I racconti del Premio letterario Energheia

Loro non hanno paura del buio di Gabriella Massarenti, Bologna.

_Racconto finalista ventiduesima edizione Premio Energheia 2016.

 

solstizio d'estateBianco. Un bianco intenso, forte, accecante. Una luce che sembra provenire direttamente dal paradiso e che non mi permette di tenere aperti gli occhi. L’emblema della purezza, dei sentimenti nobili, della pace. Ma io riesco a percepirla. Riesco a percepire la perversione che si cela nei meandri più nascosti di questo bagliore. Io lo sento: la sua quintessenza tenta di distogliere la mia attenzione da quella che di sicuro è la più corrotta delle realtà.
Quando i miei occhi si abituano alla luce riesco a individuarne la fonte: una lampada quadrata a neon che si trova a poco più di un metro di distanza dal mio viso. Sono sdraiata su una tavola e posso sentire il freddo del metallo a contatto con la mia pelle. Mi sento intorpidita e debole, sono molto scombussolata e pensieri confusi mi battono contro le tempie provocandomi un costante e doloroso pulsare. Ruoto la testa da un lato. Non vedo che una gelida parete bianca. Ruoto la testa dall’altro lato. Un’altra parete bianca, ma con una piccola aggiunta all’arredamento: un tavolino di metallo argento dove sembra che vi siano appoggiati degli strumenti anche se non riesco a vederli bene.
Molto lentamente comincio a riacquistare lucidità. I miei pensieri si fanno più chiari e da semplici sussurri diventano vere e proprie voci nella mia testa.
Dove sono?
Continuo a ruotare la testa a destra e a sinistra nella speranza di identificare quel luogo. Nulla. Niente mi è familiare. L’ansia inizia a crescere come un piccolo seme: le sue radici cominciano ad affondarsi nel mio subconscio, la pianta si sviluppa sempre di più, si radica nella mia persona. La sento attraversarmi le membra dai piedi fin sopra la testa, in ogni angolo del corpo. Voglio alzarmi. Ho bisogno di muovermi. Cerco di sollevare un braccio. Non si muove. Provo con l’altro. Paralizzato. Tento con le gambe. Immobilizzate anch’esse. La pianta dell’angoscia fiorisce liberando nelle mie vene la paura. Il terrore.
Provo di nuovo a spostare i miei arti ma sento che il loro movimento è impedito da qualcosa. Sollevo leggermente la testa e riesco a vederli: le braccia si trovano ai margini del busto, le gambe sono vicine fra loro e tese. Tutto è intrappolato in morse di metallo. Presa dal panico, inizio ad agitare l’intero corpo con l’ingenua intenzione di liberarmi, ma non faccio altro che tagliarmi polsi e caviglie. Solo quando inizio a sentire il bruciore delle ferite e il caldo sangue colare mi ricompongo. Devo rimanere calma. Devo rimanere calma. Devo rimanere calma.
Faccio un respiro.
Prima cosa da fare: riordinare i pensieri.
Come sono arrivata qui?
Cerco di ricordare quello che ho fatto il giorno prima. Le tempie pulsano sempre più forte per lo sforzo.
Dove sono stata?
Con chi sono stata?
Niente. Non mi viene in mente niente. Solo un nero denso che si allarga come una macchia di inchiostro nella mia testa.
Chi sono io?
Come mi chiamo?
Quanti anni ho?
Non ricordo più nulla.
Cosa ci faccio qui?
Sento un rumore dietro di me ma non riesco a girarmi per controllare. Posso però intuire che si tratta del cigolio di una porta che si apre. Sento dei passi avvicinarsi: colpiscono con forza il pavimento coi talloni riempiendo la stanza di una cacofonia di battiti disarmonici.
-Voi preparate tutto il necessario- dice una voce maschile.
-Va bene, dottore-
Un uomo ed una donna in divisa da infermiere entrano nel mio campo visivo e si avvicinano al tavolino di metallo accanto a me. Hanno il capo avvolto in una cuffia ed una mascherina gli ricopre la bocca. Solo gli occhi rimangono liberi da ogni vincolo, occhi che però avrei preferito non vedere. Occhi di vetro, vuoti, privi di sentimento. Mentre li vedo armeggiare con gli strumenti, il mio respiro diventa sempre più veloce e pesante: sollevano garze, pinze, aghi. Siringhe. Bisturi.
Sono ancora impegnata ad osservare i due infermieri quando sento di nuovo la voce maschile provenire dall’altra parte.
-Janette, passami il bisturi- dice un uomo che sembra essere un chirurgo. Anche lui ha occhi di vetro.
L’infermiera cerca l’utensile sul tavolino e poi lo porge al dottore.
-Bene, cominciamo con l’operazione-
Operazione?
L’uomo comincia ad avvicinare il bisturi alla mia testa.
-Fermi, Fermi!- grido
Nessuno fa caso a me.
Inizio a divincolarmi con tutte le forze. I tagli che già ho diventano ancora più profondi, ma non mi importa.
Il bisturi raggiunge la mia testa.
Sento una leggera pressione.
Poi il bruciore.
Poi il dolore.
Urlo ma il chirurgo non si ferma.
Spinge il bisturi sempre più in fondo, sempre più nella mia testa. Sento la pelle lacerarsi quando lo gira in orizzontale cercando di creare una cavità all’interno della mia testa. Scava sempre più in fondo. Sangue rosso e denso cola. Lo sento bagnarmi il viso, scivolare sul collo.
Il dottore sfila il bisturi dal mio capo e avvicina il suo viso al mio. I suoi occhi di vetro quasi trasparenti fissano i miei. La sua bocca si spalanca. Da quelle fauci esce un urlo di terrore ed agonia.
Ma è quando vedo i suoi occhi piangere sangue che sento mancarmi il respiro.

Mi sveglio. Sono nel mio letto. Sto sudando. Ho fatto un incubo.
Sussulto ripensando a quelle scene orribili e così facendo desto Alfred dal suo sonno.
Si gira verso di me.
-Ehi principessa, cosa succede?-
Devo avere un espressione davvero sconvolta sul viso perché lui inizia ad accarezzarmi delicatamente la guancia.
-Ho fatto un sogno orribile- dico con voce tremante.
-Shh, tranquilla. Ora è passato-
Si avvicina a me e mi avvolge tra le sue braccia con fare protettivo.
Lentamente mi calmo. Il respiro ritorna regolare.
-Ci sono qui io. Non può succederti niente di male.-
Si scosta leggermente da me e prende il mio viso tra le sue mani.
-Quando sei con me non devi temere nulla. Capito principessa?-
I suoi intensi occhi marroni mi scrutano con estrema dolcezza.
Io annuisco piano non smettendo di guardarlo.
-Brava la mia Veronica-
Solleva il mio viso e i nostri volti si avvicinano finché le sue labbra non si incontrano con le mie. Prima è un bacio leggero, appena un tocco. Poi diventa più profondo e passionale. Io non mi ribello ed anzi rispondo al gesto. Alfred comincia a mordermi il labbro. È piacevole, ma più passa il tempo, più lui affonda i suoi denti. Sento il sapore del sangue in bocca.
-Alfred… Alfred, smettila mi fai male…Basta-
Ma lui non smette. La sua morsa si fa ancora più fitta. Sembra voglia staccarmi la carne. Non si limita al labbro: si sposta sulla guancia, poi sul collo, poi di nuovo sulla bocca. Ogni volta quei suoi baci strappano un pezzo della mia pelle.
Tutto il mio volto brucia di dolore.
Alfred ferma quella sua tortura allontanandosi e io posso vedere il suo viso: gli occhi prima marroni si sono tinti di nero, la faccia è sporca del mio sangue, specialmente intorno alla bocca. Dalle sue labbra sono spuntati come germogli più di dieci canini, tutti affilati come lame. Non faccio in tempo ad oppormi che Alfred spalanca le sue fauci e riprende a mangiarmi la testa.

Mi sveglio. Mi trovo nella camera di quando ero bambina. Tutto è buio ma riesco a distinguere chiaramente i contorni dei mobili. Tengo stretto tra le braccia il mio pupazzo. Sono stanca e voglio dormire. Ma non posso. Sento che se abbasserò la guardia anche solo per un secondo qualcosa di orribile accadrà. Ma non riesco a resistere alla pesantezza delle mie palpebre. I miei occhi si chiudono per un istante, il tempo necessario perché compaia una strana immagine ai piedi del mio letto. È un lenzuolo. Rimane sospeso nel vuoto e sotto di esso sembra esserci nascosto qualcosa. O qualcuno. Mi metto a carponi sul materasso ed inizio a percorrere la distanza che mi divide da quella ‘cosa’. In mano tengo sempre stretto il mio pupazzo. Avanzo fino ad arrivare al limite del letto. Mi sollevo sulle ginocchia per essere abbastanza alta da raggiungere con la mano la punta del lenzuolo. Non appena lo tocco, questo prende fuoco ed un viso diabolico di donna urlante compare tra le fiamme. In un attimo, anche io prendo fuoco e le urla della donna si confondono con le mie.

Mi sveglio. Mi trovo in un luogo nero. Tutto é nero. Non c’è niente. Niente.
Mi alzo e provo a fare qualche passo, ma tutto é talmente uguale che sembro muovermi nel vuoto. Presa dal panico, comincio correre.
Corro fino a che non ho più fiato e sono costretta ad accasciarmi a terra. All’improvviso un suono. Sono parole.
È una voce.
Sembra provenire da lontano, da una dimensione esterna alla mia.
-Ormai non c’è più niente da fare-
Ora sento i pianti di una donna. E di un ragazzo. Sono mia madre ed Alfred.
Perché piangono?
-È in coma da più di due anni, non si risveglierà più-
Coma?
-No, per favore, salvatela. Vi prego!- urla la donna -Veronica, svegliati!-
Veronica? Sono io Veronica. Sono sveglia. Ehi! Mi sentite?
Perché nessuno mi dà retta?
-Mi dispiace ma dobbiamo staccare il respiratore-
Quelle parole scatenano in me il panico.
No! Non lasciatemi andare! Non lasciatemi sola!
Ho paura del buio.
Sento il suono di qualche click.
-Riposa in pace, Veronica-
Queste sono le ultime parole che percepisco. Ma non potrò mai riposare in pace. Loro stanno arrivando. Vengono a prendermi Sono i miei peggiori incubi. Eccoli lì. Mi stanno accerchiando. Io non posso fare altro che raccogliere le ginocchia contro il petto ed attendere il terribile destino che sarà il mio per sempre.
Io ho paura del buio, ma loro no.