Partenza di Angelo Guida, Matera
_Racconto vincitore ventiduesima edizione Premio Energheia 2016
Mancano 5 giorni alla partenza. Già, la partenza a cui ho dedicato gli ultimi anni della mia vita. Devo arrivare a Goteborg e ho solo 5 giorni per provarci. Quelli persi in Turchia pesano, ma adesso dipende da me, dalla mia buona stella o, come mi ha detto mio padre prima di partire, dalla mia forza di volontà.
Ho abbandonato diversi compagni di viaggio o di sventura e questo mi rattrista, come mi rattrista non aver potuto offrire più di una favola, inventata sul momento, a quella bambina che mi ha regalato il suo piccolo braccialetto portafortuna. Fortuna, una parola che non ha nessun senso nelle mie condizioni. Il braccialetto l’ho legato allo zainetto che mi accompagna ormai da una settimana, da quando ho lasciato la mia famiglia o meglio, quello che resta della mia famiglia, della mia casa.
Essenziale, pratico e comodo il mio zainetto si porta dentro tutto quello che ho, quello che mi rimane.
E’ il secondo giorno che mi sposto da sola e la paura arriva ad intermittenza. Una paura che non conosce ragioni logiche, perché dopo aver visto tua sorella massacrata e i tuoi amici dispersi chissà dove, non c’è ragione ad aver paura qui in un paese pacifico.
L’ultimo sms ricevuto da mio padre mi esorta a non fidarmi dei serbi in quanto c’è il rischio di essere rispedita nei campi in Turchia ed io ho solo 5 giorni per arrivare a Goteborg, per la partenza.
La solitudine fa pensare, sognare, immaginare. Il silenzio che mi circonda, da due giorni, ha sensibilizzato il mio udito, riesco a sentire i rami che affiancano la strada scossi dal vento, gli uccelli cinguettare. Il clima è dalla mia parte. Solo un giorno di pioggia in Turchia, per il resto questo inizio estate è stato clemente. Il camminare mi indurisce le gambe, questo mi preoccupa, ma non ho scelta. Nutro continuamente la speranza di potermi infilare in un treno, riposarmi, e arrivare in tempo per la partenza.
Ed è il camminare che segna indelebilmente gli eventi.
Devo centellinare le mie risorse, quello che ho. Ci penso continuamente come in un perenne esercizio di matematica, ricordo a me stessa i soldi che porto con me: 120 euro e 85 dollari, il tempo che rimane sulla batteria del cellulare 9 ore circa, il tempo residuo sul mio fedele iPod, unico e insostituibile contatto con il mondo che ho sempre sognato e amato che prende forma nelle mie canzoni. Qualche scatola di arachidi, una busta di datteri e un brick di miele. Una sottile ma resistente e calda coperta, una bussola, il libro “Alice nel paese delle Meraviglie” e, infine, quello che mi serve per la partenza. All’occorrenza il mio zaino fa da cuscino. Con mio padre mi sono accordata: il cellulare sarà acceso 20/30 minuti al giorno in orari prestabiliti, quanto basta per sentirci e aggiornarlo sui miei spostamenti.
La direzione è quella giusta, verso nord. Devo entrare in qualche centro urbano e provare, clandestinamente, ad entrare in un treno e passare la frontiera. Devo escogitare un piano per confondermi con la gente del posto. In fondo, una ragazza di 19 anni, da sola, non dovrebbe attirare l’attenzione.
Ora devo camminare in questa strada stretta, tra la vegetazione, sperando di non fare cattivi incontri.
Serbia meridionale, l’ho studiata attentamente. La mappa del percorso che dovrò affrontare, la porto sempre con me ma non ho bisogno di tirarla fuori, la conosco a memoria. Dovrei essere a circa 700 km dal confine con la Slovenia, vero presidio di chi ti rifiuta, ti rispedisce indietro. Affronterò il problema al momento giusto, adesso devo evitare la polizia serba.
Sento i rumori, chiari. Sono lontani ma stanno arrivando. Devo inoltrarmi nella vegetazione e nascondermi a distanza di sicurezza dal fiuto dei cani che la polizia porta sempre per scovarci, per prenderci, per rifiutarci, per mandarci indietro. Non perdo tempo, velocemente mi ritrovo nella vegetazione. Sento distintamente i battiti del mio cuore aumentare, non riesco a controllarli. Cerco di trovare una posizione che mi consenta di mantenermi a distanza di sicurezza e, nello stesso tempo, osservare chi sta attraversando la strada, lasciata poco prima. Le grosse querce offrono comodi ripari e sono abbastanza rassicuranti a quest’ora del giorno. Mi allontano più che posso dalla strada, senza perderla di vista. Mi siedo vicino ad una che sembra più grande delle altre. La quercia, albero simbolo della Serbia, adesso mi offre riparo. I battiti del mio cuore si confondono con i suoni della vegetazione. Li vedo, sono a circa 300 metri da me, scortano un gruppo di persone: giovani, donne, anziani, bambini. Circondati dai poliziotti, sembrano pecore agli ordini dei cani-pastore. Uno di questi gira la testa verso di me, mi spavento. Mi nascondo immediatamente dietro l’albero. Adesso i battiti del cuore prevalgono rispetto ai suoni circostanti che sembrano attutiti, anche loro, dal passaggio di quella triste carovana. Non ho il coraggio di aprire gli occhi, rimango immobile, non so per quanto. Solo quando mi rendo conto che il pericolo è passato esco fuori dal mio riparo e guardo la strada: deserta.
Mi alzo, prendo due datteri dallo zaino e li mangio. Avverto il bisogno di sentire della musica, accendo l’iPod, cerco qualcosa che possa mettermi in sintonia con il paesaggio che mi circonda: Vivaldi- Estro Armonico. Venti minuti del Maestro mi bastano, adesso devo spegnerlo, la batteria deve rimanere carica ed è già a metà.
Devo riprendere il cammino, ma prima massaggio le gambe, segnate da graffi e alcuni lividi, allungo i muscoli. Ed è proprio mentre mi preparo ad avviarmi verso la strada che sento altri rumori, insoliti, arrivare questa volta dalla vegetazione. Vedo gli uccelli prendere il volo sincronizzati sui suoni provenienti dal bosco. Mi ritrovo nuovamente accovacciata vicino alla quercia con lo zaino stretto al petto come se potesse, in qualche modo, proteggermi. Questa volta non chiudo gli occhi, ho davanti a me il braccialetto regalatomi in Turchia da quella piccola bambina. Il suo portafortuna.
I suoni si fanno sempre più vicini, riesco a distinguerli: è il galoppare di cavalli, più di uno, forse due. Si fermano, lo sento distintamente. Saranno a 30 metri dalla mia quercia. Continuo a rimanere immobile, non voglio lasciare quella posizione. Fisso il braccialetto legato allo zaino, come se fosse una sfera magica.
Ed ecco che sento una voce, femminile, gioiosa, allegra. Sento distintamente passi e risate. Mi decontraggo e mi alzo. Mi affaccio spiando tra i rovi intorno alla quercia e vedo due ragazzi, poco più grandi di me, che scherzano, si abbracciano, si baciano. Non ricordo l’ultima volta che ho visto una scena del genere dal vivo. Rimango incantata da quella felicità, da quella sintonia, da quella bellezza. Poco distanti da loro, due cavalli, intenti a mantenere una complice discrezione rispetto alle chiare intenzioni dei due ragazzi. Avverto un disagio strano, spiare di nascosto due ragazzi coinvolti emotivamente mi fa sentire in colpa, come se stessi rubando loro qualcosa.
Indecisa se rimanere nascosta, allontanarmi o farmi notare, vengo anticipata dai cavalli che avvertono la mia presenza. All’unisono i due ragazzi si voltano verso di me, il ragazzo con una faccia preoccupata, lei con più tranquillità.
Esco allo scoperto, mi faccio vedere: <<Ciao>> dico, in inglese. <<Sono Dahilia>> mi presento. Vedo il ragazzo rilassarsi alla mia presenza e la ragazza sorridere.
<<Ciao, sono Irina, che fai qui?>> mi chiede. La domanda è imbarazzante. Non so quale possa essere la risposta giusta, non so se fidarmi di quella coppia. Parlano inglese e questo ci consente di comunicare. Decido di dire la verità. I due ascoltano la mia storia tenendosi per mano.
<<Ciao io sono Sasha, sono serbo mentre Irina è russa>> si presenta finalmente anche il ragazzo che fino a quel momento non aveva detto nulla.
<<Devo arrivare in Svezia, fra 5 giorni, potete aiutarmi?>> chiedo.
Irina guarda il suo ragazzo e iniziano a parlare, in russo. Non so cosa si stessero dicendo ma il tono assunto dai due mi fa capire che hanno intenzione di aiutarmi.
<<Andiamo>> Irina afferma con decisione.
I due si dirigono verso i cavalli. Si fermano davanti agli animali e si baciano, abbracciati, come se si stessero lasciando. Salgono sugli animali, Irina mi porge il braccio, per aiutarmi a salire sul suo cavallo insieme a lei. Eseguo con agilità. Anche se sono 3 anni che non monto un cavallo, mio padre mi ha sempre portata a cavallo da quando ero piccola e Irina avverte la mia familiarità con l’animale. Lentamente attraversiamo la selva, in un sentiero tracciato da orme di cavalli, da gioie e desideri, quelli che spiavo qualche minuto fa. Incrociamo un sentiero, più grande. Irina si ferma, Sasha lentamente si avvicina a lei e io, incantata, guardo gli occhi del ragazzo, proiettati, indirizzati verso Irina. Si avvicina, la bacia. A contatto con il corpo di Irina avverto il suo respiro aumentare, il suo battito del cuore. Il ragazzo gira il cavallo e parte. In pochi secondi Sasha scompare dalla nostra vista. Irina mi sorride, mi prende la mani, le appoggia sui suoi fianchi e parte al galoppo.
Il vento, i profumo di Irina, i colori del bosco e, soprattutto, la consapevolezza che due ragazzi hanno appena rinunciato ad un momento d’amore per me, mi fanno sentire viva. Il sentiero diventa strada.
Arriviamo dopo 20 minuti di fronte ad una grande villa immersa nel verde. Un cancello comandato a distanza si apre. Passiamo lentamente davanti all’ingresso principale della villa. Scendiamo. Irina mi accompagna verso un ingresso più piccolo, apre la porta. All’interno, due robuste signore di mezza età intente a cucinare. Irina, dopo aver detto qualcosa alle due, mi dice:<<Aspetta qui, ti prego, non dire a nessuno di Sasha>>.
Il tempo di lavarmi le mani e mi ritrovo a tavola a mangiare, sapori dimenticati. Rimango in cucina per 2 ore, ricarico il cellulare, l’iPod. Sotto la curiosa e amorevole custodia delle due cuoche, mi addormento.
<<Dahilia, Dahilia, sveglia, devi andare!>> apro gli occhi e vedo Irina davanti a me.
<<Ho convinto mio padre. Ti darà lui una mano per superare il confine. Ha organizzato quello che poteva, fin dove poteva. Dopo toccherà a te. Adesso devi andare, c’è una macchina fuori che ti aspetta>> conclude Irina. La guardo, dai suoi occhi capisco che posso fidarmi, l’abbraccio:<<Grazie>>.
Esco dalla casa, è quasi buio, una macchina scura mi aspetta. L’autista mi apre la porta posteriore e con un gesto, mi invita ad entrare. Irina dalla soglia della cucina guarda in alto, verso la parte superiore della villa. Seguo il suo sguardo. Dalla finestra un signore sembra vigilare su quanto succede all’esterno. Incrocio i suoi occhi . Partiamo.
Guardo dal finestrino della macchina, non so dove sto andando, estraggo dallo zaino “Alice nel Paese delle Meraviglie”, so cosa leggere:
“Un giorno Alice arrivò ad un bivio sulla strada e vide lo Stregatto sull’albero.
– “Che strada devo prendere?” chiese.
– “Dove vuoi andare?”
– “Non lo so”, rispose Alice.
– “Allora, – disse lo Stregatto – non ha importanza“. “
La bussola mi dice che sto andando a nord-ovest. Mando un Sms a mio padre, rassicurante senza troppe spiegazioni. Immediatamente ne ricevo uno da lui “qui c’è tanto da fare, arrivano in continuazione feriti e l’ospedale è pieno. Oggi non si sono sentiti spari. Ti voglio bene.”.
Saranno le 11 di sera, quando arriviamo a Belgrado . La città è quasi deserta. L’autista sa dove andare. Entriamo nel centro della città. La macchina si ferma, davanti a noi una grossa scritta “Teatro Nazionale di Belgrado” L’autista prende un foglio e il telefono. Digita un numero, parla in russo. Passano una ventina di minuti e riceve una telefonata. Rimette in moto ed entra nel garage sotto il teatro. Ferma la macchina davanti ad un grande Bus contrassegnato da una grossa scritta in russo decorata da disegni raffiguranti strumenti musicali.
Un signore esce dal Bus e in inglese mi dice <<Buonasera, sono Sergey benvenuta nel nostro Bus, il Bus dell’Orchestra Nazionale Russa in tournè, prossima tappa Lubiana, si parte>>.
L’autista, mio silenzioso compagno di viaggio, consegna una busta a Sergey, monta in macchina e va via dalla rampa del garage. Entro nel Bus dall’ingresso centrale, una quarantina tra donne e uomini mi osservano sereni. Saluto con la mano, rispondono allo stesso modo.
<<Accomodati dove ti pare>> mi dice Sergey. Vedo diversi posti vuoti, ne scelgo uno in coda al bus, vicino ad una signora bionda con gli occhi chiari, forse verdi, che mi accoglie con un sorriso.
Sergey, faccia buffa per via di due baffi che sembrano disegnati per decorare un naso piuttosto pronunciato, si avvicina e mi dice:<<Riposati, abbiamo diverse ore di viaggio davanti. Domani abbiamo un concerto al Teatro Nazionale della Slovenia>>.
Frastornata dagli eventi provo ad allungare le gambe mentre la signora, al mio fianco sorridendo sfiora il braccialetto penzoloni dallo zaino come se ne conoscesse la funzione, il valore.
Le chiedo da quale parte della Russia provengono. Non risponde. Sergey, seduto poco più avanti interviene: <<Siamo in pochi a conoscere l’inglese. Veniamo da diversi posti, lei è Blanka è di Vladivostok>>.
La mia compagna di viaggio capisce che parliamo di lei e rafforza il suo sorriso regalando una carezza ai miei capelli, sporchi e consumati da giorni di viaggio.
Mi sento al sicuro, l’ultimo viaggio in bus l’ho fatto, seduta per terra, insieme a decine di sventurati per essere accompagnati in un campo profughi. Adesso sono in viaggio con dei musicisti, una orchestra. Voglio compiacermi di questa sensazione che avevo dimenticato. Chiedo aiuto al mio Ipod, alla mia musica. So già cosa voglio sentire. BitterSweet Simphony entra in circolo tra i miei nervi. Godo dei violini e dell’acida voce del cantante “Cause it’s a bittersweet symphony, this life-“, mi lascio trasportare dalle note, penso alla mia famiglia, alla mia momentanea esistenza: alla partenza fra 4 giorni. Mi addormento.
<<Dahilia , Dahilia>> Sergey mi sveglia. <<Stiamo arrivando al confine sloveno, questa notte abbiamo superato quello croato>> mi dice.
La parola “confine” è diventata difficile da pronunciare, come se il suo significato nascondesse codici che nessun vocabolario ha mai decifrato. D’istinto cerco lo zainetto come se potesse esorcizzare i rischi che affronterò. <<Stai tranquilla, arrivati al confine ci pensiamo noi>> rassicura Sergey.
Il bus si ferma, un militare entra dalla porta anteriore. Ad attenderlo Sergey che consegna un mucchio di documenti, passaporti e fogli.
Improvvisamente, due signore estraggono dalle loro custodie i violini e iniziano a suonare una melodia, dolce, che non conosco.
Il militare si affaccia dalla porta ancora aperta del Bus e chiama altri militari. Entrano in due e, dopo, un altro; adesso sono in quattro, armati. Sembrano divertiti, i documenti sono ancora in mano al militare entrato per prima.
Ho paura. Ancora alcuni minuti e le violiniste smettono di suonare dopo un crescendo che sembra coinvolgere i militari. Uno di questi, forse il comandante, si avvicina alle violiniste e stringe loro la mano, restituisce i documenti a Sergey e vanno via dopo aver salutato tutti.
Respiro, l’apnea in cui ero rimasta coinvolta finalmente finisce, Sergey mi cerca <<Abbiamo intonato l’inno sloveno>> mi dice sorridendo.
Arriviamo a Lubiana. Il Bus si ferma davanti ad un hotel. Scendiamo tutti. Ad aspettarci nella hall dell’albergo una signora. Cerca Sergey che le va incontro. Mi chiamano. <<Lei è dell’Ambasciata russa in Slovenia>> mi dice Sergey. <<E tu devi essere l’amica della figlia del console, vero?>> mi chiede gentilmente la signora in un perfetto inglese. Penso ad Irina, al mio aspetto, le mie condizioni. Annuisco.
La signora consegna a Sergey una busta, mi saluta ed esce dall’Hotel. Sergey apre la busta, ispeziona il suo contenuto. Estrae un foglio e lo legge con attenzione. <<Olga, vieni qui>> rivolto verso un gruppo di persone disposte per il check-in con documento in mano.
Una ragazza che avevo già visto nel bus si avvicina a noi. Sergey le dice qualcosa in russo. La ragazza mi invita a seguirla. Entriamo in ascensore e vivo con profondo imbarazzo le mie precarie condizioni fisiche, i chiari segni di 7 giorni di viaggio vissuti pericolosamente dormendo per terra o in bus pieni di sventurati.
Stanza 303. <<Puoi farti una doccia e cambiarti, fra un’ora devi andare>> mi dice Olga.
Non capisco cosa mi aspetta ma approfitto dell’invito. Mi lascia sola nella stanza, svuoto lo zainetto, elimino ciò che non serve, mi faccio una doccia. L’ultima volta che ho provato acqua calda non lo ricordo. Il sapone e l’acqua fanno emergere graffi e lividi sulle mie gambe fino ad allora nascosti tra sporcizia e indumenti.
Dopo un’ora sono giù nella hall. Sergey mi stava aspettando, mi consegna una busta e mi dice <<Ci sono 200 euro, un biglietto aereo fino a Copenaghen, una lettera di referenze da presentare alla partenza, dopo toccherà a te. Un taxi ti aspetta qui fuori ti accompagnerà all’aeroporto, il volo è fra due ore >>. Pulita non ho problemi ad abbracciarlo <<Grazie>>.
Un taxi fuori dall’hotel mi sta aspettando, sa già dove mi deve accompagnare. La corsa è già pagata.
Arrivo all’aeroporto di Lubiana, l’ultima volta che ho preso l’aereo è stato con la mia famiglia per visitare Petra in Giordania. Cerco e trovo velocemente il gate per imbarcarmi. Mostro i documenti al check-in con la lettera consegnatomi da Sergey. L’addetto alla sicurezza mi lascia passare.
Il volo dura solo due ore, quanto basta per sentire un po’ di musica e guardare dal finestrino come il mondo si fa piccolo.
Aeroporto di Copenaghen.
Al controllo dei documenti vengo fermata. <<Ci segua>> mi dice un militare. Lo seguo. Vengo accompagnata in una grossa stanza dove vedo altri passeggeri, per lo più donne e bambini. Dalle loro facce e condizioni capisco che anche loro, come me, stanno fuggendo. Chiedo, in arabo, ad una signora da quanto tempo sono fermi in quella stanza.
<<Non parlare in arabo con nessuno>> interviene un militare posizionato all’ingresso in atteggiamento vigile. Mi spavento.
Capisco che la lettera che mi ha consentito di partire non posso utilizzarla per entrare. Un ragazzo estrae un cellulare e questo provoca l’ira di quelli che sembravano dei guardiani. La paura mi assale, mancano 3 giorni alla partenza. Devo essere a Goteborg almeno mezz’ora prima dell’orario fissato, nessuno mi aspetterà se arrivo in ritardo. Mi accovaccio per terra abbracciando lo zainetto con gli occhi chiusi, non voglio vedermi in gabbia, voglio sognare.
Sono tre, forse quattro ore che siamo chiusi in una anonima sala dell’aeroporto di Copenaghen senza sapere cosa succede, cosa sarà di noi. Durante l’attesa la porta si apre per far entrare altri sfortunati, alcuni di questi fanno in tempo a dirci, prima di essere zittiti, che saremmo stati rispediti indietro. Una trentina di persone adesso occupano la stanza. Prendo “Alice”:
“Ma io non voglio andare fra i matti, — osservò Alice.
— Oh non ne puoi fare a meno, — disse il Gatto, — qui siamo tutti matti. Io sono matto, tu sei matta.
— Come sai che io sia matta? — domandò Alice. —
Tu sei matta, — disse il Gatto, — altrimenti non saresti venuta qui.”
La porta si apre di nuovo, questa volta con più energia, dall’esterno. Un uomo in borghese si affaccia e chiede <<C’è qualcuno che può fare da interprete arabo/inglese?>>. Il mio braccio si alza prima della testa che avevo tra le ginocchia.
<<Presto seguimi>> mi dice.
Lo seguo, mi ritrovo in mezzo a passeggeri in arrivo o in transito, il percorso è breve. Entriamo in una sala e mi ritrovo nello stesso scenario lasciato tre minuti primi. Una ventina di persone di etnie diverse con la mia stessa faccia, con il mio stesso orizzonte. Su una sedia, in evidente stato di gravidanza, una donna sostenuta da un militare sembra quasi priva di sensi, mentre una bambina le tiene una mano piangendo.
<<Dille che la porteremo in ospedale>> mi dice l’uomo. Traduco.
Arriva la barella e un medico. La donna viene presa, il medico chiede all’uomo chi è l’interprete. Senza esitare l’uomo indica me. Andiamo mi dice.
Prendo per mano la bambina e seguiamo la barella.
La parola “exit” che capeggia sull’ultima vetrata dell’aeroporto non mi lascia indifferente. Un’ambulanza con la porta posteriore già aperta ci aspetta. Entriamo. Il medico vuole sapere se soffre di patologie ed altre informazioni. Eseguo il mio compito. L’ambulanza entra in ospedale, la donna viene portata in una sala, mentre io e la bambina veniamo accompagnati in una sala di aspetto. Ci sediamo
<<Come ti chiami>> le chiedo.
<<Soumae>> risponde singhiozzando.
<<Da dove vieni?>> le chiedo.
<<Somalia>> risponde.
<<Sei bellissima>> è l’unica cosa che riesco a dirle.
Mi ritrovo in una corsia di ospedale di Copenaghen, una bimba piccola sulle mie gambe e una partenza programmata, fra 2 giorni, a Goteborg.
Accendo il cellulare, mando un messaggio a mio padre. Provo a raccontare quello che è successo. Puntuale arriva la risposta “Fai la costa giusta. Ti voglio bene”.
E’ quasi notte, io e la mia nuova amica siamo stese sulle sedie per riposarci quando un signore in camice bianco si avvicina a noi. <<Siete voi che state con la signora somala?>> ci chiede?
<<Si, sta bene?>> chiedo.
<<E’ nato un bel bimbo e la mamma sta bene, solo che adesso deve fermarsi qui per qualche giorno. Fra qualche ora la portiamo in stanza>> mi dice gentile.
Gli occhi di Soumae sono puntati verso di me, in attesa di una traduzione. Le dico che ha un fratellino e che la sua mamma sta bene e potrà vederla fra un po’. Mi abbraccia con una forza che non avevo mai avvertito.
<<Rimani con me>> mi dice. Sorrido e la bacio.
Abbracciate ci assopiamo.
E’ mattino, 36 ore circa alla partenza. Adesso non conto più i giorni.
La luce del giorno sembra non averci mai abbandonato, quando una infermiera ci invita a seguirla.
Soumae mi prende la mano. Seguiamo la donna che ci porta in una stanza dove la mamma di Soumae è stata ricoverata. La bambina mi lascia la mano e, correndo, le salta addosso. Si baciano. Avverto in quel momento la sensazione di aver fatto la cosa giusta. Devo andare adesso, non so come ma devo andare. Mi avvicino al letto accarezzo la bambina e stringo la mano della mamma. Soumae si incolla a me, non mi lascia. <<Grazie>> mi dice la mamma. <<Grazie a voi. Devo andare adesso>> le dico. Prima di andarmene stacco dallo zainetto il braccialetto regalatomi in Turchia e lo metto al polso di Soumae. Le dico di badare al fratellino. La bacio e, piangendo, vado via dalla stanza senza voltarmi.
Esco dall’ospedale, sono disorientata. Entro in un Bus che va alla stazione. Dopo un’ora sono dentro la stazione della capitale danese. Piena di militari armati, cerco di passare inosservata. Mi avvicino alla macchinetta che fa i biglietti per la Svezia. Il primo treno è per Malmo. Prendo il biglietto prima classe, costosissimo ma penso che sia più facile potersi confondere con i passeggeri dei vagoni di testa.
Il ponte di Oresund, una delle costruzioni più importanti mai fatte dall’uomo. Collega la Danimarca alla Svezia attraversando il mare. Il viaggio è breve, dai finestrini vedo pale eoliche che si ergono dal mare come se fossero statue. I passeggeri intorno a me sono tutti biondi con gli occhi chiari. La prima classe è stata una ingenuità, penso.
Turchia, Grecia, Macedonia, Serbia, Croazia, Slovenia, Danimarca e adesso l’ultimo confine prima della partenza.
<<Documenti prego>> nuove divise, stessa domanda.
Prendono il mio passaporto. <<Mi segua>> dice uno di loro. Scendo dal treno e vengo accompagnata nel comando della polizia di frontiera svedese.
Il militare mi chiede <<Quale è la ragione del tuo arrivo in Svezia?>>.
So bene che l’unica risposta possibile è <<Sono una profuga, scappo dalla guerra>>. Gentile il militare mi accompagna in quella che sembra una sala d’attesa e mi dice <<Dobbiamo trattenerti, fare degli accertamenti, verificare la sua posizione qui in Svezia. Non essere preoccupata, al massimo sarai trasferita in una struttura organizzata non distante da qui in attesa di una sistemazione>>. Mi restituisce il passaporto e un biglietto con un codice di chiamata “OA 42”. Il tono del militare è rassicurante. Il via vai nella postazione è frenetico. Guardo il display in alto “OA 11”.
Dopo circa un’ora il display riporta “OA 15”. Capisco che la mia giornata potrebbe essere trascorsa interamente all’interno del comando della polizia di frontiera per poi essere trasferita chissà dove.
“Fai la cosa giusta”. Mi viene in mente l’ultimo sms ricevuto da mio padre. Mancano 6 ore alla partenza, sono a meno di 300 km da Goteborg. “La cosa giusta”.
Prendo lo zainetto, esco fuori. E’ una bella giornata. Militari indaffarati entrano ed escono ignorandomi totalmente. Macchine in arrivo dalla Svezia e altre in arrivo dalla Danimarca si incrociano sotto lo sguardo vigile dei poliziotti.
“La cosa giusta”. Inizio a camminare, ad allontanarmi dalla frontiera aspettando che qualcuno possa chiamarmi, riprendermi e riportarmi indietro. Dopo circa 20 minuti, circondata da macchine e mezzi pesanti arrivo ad un incrocio: sinistra Goteborg 231km, destra Stoccolma 610 Km. Tutti i mezzi provenienti dalla Danimarca arrivano a quell’incrocio. Prendo l’Ipod, i “Blink 182” isoleranno il mio udito e aiuteranno il mio fisico ad andare avanti. Giro a sinistra. 5 ore alla partenza. Ricomincio i miei esercizi di matematica, la ricognizione di ciò che porto addosso.
Dopo un’ora arrivo in un punto di ristoro al fianco della larga strada che sto percorrendo. Mi fermo, entro nel bar chiedo un succo di mirtilli. Esco, mi siedo su una delle panchine attrezzate per il ristoro. Mi sento stanca, invisibile, nessuno nota la mia presenza. 3 ore alla partenza. Ho bisogno di ritrovare motivazioni, devo fare la cosa giusta. Una coppia adulta mi passa vicino, chiedo <<Andate a Goteborg?>>. Non rispondono, mi ignorano. Un ragazzo è intento a parlare al cellulare, aspetto che termini. <<Vai a Goteborg?>>. Non risponde anche lui. Un’altra coppia, un altro ragazzo stesso silenzio. Arrivano tre grossi bus contemporaneamente. In meno di due minuti l’enorme piazzale si ritrova pieno di ragazzi all’incirca della mia età. La stragrande maggioranza è bionda con gli occhi chiari ma una buona parte è di colore. Mentre, quelli che sembravano i responsabili adulti del gruppo urlavano istruzioni , mi avvicino ai bus. Alcuni ragazzi erano rimasti all’interno dormivano. La maggior parte con un cappellino azzurro sulla faccia per oscurare la luce. Il cuore inizia a battere forte, la tentazione di salire su uno di quei bus è fortissima così come la paura di essere scoperta. Abbraccio lo zainetto come per nasconderlo quando sento dietro di me un dei responsabili che in svedese mi urla facendo segno di entrare nel bus. Non capisco. Vedo che disperato insegue i ragazzi per riportarli dentro.
Non perdo tempo, entro. Trovo su un sedile uno dei cappellini azzurri indossato dal gruppo. Lo prendo. Cerco un posto che potrebbe non essere occupato mentre dal finestrino vedo i ragazzi letteralmente buttati dentro dal povero responsabile. Mi siedo in quello che sembra il più scomodo, quello che tutti vorrebbero evitare vicino la sbarra dell’ingresso posteriore. Metto il cappellino sul viso e fingo di dormire. Gli schiamazzi dei passeggeri coprono i battiti del mio cuore. Il posto è scomodissimo, sono sicura che nessuno si sarebbe seduto qui. Il bus parte.
Sms da mio padre, sento la vibrazione. Sposto il cappellino quanto basta per leggerlo “C’è il tuo nome tra le partenti….>>. Non leggo il resto del messaggio.
Intanto dai sedili anteriori si sente una chitarra che inizia ad intonare gli accordi di Wonderwall, cantano tutti credo.
Dopo due ore il bus si ferma. Vedo la porta davanti a me aprirsi. La scena di due ore prima si ripete. I ragazzi scendono velocemente e i responsabili che provano a mantenere l’ordine.
Esco dal bus, invisibile come ero entrata ma con le gambe indolenzite. Faccio qualche metro cerco di capire dove sono. <<Goteborg?>> chiedo alla prima persona che trovo. <<Goteborg>> risponde.
Ritrovo me stessa, so quello che devo fare. Cerco e trovo un taxi, non ho bisogno di dirgli dove andare gli mostro la mappa che ho con me. <<Quanto ci vuole?>> chiedo. <<15/20 minuti>> risponde.
Guardo l’ora, ho qualche minuto per prendere ciò che occorre per la partenza: l’accredito, la tessera. Con discrezione mi cambio. Adesso il cuore inizia a battere forte. L’Ipod, mio fedele compagno. Avevo programmato tutto se fossi arrivata a questo punto. Guardando dal finestrino la città, Springsteen scuote con prepotenza i miei nervi, la mia fisicità. Non c’è dolore o stanchezza adesso. C’è una partenza, quella per cui ho dedicato gli ultimi anni della mia vita.
Lo stadio è pieno. Ho già messo il pettorale sulla mia maglia, mi dirigo in silenzio verso la partenza. Insieme a me altre otto ragazze di nazionalità diverse, vedo la bandiera del Messico sulla maglia di chi mi precede.
Adesso conto i secondi.
Penso a mio padre, mi starà guardando sul satellite, a Irina tra le braccia di Sasha nel bosco della Serbia meridionale a Sergey pronto a suonare i più improbabili inni nei teatri di tutto il mondo, a Soumae, sua madre e il fratellino. I pensieri vengono interrotti definitivamente dallo speaker
<< In sesta corsia, unico rappresentante della Siria a questa edizione dei campionati mondiali giovanili Dahilia El-Sabah>>.
E’ lo starter a dire l’ultima
<<Ai vostri posti>>
<<Pronti>>
Uno sparo, l’unico che volevo sentire.
“Someday girl, I don’t know when, we’re gonna get to that place Where we really want to go and we’ll walk in the sun.But till then tramps like us baby we were born to run… “