Il Premio Energheia ha ancora l’ardire di scovare, impreziosire e incoraggiare i giovani autori
_di Simonetta Sciandivasci
Giuria ventunesima edizione Premio Energheia 2015.
Penso della scrittura, soprattutto di quella letteraria, che debba sconvolgere e riassestare la coscienza e, in più, essere effrazione.
Voglio dire che per scrivere è necessario fare due cose che sono l’una l’opposto dell’altra: rispondere a regole precise e, nello stesso tempo, evaderle, superarle, creare l’eccezione che le conferma e, pure, le sconfessa. Vale per tutta l’arte, ma per la letteratura ancora di più, soprattutto ora che la sua sovrapproduzione rischia di inflazionarla irrimediabilmente, rendendola replicante, consolatoria, mite. Questo è quello a cui ho pensato, leggendo i racconti arrivati al Premio Energheia ed è quello da cui ho tentato di farmi guidare nella loro selezione. Fatico sempre di più a individuare libertà e rischio tra i criteri di scelta di molti editori e questo fa sì che i romanzi siano sempre meno effrazioni e sempre più rifugi borghesi, coccole. Grave, poiché questo è un tempo in cui c’è estremo bisogno di autori che ci graffino. I premi letterari, però, mi sembra possano procedere in direzione opposta, soprattutto quelli più piccoli.
Quando vinsi il Premio Energheia avevo ventiquattro anni e molta ingenuità nella penna. Non mi servì per progredire nella mia “carriera” (nessun premio letterario serve a questo, eccezion fatta per lo Strega), ma mi convinse a continuare sia perché si trattò della mia prima approvazione “esterna”, sia perché mi infuse calore. I giorni di Energheia, quando nel 2015 sono tornata in veste di giurata, ormai adulta, mi hanno inequivocabilmente dimostrato che la letteratura può unire, creare una comunità nuova e pungolare, allargandola, quella preesistente. Sembra facile retorica, eppure è qualcosa di cui, in un momento di disincanto e negazione delle ideologie (che anziché il “nuovo” sta producendo semplificazione del pensiero e tramutando la dialettica in scontro), c’è estremo bisogno. Quel calore di quando avevo 24 anni e che magari potevo aver scambiato per euforia, l’ho trovato ancora e riconosciuto e nominato. È il calore della provincia, anche: nella provincia nascono gli scrittori migliori e Antonio Moresco bene ha fatto a segnalarne l’assenza nelle cinquine dello Strega dove, tuttavia, è altrettanto giusto – sembra un paradosso, me ne rendo conto – che non entrino, così da conservare la purezza acerba e selvaggia che, invece, i piccoli premi come Energheia hanno ancora l’ardire di scovare, impreziosire, incoraggiare, prescindendo dal destino editoriale che possano avere e dal suo intravvedersi o meno (dopotutto, la sola regola che appare sempre più chiara è che la direzione dell’editoria è imponderabile: sempre più spesso i libri di successo sono quelli su cui nessuno aveva puntato, basti pensare a Elena Ferrante o ad Annie Ernaux).
Con i miei compagni Marco Cubeddu e Serge Latouche, abbiamo quindi premiato chi più lo meritava e chi più ci ha stupiti, chi più ci è parso selvaggio, chi più assomigliava non a Proust, ma a Jack London. E, in fondo, chi più assomigliava a Matera, che anche se è vittima delle idiozie turistiche, della rimozione dei traumi che l’hanno resa ciò che è, del suo imbellimento rassicurante e massificato, mai perderà il suo antipatico, meraviglioso, sconvolgente stridore.
Energheia è un pezzo importante di questa città, che ha bisogno di racconto, perché solo i racconti possono essere perfetti e compiuti, ma ha pure bisogno di romanzo, perché i romanzi non finiscono mai. Non si può ignorare un luogo in cui, come accade a Energheia, si cerca di incrociare le generazioni pronte per i racconti, esortandole, però, verso i romanzi. Verso ciò che non finisce ma non per questo si disgrega.