Il futuro immateriale_Mario Manfredi
_Che cosa accomuna la civiltà del virtuale alla civiltà dell’immateriale? Un significato forte di ‘virtualità’ rinvia proprio all’immaterialità: ciò che non è accessibile ai sensi, oggetto che non si vede e non si tocca, e che va conosciuto – avrebbe detto Platone – “con gli occhi della mente”. Ha del paradossale che la civiltà della produzione, delle merci e dei consumi, grazie al trattamento elettronico dei dati, sia anche sempre più una civiltà smaterializzata. Ma è anche affascinante e straordinariamente promettente che – per questa via – recuperi spazio e cresca di valore il patrimonio dei beni immateriali che da sempre è, insieme, prodotto e alimento dello spirito umano.
Le istituzioni culturali – diceva l’antropologo Arnold Gehlen – “emanano qualcosa come la suggestione di un valore autonomo. Comprendendo anche un lato di utilità pratica, esse rendono stabili e durature cose fragilissime come la libertà e la cultura”. Esse interpretano l’essenza dei beni culturali, la loro natura qualitativa e immateriale, e il loro sfuggire a criteri utilitari e valutazioni economiche. Tuttavia, per la loro “utilità pratica”, esse hanno anche la funzione di ipotizzare un possibile uso produttivo dei beni culturali, che le istituzioni politiche dovranno poi trasformare in occasioni concrete di economia della cultura.
La responsabilità che ci sovrasta, in materia, riguarda anche il diritto delle future generazioni – comprese quelle remote – di fruire di beni che sono patrimonio dell’umanità (di cui è ricca la nostra città), a compimento di un percorso nel quale, come diceva Kant, “le generazioni precedenti sembrano condurre i loro faticosi affari soltanto a vantaggio delle successive”. Non è assurdo, né logicamente né moralmente, che noi si assuma una responsabilità verso ciò che non esiste ancora (l’umanità di un futuro remoto), come se potessimo apprezzare gli effetti di quest’impresa etica sulla scala del tempo presente. Abbiamo forse bisogno della presenza empirica dei soggetti beneficiari per compiere un’opera di beneficenza? Abbiamo forse bisogno di percepire il piacere e il dolore hic et nunc, e di misurare vantaggi e svantaggi delle nostre iniziative sulla bilancia dell’utilità attuale, per deciderci a intervenire in soccorso di ciò che è degno di sopravvivere ed essere tramandato?
Nessuno mai potrebbe giustificare la propria inazione e il proprio disinteresse adducendo che l’eventuale beneficiario abita in un luogo lontanissimo nello spazio; nello stesso modo, non possiamo esonerarci dalle nostre responsabilità verso chi è lontano nel tempo. L’uno e l’altro, infatti, hanno la capacità di apprezzare il bene e il male, di fruire del bello e del giusto e, soprattutto, la capacità di soffrire.
Noi possiamo ragionevolmente ipotizzare che, almeno in parte, problemi, bisogni e preferenze delle generazioni che vivranno in un futuro remoto saranno simili ai nostri. In ogni caso, faremmo bene a regolarci “come se” fosse così. E faremmo bene a impegnarci – come diceva un filosofo dell’ambiente – a lasciare il pianeta in una condizione almeno un poco migliore di quella in cui lo abbiamo trovato. Non sarà facile, ma è un obiettivo possibile e, dunque, un dovere proponibile.
E poi, se abbiamo dubbi sulla prevedibilità dei bisogni materiali, delle risorse, dell’energia, delle materie prime, ecc., possiamo nutrire certezze di altro tipo. Nessuno può dubitare che verrà desiderata la pace, apprezzata la benevolenza, ricercata la solidarietà. Per questo fine, sarà sufficiente che – come diceva David Hume – continui ad albergare nella natura umana «qualche particella della colomba … insieme con gli elementi del lupo e del serpente». Il patrimonio dei beni materiali sarà sempre mutevole nelle quantità e nel valore; il patrimonio dei beni immateriali non cesserà mai di attrarre e gratificare gli uomini. Arte, scienza, filosofia, cultura sono fatte di una materia che non teme lo scorrere dei secoli e resiste alle sfide della barbarie ricorrente.
A esse sono affidate le ragioni di un possibile progresso morale, che resteranno vive, «finché il sole risplenderà su le sciagure umane».