I racconti del Premio letterario Energheia

Pavor nocturnus_Francesco Sciannarella, Matera

 _Racconto finalista ventunesima edizione Premio Energheia 2015.

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Matera, ieri.

 

“Stai per andare dove meriti… sottoterra, a far compagnia ai vermi! Sei un’adultera, una schifosissima adultera, della peggior specie! Meriti solo di morire!” e la guarda soffocare. Lentamente.

La donna continua ad agitarsi. L’aria le manca ogni istante di più. Ogni secondo.

Lui la guarda attraverso il sacchetto di plastica che le avvolge la testa. E’ ben sigillato con  nastro adesivo attorno al collo. Lo stesso che ha usato per polsi e caviglie.

Lui le sorride. E’ felice per quello che vede. Per quello che ha fatto. Quella donna gli ricorda tanto un agnellino davanti la porta del macello. Le urla sembrano le stesse. La sua voce, però, giunge  ovattata, lontana, assieme agli ultimi respiri fattisi nebbia in quella bolla letale di plastica.

Lui si piega. La guarda ancora più da vicino alla luce dei fari dell’auto. Le sorride, per l’ultima volta. Gli occhi della donna cominciano a chiudersi. Ancora qualche minuto e smetterà di muoversi del tutto. Sta già fissando la morte.

Lui assapora gli ultimi secondi di vita di quella puttana della quale sa tutto. Ogni difetto. Ogni abitudine. Ogni dannatissimo vizio. Sa anche che è una donna forte. Ha lottato con rabbia prima di lasciarsi sopraffare e perdere i sensi.

Ora però è lì, sul quel pezzo di terreno di nessuno, arido. Lì dove avrebbe commesso l’ennesimo adulterio… se lui non glielo avesse impedito  per sempre!

Lui non smette di guardare lei. Ha smesso di muoversi. Ha smesso di soffrire. E’ morta. 

“Hai avuto quello che meritavi!”

Lui la guarda per un’ultima volta. Poi prende le cesoie. Un altro sacchetto. Afferra la mano sinistra priva di vita. Con un colpo secco le recide l’anulare. La fede nuziale rimane sul moncherino. Il sangue zampilla appena. Fuoriesce lentamente. Lui prende il dito reciso con la mano protetta dal guanto di lattice. Lo infila nel sacchetto. Lo chiude. Poi si raddrizza.

E’ ora di andar via.

Lui rientra in auto e parte. Lascia le luci accese dell’auto della donna morta.

E’ soddisfatto. E’ felice.

“Ottimo lavoro! Davvero un ottimo lavoro! Ora si dovrà ricominciare tutto daccapo, ma in fondo è proprio questo il bello… la caccia e la preda…”   

 

Matera, oggi.

 

“Dio mio!” ho l’affanno. Abbiamo appena fatto l’amore “è stato bellissimo!”

Mi giro a guardare Carlo. Ho la certezza di aver trovato l’uomo giusto della mia vita.  Torno a fissare il soffitto. Il respiro torna lentamente regolare.

“A cosa pensi?”

“Credo di essere innamorata” e lo guardo. Giro il corpo verso di lui. Poggio il peso sul gomito. Passo le mie dita sui suoi lineamenti. E’ bellissimo. Mi sembra quasi impossibile abbia perso la testa per una come me: quasi trentasette anni, un lavoro in polizia che amo ogni giorno meno, una miriade di amanti alle spalle.

Carlo non replica. Mi sorride. Me lo faccio bastare. Mi avvicino e lo bacio a lungo. Avidamente. Quasi cerco di entrare in lui attraverso la bocca. Adoro baciarlo.

Carlo ha tre anni meno di me. Per fortuna è molto più maturo di gran parte dei cinquantenni che in Questura mi ronzano attorno, spinti dagli ultimi spasmi di libido.

Carlo l’ho conosciuto per caso. Un vero e proprio incidente, facendo jogging. Io giravo l’angolo uscendo dalla pista di via della Nazioni Unite, lui vi stava rientrando. Ci scontrammo e mi ritrovai per terra. Lui mi aiutò, chinandosi. Dopo un sorriso mi chiese se stavo bene. Nel momento in cui i nostri occhi si erano ritrovati qualcosa era già successo.

Mi alzo dal letto.

“Faccio il caffè!”

“Si, ho solo dieci minuti!” e prende a vestirsi.  Io vado in cucina.  Un afflato di malinconia mi avvolge all’improvviso. Non voglio se ne vada, ma non glielo dico. Non voglio incatenarlo a me e perderlo com’è successo con gli altri. Voglio si senta libero di amarmi.

Dopo essere rientrati a notte fonda da una festa, abbiamo fatto l’amore sulla porta, avidi l’uno dell’altra. Poi siamo andati a letto e siamo rimasti svegli a lungo. Poi siamo tornati ad amarci senza regole, senza pensieri, arsi solo dal fuoco puro della passione. Una notte insonne così è impagabile, penso.

In cucina preparo la moka e le tazze. Carlo arriva completamente vestito. Mi si avvicina. Mi bacia, a lungo, senza dirmi nulla, solo quel contatto adorabile. Stanotte è stata la prima volta che abbiamo fatto l’amore, dopo due mesi di frequentazione. Alla soglia dei quarant’anni sono diventata esigente in fatto di uomini e prima di portarmeli a letto voglio conoscerli bene. Basta sveltine da ventenne!

Quando le nostre labbra si dividono, lui deve impedirmi di spogliarlo nuovamente. Il caffè fuma e riempie l’aria del suo dolce profumo.

“Devo andare a lavoro!”

“Licenziati e vivi sempre attacco a me!” e spengo il caffè. Poi trovo rifugio nel suo torace ampio.

“Lo sai che non posso!”

Carlo non ha nessuno. Sua madre è morta. Suo padre si è risposato e non vive più in Italia. Ha un fratello con il quale non si vede da anni.

“Peccato… ti avrei riportato a letto e saresti stato mio tutto il giorno!”

Carlo mi sorride, spiazzato da tanta iniziativa. Poi mi accarezza dolcemente il viso. Mi passa una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Prosegue con un gesto che amo tantissimo: passa il suo dito indice dolcemente sopra il mio sopracciglio. Mi sciolgo completamente. Chiudo gli occhi e rimango così. Spero tutto si fermi. Tutto resti immutato per sempre. Purtroppo tutto svanisce con un bacio veloce e il caffè ingurgitato in due secondi.

“Devo scappare!”

Accompagno Carlo e gli dico che ci sentiamo appena finisco di lavorare. Chiudo la porta e vi rimango poggiata. Assaporo l’ultimo tocco delle sue labbra, misto al gusto del caffè. Sorrido felice. Guardo l’orologio. E’ tardissimo, ma non mi importa. Il mio lavoro non è più una priorità.

 

“Sei raggiante” Alberto Caputo parla appena entro in ufficio.

Sorrido, ma non replico.

“Beh… è innamorata!” Daniela parla stando in piedi accanto ad Alberto. Insieme stanno visionando alcuni documenti. Forse è più corretto dire che Alberto visiona i documenti! Daniela visiona Alberto.

“Ah! E chi è il fortunato?” Alberto non riesce a mascherare una punta di invidia con il suo sorriso da marpione.

“E’ uno!” e siedo al mio posto. Non ho voglia di parlare della mia vita privata con loro. Cerco sempre di tenere scissi i due mondi che mi avvolgono, per quanto possibile.

Quando ero di servizio a Milano ebbi una relazione con un collega sposato. Sua moglie era lontana, giù al Sud. Dopo un paio di incontri clandestini, le voci corsero veloci facendo il giro della Questura. Per puro miracolo non arrivarono al paese. La nostra relazione divenne per me insopportabile. Odiavo le occhiate degli altri colleghi, i pettegolezzi sussurrati al nostro passaggio. Per fortuna poco dopo ebbi il trasferimento. Non fu però per la mia relazione clandestina che chiesi di essere allontanata da Milano, ma per quello che successe di lì a qualche settimana. Fui trasferita a Matera a occuparmi di scartoffie, non più in prima linea, per strada. E dopo la relazione con quel poliziotto sposato non ho più avuto nessun rapporto, se non di lavoro, con i colleghi.

“Avete sentito?” Daniela si fa seria “la terza donna trovata morta nel giro di pochi mesi!”

“Sempre lui?” la mia domanda è gelida. In sottofondo il mio computer che iniziare a ronzare.

“Si, sempre lui” anticipa Caputo “stesso modus operandi: una donna soffocata con un sacchetto di plastica in testa legato attorno al collo e l’asportazione post mortem dell’anulare sinistro!”

Alberto mi guarda. Io rimango indifferente. I casi difficili non mi interessano più. Quello che ho visto nella sezione crimini contro i minori di Milano mi basta per il resto della vita.

“Speriamo di non dover aspettare che commetta un errore prima di prenderlo” parlo con reminiscenza.

“Speriamo! E’ diventato un vero e proprio terrore notturno!” Daniela lascia trasparire tutta la sua paura di essere una potenziale vittima.

Faccio una smorfia priva di significato, metafora del mio disinteresse. Daniela si congeda, lanciando un’ultima occhiata languida ad Alberto. Lui la lancia a me. Io distolgo lo sguardo. Persino un cieco si accorgerebbe di tutto. Daniela, sposata e insoddisfatta, vorrebbe portarsi a letto Caputo. Alberto, separato e sempre in tiro, vorrebbe portarsi a letto me. Io, invece, amo Carlo.

Le ore in ufficio scorrono accompagnate dal fruscio delle carte e dallo squillo del telefono. Come unico intermezzo un saltuario colpo di tosse di Caputo. E’ il suo modo per attirare la mia attenzione e attaccar bottone.

Alla pausa caffè, davanti al distributore automatico, il mio collega si confida.

“Ho sentito il questore” prende il bicchiere di plastica “vuole persone come te dietro il caso del killer dell’anulare” aggiunge. Poi soffia sul caffè fumante.

“Come me?” il mio tono è aspro “che se ne fa il questore di un’archivista su di un caso così complesso?”

Alberto sorride dietro il bicchiere. Sorseggia. Poi risponde.

“Sei sprecata come archivista e il questore lo sa!”

“La verità è che il questore ha il fiato sul collo” sono stizzita “i media e qualcuno più in alto di lui gli stanno rompendo le palle, tutto qua!” infilo i soldi nella macchina del caffè. Guardo la fessura senza vederla. Rievoco le avvilenti immagini del mio fantasma,  o ghost, come lo chiamò lo psichiatra.

“E’ vero, mi stanno rompendo le palle” la voce del questore mi giunge improvvisa alle spalle “ma Caputo ha ragione, servono persone valide come te per questo caso”.

Fisso a lungo il dottor Ronchi. Sono incazzata con me stessa, per niente in colpa per aver usato parole inopportune. Ho un rispetto smisurato per il Questore Ronchi ed è ricambiato a pieno. Essere colta così in flagrante, però, mi fa sentire vulnerabile. Odio esserlo.

“Quando finisci vieni nel mio ufficio, Fabris” non aggiunge altro e si allontana.

Non è ammessa replica. Continuo a fissarlo. Sorseggio il caffè. Il questore è uno in gamba. Ottiene quasi sempre quello che vuole, se non gli rompono le palle!

“Io credo dovresti accettare” Caputo parla e mi passa davanti. Poi getta il bicchiere vuoto. Mi sorride. Fa una smorfia. Mi lascia lì a rimuginare. Bevo in fretta. Vado dal Questore. Dietro di me il mio maledettissimo ghost a darmi il tormento.

 

“Non so se tornare operativa ti aiuterà!” Carlo parla con me poggiata sul suo torace nudo, sotto le coperte del mio letto. Abbiamo fatto l’amore ancora una volta. Ed è stato ancora una volta la quintessenza. Ora, però, sono triste, vuota.

Ho parlato con Carlo della proposta del Questore: mi vuole nella squadra che indaga sul killer dell’anulare. Carlo sa quanto mi è difficile il solo pensiero di vedere nuovamente la morte negli occhi. Il Questore, in realtà, non mi ha ordinato nulla, conosce la mia situazione. Ho sofferto abbastanza per quello che ho visto a Milano, ma credo di non avere molta scelta. L’altra me stessa mi rema contro. E’ impossibile ignorare la sua presenza.

“Il Questore la pensa diversamente… secondo lui tornare operativa mi aiuterebbe” fisso il vuoto davanti a me. Ho una visione distorta della stanza. Così come della realtà in questo momento. Sono confusa.

“Quindi?”

“Quindi non lo so…” guardo Carlo “tu che ne pensi?”

Il suo volto si fa scuro, pensieroso per un attimo.

“Penso che dovresti rimanere a girar scartoffie” sorride appena “ma credo non ti serva la mia opinione… hai già preso la tua decisione!”

Sorrido con amarezza difronte la mia disarmante trasparente. Torno a fissare il muro.  Carlo ha ragione, sto mentendo a me stessa.

“Hai ragione, voglio tornare operativa, ma ho paura!” confesso. Ho la voce tremula.

“Credo sia normale!”

“Anche Frascati diceva che è normale aver paura!” sorrido appena al ricordo del mio mentore.

Frascati era un ispettore vecchio come Matusalemme, ma forte e caparbio come un toro. Mi ha insegnato molto.

Fisso la foto di Che Guevara che guarda al futuro. Il suo sguardo è mistico e affascinante, come quello della Gioconda.

“E se…” un nodo alla gola mi rallenta “e se… mi ritrovassi davanti una scena come… come quella di Milano?”

“Sono sicuro saprai gestire la situazione!”

“Come puoi dirlo?”

“Lo hai fatto una  volta… puoi farlo ancora!”

La voce di Carlo echeggia nella sua cassa toracica. Mi sento al sicuro e il mio fantasma ne approfitta. Torna all’improvviso a farmi visita…

… eravamo alle costole di un pedofilo da alcuni mesi, dopo anni di indagini che non avevano portato a nulla. Il bastardo rapiva i bambini e dopo averli violentati aveva il sadico gusto di ucciderli. Quell’essere mostruoso era diventato un’ossessione. Un incubo per molti.

Un giorno, quel giorno, eravamo sotto quella che sospettavamo essere la sua abitazione. Dopo ventiquattro ore di appostamenti continui il maledetto non voleva saperne di uscire. Presi l’iniziativa: entrare senza nessun ordine preciso, senza mandato. Rischiavo la divisa, ma quella tensione continua mi stava uccidendo. Perdevo peso. Non avevo più una vita regolare. Stavo andando fuori di testa. Mi trascinai dietro i due giovani colleghi quasi imberbi che erano con me. Entrai con la forza, fregandomene di tutto e di tutti. Lo scovammo nel seminterrato. Era sporco di sangue fino all’avambraccio. Aveva fatto a pezzi l’ultimo bambino scomparso e si stava apprestando a seppellirlo nel suo giardino. Assieme agli altri.

“Era un figlio del demonio!” e aveva sorriso. Il suo sguardo era quello di un pazzo, vuoto, perso nei meandri della sua follia. Al mio ordine aveva alzato lentamente le mani. Tre pistole erano puntate contro di lui, ma ben presto era rimasta solo la mia. I due giovani poliziotti erano usciti a vomitare, disgustati. Invano le mie urla per dir loro di mantenere la calma e rimanere con me. Ero rimasta sola con quell’uomo malato. Una paura profonda, lentamente, si era  impossessata di me. L’uomo aveva ai suoi piedi ogni tipo di oggetto per poter fare a pezzi anche me. Io solo la mia Beretta. Non potevo perdere il controllo. Non dovevo. All’improvviso la rabbia nei confronti dei miei pusillanimi colleghi la rivolsi a quell’assassino. Gli urlai di girarsi e di mettere le mani dietro la nuca. Contro ogni mia aspettativa lo fece senza battere ciglio. Presi le manette con la mano tremante. Mi avvicinai. Mi sforzavo di non abbassare lo sguardo allo scenario orripilante ai miei piedi. Quando le manette gli bloccarono i polsi, con un calcio lo feci stendere faccia a terra. Non un briciolo di compassione. Solo odio puro. Per me non era un essere umano. L’uomo non aveva opposto alcuna resistenza. In seguito qualcuno mi spiegò che una vita fatta di violenza allo stato puro come la sua lo aveva portato quell’uomo a un livello di stress altissimo. Era arrivato al punto di desiderare di essere catturato. La galera era la sua unica via di salvezza da se stesso. Quando ero stata sicura di non correre più pericoli, avevo scrutato quello che c’era ai miei piedi. Sangue. Tanto sangue. E quello che restava di un piccolo corpo orribilmente smembrato. Mi ero portata una mano alla bocca. Avevo impedito alle lacrime di uscire. Il mio stomaco ribolliva. Non potevo rimanere un secondo di più in quella stanza. Ero nauseata dall’odore pungente e ferroso del sangue. Quando vennero a prenderlo ero fuori, immobile. Fissavo il nulla. Mi sforzavo di cancellare quelle immagini assurde dalla retina. Tornata a casa avevo vomitato l’anima. Il giorno dopo avevo chiesto il trasferimento.

Il mio fantasma è fatto di quelle immagini macabre che non sono mai riuscita a togliermi dalla testa in nessun modo.

“Sette” dico ad alta voce.

“Cosa… sette?” la voce di  Carlo mi riporta alla realtà.

“Ha ucciso sette bambini… ”

Piango. Lo faccio sempre davanti alla grandezza di quell’orrore. Non credevo di poter mai conoscerne di così grandi nella mia vita. Le lacrime silenziose scorrono a lungo. Lentamente mi addormento, al riparo del corpo di Carlo. Un uomo meraviglioso trovato per caso, come un tesoro prezioso. Con lui al mio fianco anche l’insonnia sta scomparendo, giorno dopo giorno.

 

Nella chiesa Dell’Annuziata, nel vecchio quartiere di Piccianello, c’è un sottofondo di pianto continuo. Non c’è spazio per nessun altro in questo posto consacrato a Dio. Chi arriva è costretto a rimanere fuori. Io sono arrivata con largo anticipo. Ho trovato un angolino libero accanto un altare laterale. Sono in piedi. Non ho degnato di uno sguardo l’abside post moderna. Ancor meno il prete. Sono qui per cercare di capire chi è la gente che quest’uomo cerca. Quali sono le sue prede!

Ho accettato di far parte della squadra che da la caccia al killer seriale. Carlo non ha condiviso. Ho ritrovato il coraggio che sopiva silenzioso sotto la cenere della paura.

“Sei convinta che l’assassino sia qui tra la gente?” Marchetti quasi sussurra le sue parole. E’ in piedi accanto a me, annoiato.

“Si, certo!” lo schernisco. Uso un tono di voce basso, ma fermo “non lo sai che chi commette omicidi prova piacere nell’assistere alle esequie delle proprie vittime?”

“Cazzate!” Marchetti non ne è davvero convinto “e tu pensi che l’assassino se ne vada in giro con un cartello con su scritto: sono io?” il suo sorriso da ebete  mi provoca un bruciore di stomaco.

Non replico a tale dimostrazione di deficienza. Muovo appena la testa. Sento la mancanza di Caputo. Il suo desiderio di portarmi a letto è palese, ma tra noi c’è complicità. Vediamo le cose allo stesso modo. Avrei voluto lui al posto di questo demente di Marchetti. Non è stato possibile. E’ rimasto a fare il lavoro di due persone.

In chiesa c’è anche la TV. Riprende la messa funebre in onore della terza vittima del mostro. Così come c’era anche per le altre due donne prima di lei. In una piccola città come Matera avvenimenti così truculenti e pieni di drammaticità fanno notizia. La ridondanza è a livello nazionale. Non è male per l’economia della città!

Barbara Leone, 35 anni, infermiera, sposata, lascia un marito e due figlie.

Il cameraman della TV locale indugia a lungo sulla madre della povera Barbara. Il suo sguardo è spento, gonfio di lacrime perenni. Poi indugia sulle due bambine di circa dieci anni, gemelle. Entrambe sono poggiate al corpo del loro papà. Appaiono spossate. Lui ha uno sguardo perso nel vuoto, ma dalla mia angolazione noto qualcosa di strano in lui che non riesco a decifrare.

All’improvviso un pianto esasperato esplode. Una donna sulla quarantina inizia a leggere parole di commiato per la povera defunta. Parole struggenti che strappano il cuore. Devo sforzarmi di non ascoltare. Non farmi coinvolgere. Quella stessa donna, subito dopo, scaglia parole di fuoco contro l’assassino.

“Il demonio è sceso in terra ed è entrato nel corpo di questo essere” le sue parole sono fatte di rabbia pura “Satana è in mezzo a noi, ma Dio farà giustizia come ha già fatto nella notte dei tempi” fa una pausa. E’ sfiancata dalla sua stessa ira “ma la punizione per quest’uomo non sarà l’essere relegato negli inferi, no.. no… ma sarà quello di vivere a lungo… tormentato ogni giorno dal pentimento che gli corroderà l’anima poco alla volta!” poi la donna scoppia in lacrime. Non riesce a proseguire. Il prete le si avvicina. Le sussurra parole di conforto non udibili. La fa tornare al suo posto. Dalle parole della donna l’uomo in abito talare prende spunto per la sua omelia. Il suo sermone mi sembra infinito. Appare completamente atono dopo le parole feroci della donna. Credo, dalla somiglianza, sia la sorella della vittima. La cerco con lo sguardo al primo banco. La fisso. Ha smesso di piangere, ma il suo sguardo è il ritratto del dolore. E’ perso nel vuoto. Continua ad asciugarsi occhi e naso con un fazzoletto di stoffa rattrappito.

Torno a fissare tutto intorno. Volti di ogni forma, colore ed espressione. Il dolore le accomuna tutte. Nessuna mi sembra colpevole. Forse ho perso l’abitudine nello scrutare l’animo dell’uomo attraverso i suoi occhi.

Carlo aveva ragione… non dovevo accettare questo incarico.

E’ il momento dell’eucarestia. Gran parte della gente si muove in una sorta di rimescolamento ciclico. Tutti si spostano dal loro posto, per poi tornarvi con il simbolo della sacralità del figlio di Dio dentro di loro. Approfitto per andare fuori e scrutare tutti all’uscita. Mi trascino dietro l’inutile Marchetti. Ha passato gran parte del tempo a sbuffare. Sul piazzale, dopo pochi minuti dalla nostra uscita, tutti defluiscono come pecore dall’ovile. La famiglia di Barbara ha dispensato dalle condoglianze. Escono dietro il feretro. E mentre fisso i parenti più prossimi, stretti l’un l’altro, ho nuovamente quella strana sensazione di qualcosa fuori posto nello sguardo del vedovo. Non riesco a capire cosa.

“Sei in servizio?” sussurra una voce alle mie spalle.

Mi giro. All’improvviso mi sento come irradiata da un raggio di sole. Carlo mi sta sorridendo.

“Si vede così tanto?” fingo indifferenza.

“No, è solo perché lo sapevo!”

Mi guarda. Ogni parvenza di dolore e tristezza vola via in un attimo.

“Sono uscito a comprare della frutta” mi mostra una busta con dentro mele rosse “ti ho vista, ma… vado via subito!”

“No, aspetta, ho finito per oggi” desidero morbosamente rannicchiarmi attorno a lui “Marchetti, tu rientra” mi rivolgo al mio collega soporifero “vado a casa a piedi.”

“Ok” guardo Marchetti allontanarsi. Dopo pochi metri  telefona a qualcuno.

“Andiamo?”

“Ok” Carlo si avvia. Prendo il suo braccio e mi stringo a lui.

E’ tutto passato, incredibilmente.

 

Mi sveglio di soprassalto, madida di sudore. Sento il cuore battere forte nel mio torace. Ho di nuovo avuto gli incubi, i soliti incubi. Come spesso capita i ricordi vengono a trovarmi nel mondo onirico, dove sono inerme. Succede così da anni ormai e per riprendere a dormire sono tornata a far uso di sonniferi.

Mi giro a guardare Carlo. E’ a petto nudo. Mi da le spalle. E’ sveglio anche lui. Si gira e mi guarda con occhi spiritati.

“Tutto bene?” chiede.

“Si… devo andare in bagno, tranquillo!”

“Ok… ma cerca di dormire” mi da nuovamente le spalle “devi riposare!”

Faccio un cenno di assenso a quella sua espressione di affetto. Poi poggio i piedi per terra. Rimango a fissare il mio orologio da polso sul comodino di casa di Carlo. Segna le tre del mattino. Mi ero appena assopita dopo aver fatto l’amore.

Carlo non ama il buio assoluto. Nel corridoio ha messo una piccola luce a led. Tutto l’appartamento è avvolto da una gradevole penombra. Sorrido a quel suo modo curioso di combattere la paura del buio. Mi guardo attorno. Fisso la bottiglia d’acqua che Carlo mi ha fatto trovare sul comodino, ricorda la mia sete insaziabile dopo ogni nostro amplesso. L’ho adorato per questo piccolo gesto d’amore. La prendo, ma non bevo. E’ troppo calda. Amo l’acqua fredda. Guardo i miei slip per terra. Li prendo e li infilo alzandomi. Con niente altro addosso vado in cucina. Bevo l’acqua che Carlo tiene in frigo in bell’ordine. Poi vado in bagno. Siedo sul water chiuso. Tiro su le gambe. Le stringo al torace in posizione fetale. Mi aiuta a ritrovare la calma e il controllo. Da un po’ di tempo avevo smesso di prendere sonniferi per riaddormentarmi. Stava funzionando. Le indagini hanno vanificato tutto.

Partendo dalla vita privata delle vittime non è uscito fuori niente di rilevante. Tre mogli e madri senza grandi pretese. Lavoratrici e donne piacenti. Mariti con un lavoro onesto. Nient’altro. La cosa più avvilente è che nei primi due casi l’assassino non ha commesso errori. Al terzo è stato ritrovato sotto un’unghia della vittima un lembo di pelle umana, dopo la colluttazione. Si spera sia possibile tirar fuori il DNA.

Dal giorno del funerale di Barbara, però, qualcosa non mi torna. Non sono ancora riuscita a capire cosa. E riguarda il marito.

Cosa?

Nascondo il volto tra le mani. Attendo che il cervello mi dia una risposta. E arriverà nel momento più inaspettato. Spero non troppo tardi. Vado in cucina. Prendo il cellulare. Mi accorgo di aver ricevuto un messaggio, ore fa. E’ di Caputo. Apro e leggo.

“C’è una novità sulle indagini, le tre vittime tradivano i loro mariti. Magari rispondevi ai messaggi!”

Sorrido per le parole di Alberto. Odia il mio ignorare continuo l’utilità della tecnologia. Spengo. Rimango a fissare il vuoto.

“Il bastardo prende di mira le adultere!” la voce a mezzo tono echeggia nel silenzio della notte “probabilmente se arriviamo ai loro amanti viene fuori qualcosa!”

Mi rilasso un po’. Spero questa novità dia una svolta decisiva. Devo dormire, ma il mio cervello non ne vuol sapere.

“Adesso ho bisogno di un sonnifero!” parlo a me riflessa nel vetro della finestra.

Torno in soggiorno. Prendo la mia borsa. Porto sempre con me alcune pillole di Flurazepam. Il mio medico non è mai felice di prescrivermeli, ma siamo vecchi amici. Alla fine la spunto sempre io.  Svuoto quasi tutto il contenuto della borsa sul divano. E’ sempre un’impresa trovare qualcosa solo infilandoci la mano. Le trovo. Prendo una pillola dalla confezione. Ributto tutto dentro nello stesso ordine confuso di prima  e torno a letto.

Siedo sul bordo del materasso. Con la pillola in mano prendo la bottiglietta. Sento Carlo agitarsi nel letto. E’ in preda a un incubo anche lui, qualcosa di tremendo.

Ognuno ha il suo ghost a tormentarlo!

Per un attimo mi fermo a guardarlo, sono tentata di svegliarlo. All’improvviso Carlo si immobilizza. Ha la fronte imperlata di sudore e i pugni stretti fino a far sbiancare la pelle. Lo fisso e in quello stesso istante parla con una voce irriconoscibile, a denti stretti, senza svegliarsi.

Stai per andare dove meriti… sottoterra, a far compagnia ai vermi! Sei un’adultera, una schifosissima adultera, della peggior specie! Meriti solo di morire!

Scatto in piedi per lo spavento. Spalle all’armadio lo fisso.

Oh mio Dio!

Carlo continua a dire parole incomprensibili. Il suo corpo è teso fino allo spasmo. La mascella è serrata al punto da poter sentire lo stridio dei denti nel silenzio notturno. Il mio cuore sta accelerando sempre più. Devo ritrovare il controllo se non voglio rischiare il collasso. Devo. Inspiro ed espiro velocemente. Ritrovo la lucidità. Raccolgo i vestiti e a passo spedito vado in cucina a vestirmi. Lo faccio senza quasi mai perdere di vista la porta della camera da letto. Sono in preda all’ansia e alla paura. Il mio corpo è un tremore unico. Mi vesto e con la mano sulla porta rifletto.

Se vado via senza dir nulla potrei insospettirlo.

Prendo un pezzo di carta vicino il telefono e ci scrivo sopra.

“Scusami tesoro, un’emergenza, starò via qualche giorno per una operazione piuttosto grossa della quale non posso parlarti, appena rientro ti chiamo!”

Lascio il biglietto in bella vista sul tavolo della cucina. In due secondi sono fuori. Il cuore non vuole saperne di rallentare.

“Maledizione”  ho lasciato dentro il mio orologio da polso, ricordo di mio padre. Devo andar via ugualmente.

Ho paura. Appena entro in auto crollo. Mi lascio andare a un pianto senza freni, pieno di mille paure, mille sospetti, mille pensieri.

“Dio mio!” metto in moto “no, no, noooo!” con gli occhi pieni di lacrime ingrano la marcia e scappo via.

 

“Hai letto il mio messaggio?” Caputo mi parla. Io sono completamente assorta a pensare a Carlo. Risento nella mia testa quelle parole pronunciate nel suo pavor nocturnus. Ho paura. Una immensa paura.

“Eh? Scusami, ero sovrappensiero” rispondo. Guardo il mio collega per un secondo.

“Tutto bene?”

“Si… si certo… ho dormito poco… dimmi!”

“Dicevo… hai ricevuto il mio sms?”

“Si, si… ma come ci siete arrivati?”

“Il marito della Leone è crollato e ha confessato. Sapeva di essere tradito, da anni, ma l’amava troppo per lasciarla andare via! Poi anche gli altri due hanno confessato di sapere! Il nostro uomo non sceglie a caso le sue vittime!”

Ecco cos’era quella strana sensazione in chiesa, penso, il marito di Barbara appariva quasi sollevato dalla morte di sua moglie! Mio Dio!

“Ora speriamo solo di scovare gli amanti e che tra questi ci sia una corrispondenza con il DNA!”

“Che DNA?” mi giro a fissare Caputo. Sono tesa come una corda di violino.

Alberto mi sorride, soddisfatto.

“Abbiamo il DNA del bastardo, sono riusciti a tirarlo fuori dal frammento di pelle sotto l’unghia della Leone” mette sul mio tavolo una copia del referto. Scatto a guardare il foglio e cerco il primo dato utile.

E’ un maschio!

Un avvilimento totale mi priva di ogni forza. Il risultato non corrisponde a nessuno della banca dati AFIS.

“E’ incensurato!”

“Infatti!”

Mi lascio andare sulla sedia. Rimango a fissare quel foglio. Devo fotocopiarlo. Devo trovare il modo di far uscire Caputo dall’ufficio. Mi invento uno sbadiglio piuttosto teatrale. Poi mi stropiccio gli occhi.

“Per la miseria, stanotte non ho chiuso occhio”

Caputo abbocca.

“Vuoi un caffè?”

“Si, ma non ho voglia di alzarmi” sorrido.

“Ho capito, ci vado io!”

Caputo si avvia. Prima di sparire si ferma sulla porta.

“Ma la schiavitù non l’avevano abolita?” mi coglie in flagrante mentre ho già il plico in mano. Fingo di giocherellare con i fogli. Gli sorrido con uno sforzo.

“Quella si, ma non il servilismo!” Caputo ride. Poi sparisce.

Mi alzo. Vado alla fotocopiatrice. Faccio una copia. Prendo i fogli ancora caldi. Li piego. Li infilo nella tasca posteriore del jeans. Poi torno a sedere. Cerco di apparire come se niente fosse successo. Un minuto dopo Caputo è di ritorno con il caffè fumante. Ora sono rasserenata per essere riuscita nel mio intento. Ora devo inventarmi un’altra scusa per andare a casa. Ho bisogno di capire. Il dubbio mi sta dando il tormento. Con l’esito del test del DNA forse posso togliermi questo peso che mi sta uccidendo da questa notte.

 

Ho la sensazione di essere sveglia da quindici giorni. Esattamente il numero di giorni di assenza dal lavoro. Non sto andando in Questura, dandomi per malata. Mi sono trasferita a casa di mia nipote. Lei convive con il suo fidanzato camionista che non c’è mai. Mia nipote non ha  replicato alla puerile scusa che il mio padrone di casa deve affrontare dei grossi lavori edili per una perdita d’acqua e non mi vuole tra i piedi.

Dopo ore a rimuginare sullo stesso medesimo argomento ho deciso di chiudere per sempre questa storia. L’alternativa è impazzire.

Secondo l’esame del DNA il killer dell’anulare è Carlo… il mio Carlo!

Dopo aver fotocopiato l’esame di nascosto sono tornata a casa. Ho trovato quello che cercavo: un capello di Carlo vicino il tubetto del gel dimenticato a casa mia. L’ho preso delicatamente. L’ho messo in una bustina sterile. Ho chiesto a mia nipote, infermiera al reparto genetica dell’ospedale Madonna delle Grazie, di tirarmi fuori il DNA. Nonostante, con le loro attrezzature questo tipo di esame sia piuttosto complesso, lei lo ha fatto solo per me e in gran segreto. Ha  rischiato il posto, ma non ha voluto sapere il motivo di quella mia richiesta. Quando i due dati sono risultati combacianti, ho sentito il mondo crollarmi addosso. Ho pianto per ore. Volevo morire. Un dolore acuto si era impossessato di ogni molecola del mio corpo in un istante. Ho chiamato mia nipote per chiederle conferma del test. Se c’era una minima possibilità di errore.

“C’è sempre un margine di errore, zietta” non era riuscita a farmi sorridere con il suo nomignolo adorabile “soprattutto se consideri che i nostri esami genetici sono prevalentemente sul sangue!”

La cosa mi aveva in parte sollevato, dandomi solo la forza di uscire di casa e iniziare a pedinare Carlo. Avevo cambiato colore ai capelli. Avevo indossato una vecchia tutta dimessa e occhiali da sole. Volevo la certezza assoluta fosse lui, prima di andare da Ronchi e spiegargli tutto.

La vita dell’uomo che ancora amo, dapprincipio, è stata piuttosto regolare. Nessun movimento strano, al limite del tedioso. Questo fino a due giorni fa.

L’ho visto entrare con l’auto nella zona garage sottostante un grosso condominio, in via La Martella. Dopo esserci rimasto per circa un’ora è andato via per non tornare più.

Ora, seduta nell’auto di mia nipote, sto fissando nuovamente quella rampa di accesso ai garage. Carlo è nuovamente entrato in quella rimessa sotto il livello stradale. Appena è entrato ci sono passata davanti. Ha fermato l’auto dinnanzi uno dei tantissimi garage. Ho memorizzato il punto. Poi ho tirato dritto. Ho parcheggiato, indecisa sul da farsi.

I minuti, o forse le ore passano. Il mio corpo è un tremore unico, sollecitato dalla indecisione, dalla paura, dalla stanchezza.

“Ok… vado! Devo sapere!” parlo ad alta voce solo per convincere me stessa.

Stringo la pistola. Inspiro ed espiro. Mi fermo. Torna l’indecisione. Aspetto ancora. Ripenso alle indagini. Prima di assentarmi dal lavoro mi è stato detto che tutti gli amanti delle tre vittime sono stati interrogati. Tutti hanno un alibi. Per nessuno di loro è ancora arrivato il risultato del DNA, ma questa è solo una flebile speranza che mi stia sbagliando su Carlo. Prendo l’ultima boccata di ossigeno. Apro lo sportello. Esco e inizio a camminare a passo spedito verso la rampa. Cammino con la mano armata  accostata alla coscia. Scendo nei garage. All’improvviso vedo Carlo alla guida della sua auto. Ho un colpo al cuore. Mi nascondo dietro un pilastro. Lo vedo entrare nel garage. Proseguo. Il cuore batte all’impazzata, rischia di esplodere. L’adrenalina ormai è l’unico sostegno del mio corpo stanchissimo. Carlo è dentro. Ha appena spento il motore. Quando arrivo davanti l’ingresso è appena uscito dall’abitacolo. Ho l’affanno. Ho paura.

“Non muoverti!”  urlo. Poi gli punto contro la pistola impugnata a due mani. Avanzo lentamente. Carlo si ferma e alza le mani. Entro nel garage. E’ grandissimo. All’interno ci sono altre auto. C’è tantissimo spazio occupato da scaffalature. Una infinità di cose.

“Non è come credi!” dice Carlo, girandosi appena.

“Il DNA non mente!”

Carlo scuote la testa. Sembra stanco, quasi quanto me.

“Ma tu l’hai capito ancora prima… l’ultima sera a casa mia, vero?”

“Pavor nocturnus” sono tesissima.

“Già!” Carlo si gira ancora, cerca il mio sguardo.

“Sei uno schifoso bastardo!” urlo. Tengo la pistola con la mano destra. Prendo il cellulare dalla tasca con la sinistra. Devo chiamare i colleghi, non posso fare cazzate da sola.

“Non avevo scelta!”

“Si ha sempre una scelta!”

“Non io!” Carlo abbassa lo sguardo.

La mano che tiene la pistola trema, ma se dovessi sparare lo centrerei. Ne sono sicura.

“Mi sono innamorato di te… e non volevo arrivare a questo punto… credimi!”

“Non ti credo!” la mia rabbia sta per esplodere.

Ti amo anch’io, Dio mio! Amo un assassino!

All’improvviso Carlo sgrana gli occhi per qualcosa dietro di me. Si gira.

“Nooo papà!” urla.

Nello stesso istante premo il grilletto e sento un dolore acuto alla nuca. Non ho il tempo di capire cosa sia. Tutto diventa nero all’improvviso attorno a me.

 

“Ti prego non morire!”

 

La mia testa è chiusa in un sacchetto di plastica. Urlo, ma la mia voce non fa altro che echeggiare in quella specie di bolla d’aria sintetica. Vedo un uomo dai capelli grigi chino sul corpo di Carlo.

 

“Sei una puttana!”

 

L’uomo ha parlato nella mia direzione. Cerco di calmarmi e respirare. L’aria è sempre meno. Carlo è privo si sensi. La ferita alla spalla gli ha sporcato la camicia.

 

“Morirai anche tu come le altre!”

 

L’uomo è furioso con me. Sono legata a una sedia. Non riesco a muovermi. L’ossigeno nel sacchetto sta per finire. Sto morendo.

 

“Peccato non poterti vedere morire poco alla volta”

 

La vista mi si sta annebbiando. L’uomo prende Carlo per le spalle e lo trascina via. E’ la fine. La fine di tutto. Nessuno sa che sono qui.

 

“Resisti, non morire, ti prego!”

 

Gli occhi si chiudono. Ho voglia di lasciarmi andare. L’uomo che trascina Carlo scompare alla mia vista, dietro l’auto. Voglio andare. Sono stanca, stanchissima. Il tempo scorre lento. Ho freddo. Chiudo gli occhi. Vedo una luce. So che lì c’è il caldo. Il tepore di cui ho bisogno. All’improvviso. Una voce lontana urla qualcosa. Non capisco quello che dice. Le palpebre sono sempre più pesanti. Ho voglia di chiuderle per sempre. Colpi. Rumori. Voci. Lampeggiante. All’improvviso la mia sedia si inclina. L’uomo che trascinava Carlo è ricomparso e l’ha spinta mentre scappa. Mi ritrovo per terra. Urto contro il cemento duro, ma non sento dolore. Tutto assume una forma distorta. Non sento più rumori. Non respiro più. Poi vedo Carlo, per terra, vicino l’auto. E morto. Se non lo è presto si dissanguerà. La sua faccia è esattamente di fronte la mia.

Sto morendo…

Appare nella mia visuale Caputo con la pistola impugnata a due mani. Poi due colleghi in divisa. Alberto mi vede e senza indugiare mi si avvicina. Infila la pistola nella fondina. Vedo le sue mani verso il sacchetto di plastica che mi sta uccidendo.

Ossigeno… poi il buio.

 

Appena riapro gli occhi mi accorgo di essere in un letto d’ospedale. La nebbia del lungo sonno svanisce lentamente. Le sinapsi del mio cervello sono già tornate. La realtà si ricrea attorno a me. Vedo un volto familiare. Gli sorrido. E’ lui che mi ha salvata.

“Grazie” dico a Caputo.

Lui mi sorride.

“Figurati!” mi prende la mano “pensavo di non aver fatto in tempo.”

Stringo la sua mano. Poi fisso il vuoto. Tutto torna nitido alla mia mente. Improvviso e sferzante. Perdo il sorriso.

“Cosa è successo?”

Alberto abbassa lo sguardo.

“Carlo è morto!”

“Non era solo!”

“Lo abbiamo preso… è ha confessato!”

“Chi è?”

Alberto mi fissa. Indugia.

“Suo padre!”

Distolgo lo sguardo. Ho voglia di piangere. Caputo stringe la mia mano.

“Ora pensa a riposare!”

Faccio un cenno di diniego.

“Voglio sapere!”

“Riposa, adesso!”

“Voglio sapere, ti prego!” lo fisso. Ho gli occhi umidi. Lui mi da il suo fazzoletto. Poi con calma riprende.

“Lo costringeva ad assistere ai suoi omicidi, ma l’ultimo lo ha commesso il figlio… e la Leone lo ha graffiato!”

“Dio mio!” ho voglia urlare, ma sento solo le lacrime uscire silenziose.

“Quell’uomo era malato. Ha ucciso anche sua moglie!”

“Odiava così tanto le donne?”

“Solo quelle che tradivano i mariti… com’è successo a lui con la madre di Carlo!”

“Come hai fatto a trovarmi?”

Caputo mi sorride. Poi guarda altrove.

“Ti ho vista fotocopiare il risultato del DNA di nascosto. Poi ho notato che non rispondevi più alle telefonate del tuo amico e poi… ti ho tenuta d’occhio per un po’, dopo che hai chiamato perché non stavi bene… non eri più a casa tua… una serie di cose!”

In quel momento entra mia nipote in stanza, con il suo camice da infermiera. I nostri sguardi si ritrovano. Poi all’improvviso si avvicina e mi abbraccia.

“Gli ho detto di quel test… zietta” mi sussurra all’orecchio “so che mi avevi detto di non farne parola con nessuno, ma lui mi ha spiegato alcune cose…”

“Non importa, tesoro” le dico all’orecchio. Torno a piangere “non preoccuparti…”

Poi i nostri occhi si ritrovano. Piangono anche i suoi.

“Ho avuto paura che…”

“Lo so…” le accarezzo la guancia “è tutto finito!”

 

… la caccia e la preda! Ora è lui la preda! Dopo aver ucciso due poliziotti è riuscito a scappare. E’ consapevole che non avrà vita facile, ma lui ha pazienza, tanta pazienza. Non gli importa se passeranno anni, ma quella sgualdrina di una poliziotta la pagherà. Vendicherà la morte di suo figlio Carlo. 

Intanto corre veloce sull’autostrada. L’eco delle sirene nelle orecchie è ormai lontano. Non possono più prenderlo.

 

Il cellulare di Caputo squilla. Persino in ospedale non riesce a spegnerlo. Da quando sono stata spostata in questa stanza, in attesa di essere dimessa, viene a trovarmi ogni giorno. Qualcosa sta nascendo tra noi. E’ palpabile. Ho cambiato idea su di lui. Ne sono felice. Ho bisogno di un uomo come Alberto al mio fianco, soprattutto adesso. Un uomo che mi tenga al sicuro, soprattutto ora che devo dimenticare Carlo.

“Non rispondi?” gli dico.

Sorride. Tira fuori il cellulare. Si avvicina alla porta. Lo guardo con un magone di nuova felicità. Caputo risponde. Dal tono conosco il suo interlocutore: il questore Ronchi.

“Buongiorno, dottore”

“Si, sono qui con lei”

Vedo la faccia di Caputo diventare dello stesso colore del lenzuolo che mi copre. Poi mi fissa.

“Si… si… ho capito!” e chiude. Il suo volto è cereo.

“Tutto bene?” sono preoccupata.

Lui mi guarda. Si sforza di sorridere.

“Si… tutto bene!”

Non gli credo. Poi mi prende la mano.

“Ho un’emergenza, devo andare” per la prima volta mi saluta con un leggero bacio sulle labbra.

Gli sorrido, felice per quel suo approccio delicato. Lo seguo con lo sguardo. Scompare nel corridoio. Sta già chiamando qualcuno.

 

Fine… forse!