I racconti "brevissimi di Energheia"

I brevissimi 2017 – Rosso sbavato di Barbara Carlin_Castel d’Ario(MN)

anno 2017 (I colori dell’iride – rosso)

Non appena sentì la porta di casa chiudersi sbattendo, Maria attese qualche minuto finché non lo vide in strada attraverso la tenda, poi si precipitò giù per le scale in fretta. Bussò alla porta del primo piano e, come sempre, trovò il grande abbraccio di Marta ad avvolgerla.

«Cos’è successo, Maria?» le chiese, ma conosceva la risposta, impressa sul volto della ragazza nella geografia innaturale del volto tumefatto, un rigonfiamento scuro appena sotto l’occhio e un filo di rossetto sbavato agli angoli della bocca. Marta era per lei un rifugio da tre mesi, quando Maria, giovanissima, si era trasferita con il fidanzato al piano di sopra.

Trascorreva le giornate in modo uguale: lucidava e strofinava il piccolo appartamento di mattina, passava ai fornelli l’intero pomeriggio, senza mai ricevere visite. Diceva di non avere ancora trovato lavoro, nonostante nel condominio si mormorasse che era stato lui ad averle proibito di uscire di casa e, perciò, da buoni vicini, era necessario lasciare alla coppia un po’ di libertà, non intromettendosi troppo nelle sue faccende. Una volta Marta capitò nel mezzo di una conversazione tra signori del condominio, ma quando si avvicinò per capire meglio di chi stessero parlando, i due si zittirono e la guardarono e allora capì che Maria era da sola.

«Non può ridurti così, Maria.»

«Gli ho bruciato la cena… Ha ragione lui, non so fare niente.»

«Non è normale, Maria, quello che ti fa, quello che ti dice. Tu ti meriti un ragazzo che ti rispetti» e si mise in ascolto del suo respiro irregolare tra i gemiti. La prima volta che Marta le disse che l’uomo che viveva con lei stava diventando pericoloso, Maria si era rifiutata di starla a sentire, le aveva urlato che era una donna sola e che non l’avrebbe mai amata nessuno.

Ora che le percosse si facevano più frequenti, però, sembrava che anche Maria si stesse convincendo della necessità di cambiare.

«Lui mi ama» disse Maria, forse più a se stessa, in un misto di arrendevolezza e di orgoglio.

«Ma non è così che si esprime l’amore.»

«E tu che ne sai?» disse Maria stizzita. Marta andò a prenderle del ghiaccio, attese qualche secondo che la ragazza lo adagiasse sulla pelle, poi dolcemente le prese la mano che teneva premuta sul tavolo: poteva essere sua figlia.

«Ho paura per te, Maria. Devi denunciarlo e devi andartene.»

Allora cominciò a spiegarle con tono pacato che conosceva due persone che l’avrebbero aiutata come avevano già fatto con altre donne. Non le rivelò che erano un avvocato e un medico, perché Maria si sarebbe spaventata, schiacciata dal peso della taccia che avrebbe investito la sua persona, se in paese si fosse saputo il motivo per cui ricorreva al soccorso di professionisti. Le disse che avrebbe raccolto annunci per trovarle un lavoro e che, nel frattempo, sua sorella avrebbe potuto ospitarla in città, lontano dalla gente del posto.

Maria bevve tutte quelle parole come faceva sempre, in silenzio, aspettando che il male sui lividi passasse, per poi risalire le scale e tornare alla vita di prima. Nei suoi occhi, divenuti impenetrabili, Marta non leggeva più nulla, neanche la paura, come un sipario chiuso sul domani. Avrebbe voluto scrollarla, gridare che il ragazzo con cui viveva era un mostro e che lei doveva raccogliere tutto il coraggio che aveva per lasciarlo, invece disse: «Per qualunque cosa, io sarò sempre qui.»

A distanza di anni, Marta mi racconta questa storia tutte le volte che glielo chiedo, con gli occhi lucidi e le mani intrecciate sullo stesso tavolo sul quale ebbe l’ultima conversazione con Maria.

«E poi cos’è successo?»

Marta sorride e dice che è ora che mi riaccompagni in città. Quando scendo dall’auto, prima di chiudere la sportella, mi indica il portone di un palazzo antico, incorniciato da una cascata di glicine. Sulla lastra color oro dei campanelli all’ingresso, scorro impaziente i nomi dei residenti e in un balenio scopro quello di Maria.