o di tulipani. Josiane, per come la conosceva, avrebbe potuto dilungarsi dal libraio, discutendo a lungo con lui e decidendo se fosse il caso di regalarle un libro di ricette, una raccolta di poesie o, chissà, una biografia…
Questo pensiero le strappò un sorriso. I suoi scaffali sarebbero prima o poi crollati sotto il carico di libri scelti a seconda dell’umore dei suoi due vecchi amici, il cui affiatamento non finiva mai di sorprenderla.
Ore 18.40
Il cellulare vibrò leggermente nella tasca del suo grembiule. Nuovo messaggio: “contrattempo dell’ultimo momento. Scusa per il ritardo. A presto”. E l’inevitabile “bzzz” che serviva da firma a Charlotte, i cui messaggi assomigliavano invariabilmente a quest’ultimo. “Trattenuta d’urgenza in ufficio. Bzzz”. Oppure: “non aspettatemi. Sarò in ritardo. Sarò puntuale per il dessert. Bzzz”.
Sospirò guardando i piatti allineati sul bancone. Con il tavolo e il tappeto, il taboulè faceva parte dei ricordi di famiglia che erano sopravvissuti alla sua gioventù. S’inorgogliva nel riuscire a preparare bene questa saporita insalata, ricca di colori e sapori, che la portava, in un boccone, al di là del Mediterraneo.
“Due ciuffi di prezzemolo, qualche dadino di pomodoro e Bériz (Parigi) è tua!” le diceva sua madre, quasi quindici anni fa.
Ore 19.00.
Calcolava e pianificava tutto, preferiva non lasciare nulla al caso. Era una questione d’onore mettere ordine nella sua vita, ma mai nel suo guardaroba. Il suo sguardo si perse nell’armadio, che sembrava un campo di battaglia. Ne tirò fuori un abito leggero aperto sulla schiena, decorato con fiori a profusione, che guardò e riseppellì. Finì per scegliere un paio di jeans scoloriti e una maglietta lunga grigia, decorata con una torre Eiffel vista dal basso.
“Non dimenticarti di portarmi la torre Eiffel! Non la vera, ovviamente…”, le aveva detto sua madre con aria imbarazzata quel giorno in cui zii, zie, e cugini, venuti per augurarle buon viaggio, si erano messi a ridere fragorosamente, prendendola per un’ignorante.
Fu la prima cosa che comprò, all’indomani del suo arrivo a Parigi. Questa torre Eiffel, alta venti centimetri appena, troneggiava da allora accanto ad un centrotavola falso Limoges, sopra ad un vecchio tappeto, dove la fantasia orientale brillava in tutto il suo splendore.
Quindici anni. Ogni momento, nel fluire, ne aveva cancellato un altro. I primi anni, aveva scritto delle lunghe lettere, inviato centinaia di cartoline. Poi, aveva chiesto che le inviassero il tappeto.
Ci passò lunghe notti, seduta, allungata, rannicchiata. Poi arrivò il tavolo. Feticcio che la seguiva in ogni trasloco.
Ore 19.20.
Suonarono alla porta. Aprì, salutò i suoi ospiti e sorrise. Li invitò ad accomodarsi ed offrì loro da bere. Il suo spirito era vigilante. Frammenti di conversazione le pervenivano, ma non li comprendeva, come se fossero stati pronunciati in una lingua straniera. Non era certo la sua lingua natale. Era, comunque, una buona quindicina d’anni che respirava, mangiava, si addormentava, si svegliava usando questa lingua.
Uscì dal salotto e tornò verso la porta d’ingresso. Afferrò il pezzetto di carta spiegazzata che aveva lasciato sul tavolo con il suo mazzo di chiavi. Un rettangolo bianco di 7 x 15 centimetri. Un elenco in piccoli caratteri neri sul lato anteriore. Dei messaggi pubblicitari sul retro. Uno scontrino da niente, avrebbe potuto trovarne a decine nel fondo della propria borsa, nei cassetti o nel vano portaoggetti della sua auto.
La data stampata sopra l’aveva fatta sorridere quella mattina. Aveva scherzato a questo proposito con la cassiera, che le aveva addirittura chiesto scusa.
“Le macchine, sono così signora. Ci lasciano a piedi in qualsiasi momento. Per quanto ci si sforzi di crederci non siamo noi i padroni, solo perchè le fabbrichiamo e le programmiamo. Per me sono tutte, completamente imprevedibili”. E le aveva proposto di pazientare, il tempo che il problema fosse risolto e che un nuovo scontrino con la data esatta del giorno fosse stampato.
Ma a lei non importava. Aveva sorriso, ringraziato e si era diretta – le braccia cariche – verso la sua auto. Dietro al volante, aveva ripreso in mano il foglietto e l’aveva osservato a lungo. Il 26 marzo 2029. Aveva comprato i suoi biscotti, il formaggio, i saponi… tra quindici anni!
Ore 19.40.
I suoi ospiti reclamavano la cena. Lei si riebbe, affondò il biglietto nella tasca dei jeans e corse in cucina. Portò uno ad uno i piatti sapientemente decorati e li offrì ai suoi commensali, che man mano ne commentavano la bontà. Gli stuzzichini di crema di salmone all’avocado, il formaggio di capra all’erba cipollina, i funghi farciti al camembert… E per coronare il tutto, il meraviglioso taboulè che, come aveva predetto sua madre, sapeva sedurre anche i veri gourmet.
Era stato sufficiente un pezzo di carta e un errore banale perché
tutto riaffiorasse nella sua memoria. Il viso di sua madre, le sue parole, il passato, il suo paese. Non attese nemmeno la partenza dei suoi amici.
Ore 19.55.
Appoggiò sul letto una valigia di pelle che aprì con gesti teneri, quasi carezze. Ci appoggiò, come fosse un gioiello, la torre Eiffel acquistata, quindici anni fa, alla periferia del Pont Neuf.