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La memoria delle pietre: souvenir dal futuro_Assunta Morrone

_Era distesa.

Aveva portato con sé solo un tappeto.

Lo aveva allungato sul selciato.

Da lassù sembrava tutto vicino, quello stesso tutto che si allontanava improvvisamente, come se appartenesse ad altri mondi, ad altre storie.

Si era prima seduta, poi si era adagiata come a volersi coricare.

Adesso era proprio distesa, nel senso che si stava rilassando e le sue membra erano un insieme fulgido di luce e di buio.

Palpitava, il cuore batteva all’impazzata.

Sapeva di aver attraversato il tempo.

Era conscia di aver superato la storia.

Osservava intorno a sé e si guardava dentro come solo chi torna dal futuro poteva fare.

Se qualcuno avesse guardato attentamente sulla collina avrebbe notato il suo profilo sdraiato.

Chissà cosa avrebbe pensato lo spettatore casuale!

Una splendida donna, di quelle che non hanno un’età definita, sdraiata nella notte, coperta dalla coltre di stelle tanto credibili da sembrare imposture.

Non si spaventava del giudizio di chi l’avrebbe guardata.

Era abituata agli sguardi, a volte licenziosi e sensuali, a volte distratti ma inquieti, a volte teneri, caldi e cedevoli.

Quanti l’avevano guardata?

Da qualche tempo usciva sempre meno.

Faceva fatica a sentirsi gli sguardi addosso?

Stava invecchiando?

No.

Preferiva sentirsi viva dentro gli anfratti delle stanze aperte della sua grande casa.

Prediligeva il pulsare piano delle emozioni all’interno della sua enorme costruzione di pietra.

Bianca.

La sua casa era quasi bianca.

Non del tutto.

Una casa smisurata, bianca, forse un po’ ingiallita, una corte principesca dove accadevano cose che non tutti sapevano ma che lei ricordava nei minimi particolari.

Tra le pietre della sua casa passavano in tanti. Quante storie si erano consumate nel tempo?

Si ricordava di tutto, del passaggio di ogni singolo gatto, degli striduli andirivieni dei falchi grillai, del tubare romantico delle tortore, del trillo monosillabi dei rondoni sulla piazzetta, dell’abbaiare dei cani che si narravano fiabe a distanza, dei pianti alternati ai sorrisi delle madri, delle fatiche dei padri, delle risa dei bimbi vocianti.

Si ricordava ogni cosa, voleva ricordare proprio tutto.

Avevano tentato di farle dimenticare gli eventi importanti.

Ci avevano provato in tutti modi.

Qualcheduno aveva provato a cambiarle i connotati.

Uno scempio!

Era riuscita a ribellarsi all’incuria e alla dimenticanza.

L’aveva spuntata sui tentativi di restyling, aveva rinunciato quasi sempre agli interventi di chirurgia estetica.

E adesso ricordava.

Avrebbe voluto più tempo, tempo per raccontare, tempo per decidere, tempo per non smettere mai di guardare al passato, ora che conosceva il futuro, anche il suo.

Ricordava di quelle volte che aveva inseguito i sogni sospesi di amanti sempre e solo clandestini, quel tempo in cui sospiri e sorrisi si erano alternati a lucciconi e illusioni ciondolanti. Aveva davanti agli occhi lo scorrere repentino di corse all’impazzata per le scale, nei vicoli, sui viottoli stanchi ma paghi dello scorrere del tempo, puro e veloce.

E c’erano i suoni farneticanti di vecchi ancora giovani, di giovani da tempo vecchi, i passaggi senza freno del pittore narrante, le smanie dell’intellettuale rapito dai suoi stessi sogni, le preghiere del divo americano convinto di aver trovato la terra promessa.

C’era questo ma anche altro, e altro ancora.

C’era l’occhiata veloce di chi cerca se stesso nella pietra e nel silenzio.

E lei?

Sorrideva sempre all’ascolto, cullava i sonni ignari, favoriva la

realizzazione dei desideri mai confessati.

Solo a lei era dato di vedere il prima, l’ora, il dopo.

Tante volte si era fatta memoria e ricordo.

Una varietà di souvenir tascabile che univa il passato al futuro.

E tutte le sue parti, bianche o ingiallite, raccontavano una lunga storia che non aveva inizio e non aveva fine.

Era sempre stata lì e lì sarebbe rimasta, ad attendere i ritorni di quegli amanti che lasciavano battere il suo cuore di città unica al mondo.

Una vecchia signora, ecco come si sentiva.

Una vecchia e nobile signora senza età.

Quanti anni aveva?

Faceva fatica a contarli.

Sapeva che non aveva importanza.

Si guardava dall’alto della collina del Belvedere.

Guardava se stessa, distesa come su un tappeto.

Forse era nascosta in una bolla di vetro, tra le mani di un turista inconsapevole.

Adesso sapeva di essere fuori dalla roccia, l’anima di quella città del futuro, un futuro che era anche remoto, lo spirito del ritorno dal passato semplice.

Sarebbe sempre tornata nelle schegge di roccia e sarebbe ridiventata ogni giorno soltanto quella città, Madre di pietra viva e immortale.