Presente zero_Valter Malenotti
_“Nonno, per favore, raccontaci una delle tue fiabe”, dissero in coro i bambini riuniti attorno al fuoco.
Nonno Agostino sollevò il grosso libro che aveva accanto e se lo pose sulle ginocchia.
“Noo!” protestarono i bambini.
“Non le fiabe del libro, le tue!”, precisò Amos allungandosi a toccare la testa del vecchio con un dito. “Raccontaci degli uomini volanti e delle scatole magiche dove puoi vedere e ascoltare ogni cosa”.
Il vecchio tentennò. “Le scatole magiche… Fu anche per colpa loro se si arrivò al Grande Disastro”.
“E come successe?”, chiese Davide.
Nonno Agostino prese un respiro profondo. “Proverò a spiegarvelo: vedete bambini, il mondo un tempo era diviso in tante tribù, un po’ com’è adesso, solo che ognuna di queste contava milioni e milioni di persone…”
I ragazzini strabuzzarono gli occhi.
“Ovviamente v’erano tribù ricche e altre più povere”.
“Dicono che le genti del deserto si nutrono di scorpioni e serpenti, e che girano nudi e abitano in buche scavate nella terra. È questa, vero, la povertà?” Osservò Ester.
“È questa” asserì nonno Agostino.
“Ora immaginatevi se noi della foresta, e quelli del fiume e del lago, insomma, tutte le cosiddette tribù ricche, si mettessero a cacciare anche i serpenti e gli scorpioni del deserto. Cosa accadrebbe?”
“Le tribù del deserto diverrebbero ancora più povere” disse Miriam, “morirebbero addirittura di fame”.
“Già. E non resterebbe loro altra scelta che emigrare nei nostri territori ricchi di selvaggina”, rispose il vecchio.
“Ma noi non glielo permetteremo!”, esclamò Giosuè.
“All’inizio forse no, poi però ci accorgeremmo che potrebbero diventarci utili. Certi lavori faticosi ad esempio, come raccogliere la legna e raschiare le pelli, potrebbero farli loro in cambio degli avanzi
del nostro cibo. In poco tempo diventerebbero nostri schiavi e noi i loro padroni”.
“Sembra la stessa vicenda raccontata in quella fiaba che parla di quell’antica tribù del tuo libro, nonno”, disse Miriam.
“E il Grande Disastro come avvenne?”, chiese Amos. “Fu provocato dai poveri per ribellarsi?”
“Non proprio. Fu provocato sì dai poveri, ma i veri colpevoli erano i ricchi, che alimentavano gli odi e le rivalità tra i poveri procurandogli anche le armi con cui combattersi. Armi sempre più potenti, più letali, fino a quando ne persero il controllo e fu la guerra. Una guerra totale, che coinvolse tutti senza distinzione”.
“Ma allora dovevano essere delle armi magiche” disse Amos saggiando con un dito l’affilatura di un coltello di selce.
“Sì, magiche. Degne della magia distruttiva insita negli uomini!”, affermò il nonno.
Un’ombra grande e grossa si fermò a poca distanza dal focolare. Tutti ammutolirono, poi l’ombra parlò:
“Smettila vecchio, non raccontare frottole ai nostri ragazzi. La sola cosa di cui hanno bisogno è crescere forti e coraggiosi per diventare dei veri cacciatori, e dei guerrieri anche. Le genti dell’altopiano stanno invadendo i nostri territori di caccia e prima o poi organizzeremo una spedizione per annientarli”.
“E dire che da bambino tu, Sansone, eri quello che mi faceva più domande di tutti”, disse nonno Agostino. “Non c’era una sera che non ti mettevi accanto al mio fuoco ad ascoltare quelle che ora chiami frottole, storie inventate”.
Sansone gli puntò l’indice contro: “Se ciò che affermi fosse vero, se possiedi veramente tutto quel sapere antico di quella civiltà che dichiari scomparsa, perché allora non ci aiuti a sbarazzarci dei nostri nemici? Hai detto che ai tuoi tempi esistevano armi micidiali, perché non c’insegni a fabbricarle? Perché non ci dai una mano a raggiungere quello che tu e i nostri antenati chiamavate Progresso?”.
Nonno Agostino spostò lo sguardo sul focolare, scuoteva la testa, debolmente.
Sansone sbuffò, poi disse rivolto a suo figlio Giosuè: “Su, a dormire. È molto tardi, domattina all’alba verrai a caccia con me. Ucciderai il tuo primo cervo”. Poi si rivolse agli altri bambini: “Anche voi, tornate alle vostre capanne, nonno Agostino è vecchio, ha bisogno di riposare”.
I bambini s’alzarono a malincuore, ma Sansone era il capo del villaggio, non andava contraddetto.
Nonno Agostino si sentì toccare una spalla, era Amos. “Io ci credo a quello che racconti”, gli disse all’orecchio. “Perché tu esisti da sempre. È vero, nonno?”
“No, non è vero” disse il vecchio.
“E morirai anche tu un giorno?”
“Vai” lo congedò sbrigativo, “è tardi”. Poi disse fra sé: “lo spero, lo spero proprio”.
L’immortalità lo spaventava. Quando lo sottoposero a quell’esperimento genetico non sapevano fin dove sarebbero riusciti ad arrivare. Gli dissero che forse gli avrebbero rallentato l’invecchiamento, così da aumentargli le aspettative di vita di almeno venti o trent’anni. S’immaginò l’espressione del dottor Romero se lo avesse visto ora, dopo la bellezza di otto o novecento anni – secolo più secolo meno, ormai ne aveva perso il conto – dall’avvento della guerra nucleare globale che aveva quasi annientato l’umanità e distrutto senza ombra di dubbio civiltà e progresso. Lui era uno dei pochi sopravvissuti. Siccome faceva parte di un progetto scientifico governativo, i militari lo avevano messo al sicuro in uno dei loro rifugi antiatomici. Il resto fu ricominciare da zero. Lo zero era il presente, e lui desiderava rimanesse tale.
Ravvivò i tizzoni con un legno. Le fiamme ora scoppiettavano vivaci, rischiarando attorno, rischiarando anche la bibbia che egli teneva sempre con sé; probabilmente l’unico libro conservatosi nel raggio di migliaia di chilometri. Forse l’unico al mondo.
Si alzò in piedi, a fatica, e scagliò il libro nel fuoco con tutta la sua forza di vecchio, come a voler scacciare il passato, allontanare il futuro.