ASIYA, Sebastiano La Piscopia
Racconto finalista Premio Energheia Libano 2017
«No grazie signore, non mi ha fatto niente, è colpa dei sandali. Il fango sui piedi è per via di questi calzari aperti e di questa balorda pioggia d’inizio primavera.»
«Ma come è colpa dei sandali ?» chiese incredulo Nando, «è colpa di questo maldestro cane, diavolo di un Siluro !»
D’improvviso quella donna dalla pelle olivastra fece un repentino balzo all’indietro, portando le mani a protezione di quei grandi occhi neri.
Al che Nando, cercando di stemperare la situazione, disse: «Guardi signora che Siluro è solo il nome del mio cane, non deve temere nulla, è un giocherellone impunito che salta sulle pozzanghere, ma non è affatto pericoloso.»
Poi, con aria da vecchio giramondo, aggiunse: «E a quanto pare non è metereopatico: è l’unico che qui a Roma riesce ad essere di buonumore anche con questa sottile ed innaturale pioggia inglese !»
Quella donna misteriosa, non fece alcuna osservazione sul sottile drizzling che li avvolgeva in quell’atmosfera quasi irreale, ma disse solo, con sguardo pensoso e con tono inaspettatamente deciso: «Non ho paura del suo cane, ho paura del diavolo !»
Era albeggiato da poco, e mentre in fondo a Viale Castrense l’orizzonte color rame ritagliava nel marmo i contorni austeri della Basilica aurea, una mite brezza primaverile sembrava voler accompagnare le nubi oltre i colli.
Nando spense la sua gracchiante radiolina vintage e rimase un po’ in silenzio, poi si presentò.
«Mi permetta, sono Nando Sarti, forse avrà letto di me, scrivo per il giornale romano che questi splendidi ragazzi – indicandoli con l’antenna sbeccata della sua radio – vendono anche sotto la pioggia. Le darei volentieri un passaggio, ma ho solo un vecchio Motobecane 50 a miscela.»
E lei: «Ma non si chiamava Siluro ?»
«No, scusi è il mio motorino che ha un nome così, lo so è francese ma io lo pronuncio alla romana. E’ vecchio ma non mi ha mai lasciato a piedi.»
Poi rimase un po’ sospeso, prima di aggiungere: «Beh, forse è solo perché ha anche i pedali.»
La breve ma fragorosa risata che seguì, evidenziò il sorriso di Nando appena ingiallito dal fumo dei suoi toscani.
Anche lei, senza quasi rendersene conto, rise di gusto portandosi elegantemente una mano sulla bocca.
In breve tra i due si era creata una speciale sintonia.
«Il mio nome è Asiya e vengo da Asmara.»
Nando fece come per avvicinarsi, ma lei lo precedette portandosi repentinamente la mano destra sul cuore.
E lui: «Scusi non sapevo della sua religione…»
«Non è una questione di religione, ma di rispetto per me stessa. Io sono cristiana come il mio bisnonno italiano, ma mia madre è musulmana e questo gesto l’ho appreso da lei.»
Quella distinta signora dal vago profumo di cannella, in pochi minuti lo aveva lasciato senza parole almeno un paio di volte.
E non era facile. Nando era forse l’ultimo cronista romano verace ancora in circolazione e anche se aveva superato i sessanta già da un po’, era sempre curioso e in cerca di notizie, aperto alla conoscenza e al confronto dialettico, ma se poteva, l’ultima parola doveva essere sempre la sua.
Anche quella mattina era uscito fiutando l’aria in cerca dell’ispirazione per il suo pezzo, lungo lo stesso scosceso lembo di giardino verde smeraldo che costeggia le mura Aureliane, ma ancora non sapeva cosa avesse in serbo per lui quell’incerto mattino di marzo.
«Ah, Asmara ! La piccola Roma, che città meravigliosa…dunque lei è Eritrea.»
«No, Italo-Eritrea, il sangue non è acqua.»
La forza espressiva di quella donna, che parlava un italiano perfetto dal vago accento arabo, era veramente dirompente.
Nando non sapeva se riprendere il suo cammino solitario, aspettando di andare al giornale o se ingaggiare una esplorazione sensoriale e culturale con quella donna apparsa dal nulla che sembrava volerlo sfidare, provocare e tentare al tempo stesso.
Dapprima prese il guinzaglio di Siluro come per ribadire la sua autorità, poi invece lasciò che la sua curiosità di uomo, più che di giornalista, prendesse il sopravvento.
Si strinse la cinta del suo improbabile impermeabile grigio anni settanta col collo coreano e la fissò grattandosi nervosamente l’incolta barba brizzolata.
Quella donna per qualche strano motivo lo stava turbando.
Asiya non abbassò lo sguardo, anzi lo fissò intensamente, compiaciuta per aver attirato così audacemente la sua attenzione.
Poi fece un impercettibile movimento del capo verso l’alto e sorrise dolcemente senza più nascondere la sua dentatura bianchissima impreziosita da un lieve diastema, tipico delle più belle donne del Corno d’Africa.
Come colto da improvviso disagio Nando le disse: «Molto bene Signora Asiya, allora mi scusi ancora per il disturbo arrecatole dal mio cane e per non aver compreso bene le sue origini e…»
Ma prima che potesse finire la frase, lei lo interruppe con un breve cenno della mano e con voce suadente disse: «Ma no figurati, sono qui di passaggio e sono molto felice di essere giunta finalmente dalla piccola Roma alla grande Roma. E’ sempre stato il sogno della mia vita, qualcuno lassù deve avermi ascoltata. La tua città è meravigliosa anche con la pioggia perché, vedi, qui la pioggia serve a confondere le lacrime ed il sole ha sempre la calda forza di asciugarci il volto.»
Nando non sapeva se essere più stupito da quell’improvvisa confidenza o da quella sensibilità quasi poetica.
Era letteralmente frastornato dai suoi repentini cambi d’umore e confuso dall’enigmaticità del suo volto: il piccolo naso all’insù le dava un tono aristocratico, mentre le labbra carnose e prive di trucco sembravano voler parlare di popolo, di onestà, di solidarietà e di libertà.
Poi Nando riprese: «Sì Asiya, grazie per aver accettato le mie scuse. Allora benvenuta ! Qui i segni della storia hanno lasciato tracce visibili di una grande civiltà: tutti gli imperi prima o poi cadono, la civiltà invece continua a vivere nei popoli che ne hanno apprezzato la bellezza.»
E lei: «Condivido ciò che dici, per me la bellezza di una civiltà è la sua cultura e la tua vicinanza mi fa respirare cultura. E’ per questo che credo che tu sia una bella persona.»
Nando senza ancora crederci appieno stava rivivendo delle sensazioni che pensava ormai sopite nel passato e non sembrava preoccuparsi affatto della sorte di Siluro.
Sapeva di essere molto più grande di quella longilinea donna degli altipiani, ma pareva non vergognarsi dell’ambigua attrazione che provava per lei. Era pronto a scalare il cielo.
«Beh Asiya, tu m’imbarazzi, in realtà sono solo un vecchio sognatore che nonostante la sua natura di cronista del reale, ama ancora rileggere “Il lupo della steppa” di Hesse e fantasticare sulla libertà dello spirito tra le nebbie dense dei suoi toscani.»
Nando si fermò per una attimo con lo sguardo perso nel vuoto, come per focalizzare un luogo preciso, poi disse: «Asmara è cultura. La sua architettura variegata che va dal futurismo all’art decò, disegna i contorni irregolari di una “città dell’utopia”. Asmara è come una fabbrica di profumi dove non riesci a distinguere le varie essenze perché resti frastornato e sopraffatto dal mix confuso e inebriante delle varie fragranze che si fanno respirare così, liberamente, senza un ordine apparente.»
Poi Nando, quasi compiaciuto per quelle parole pronunciate di getto, strinse le labbra portandole all’insù e con uno sguardo un po’ sornione prese dalla tasca dell’impermeabile una piccola scatola di radica di ciprino dalla chiusura d’ottone ossidato.
Asiya lo guardava attonita cercando di capire se volesse donarle qualcosa.
Nando, invece, subito dopo prese il suo vecchio zippo e con un rapido gioco a scatto delle dita si accese, con impertinente nonchalance, un mezzo sigaro annerito.
Il tempo stava cambiando velocemente: le fresche nuvole in arrivo erano bianche come la schiuma dell’oceano.
«Sono sicuro che ti troverai bene qui. Non so se hai amici in zona, ma io conosco un posto dove potresti stare davvero a tuo agio senza grandi spese.»
«Ti sembro povera ?»
Neanche la forte dose di nicotina del suo toscano riusciva a dargli qualche istante di distensione.
Quella donna lo aveva stregato con la sua capacità di respingerlo con la stessa rapidità con cui improvvisamente sembrava volerlo attrarre.
Facendo il vago Nando replicò: «Non l’ho mai neppure pensato, ho notato che il tuo abito madreperlato ha dei morbidi ricami che disegnano la tua vita alta con precisione sartoriale. Volevo solo esserti d’aiuto.»
Per la prima volta Nando avventava delle galanti contromisure nel timido tentativo di difendersi da quell’inaspettato susseguirsi di parole quasi sfrontate.
Poi, cercando di nascondere un po’ d’imbarazzo, riprese: «Hai anche la cittadinanza italiana o sei venuta con un visto di soggiorno ?»
Asiya, rimase lusingata per le attenzioni appena ricevute, ma replicò solo all’ultima domanda: «Diciamo che ho delle amicizie altolocate, sono venuta con uno speciale lasciapassare. »
Senza accorgersene Nando e Aisya avevano già oltrepassato sia la barriera della diffidenza, sia gli antichi archi romani di via Nola, per ritrovarsi seduti su una panchina del parco Carlo Felice, tra la chiesa di San Giovanni in Laterano e quella di Santa Croce in Gerusalemme.
Dal viale alberato di quella panchina i rami dei pioppi s’intingevano nel cielo, macchiandosi d’inchiostro turchino.
Asiya mosse la mano sinistra dietro il collo per spostare i suoi lunghissimi capelli color notte senza luna, mentre una lama di luce centrò il suo diadema lasciando che dei caldi riflessi ambrati colorassero le forme del suo seno.
Nando rimase in silenzio.
Asiya mise i gomiti sulle ginocchia, poggiando il mento sui palmi delle mani come per assumere una posa meno sensuale e cominciò a parlare del suo passato con lo sguardo che fissava un punto indefinito: «Del mio bisnonno abbiamo solo una vecchia foto ingiallita di un militare con i baffi ricurvi, seduto vicino alla madre dei suoi figli. In quella foto i suoi gradi non sono ben visibili, ma poco importa ormai. La mia bisnonna invece era in piedi, forse per nascondere il fatto che fosse molto più alta di lui. Lei aveva uno sguardo tra il nobile ed il primordiale che però lasciava trapelare la moderna apertura mentale delle più emancipate donne di Massaua.»
Nando non riusciva a capire perché Asiya stesse partendo da così lontano. Era dubbioso e un po’ prevenuto per l’idea che lei cercasse qualche insolita forma d’aiuto, ma al tempo stesso era intrigato dall’evolversi di quell’insolito incontro.
Nel maldestro tentativo di stemperare un’incipiente atmosfera coloniale, Nando interrompendola disse: «Ma guarda che gli italiani di una volta erano piccoletti, ora invece…» facendo segno con la mano verso di sé.
Lei si voltò e gli sorrise, poi riportando il busto all’indietro, fece una smorfia buffa come per chiedergli di non fare lo sciocco.
Asiya riprese quindi la parola: «La storia a volte si ripete in senso inverso. Ora sono molti gli Eritrei che lasciano la propria terra in cerca di una vita migliore, ma le insidie di questo mondo violento non lasciano spazio ai sogni. Ho dato a mia figlia il nome della patrona delle donne in gravidanza perché la mia piccola aveva tre giri di cordone ombelicale intorno al collo e perché speravo che un giorno quel nome italiano potesse aprirle una via. Io non volevo che partisse, ma alla fine ho accompagnato io stessa Anna nel suo lungo viaggio fino alle sponde del nord Africa.»
Nando era curioso ed al tempo stesso profondamente preoccupato per la sorte di Anna, così le chiese ad alta voce: «E allora ?»
«Pur se fra mille peripezie, tutto è andato bene sino a quando quei diavoli non ci hanno catturato.»
«Ma allora è viva, o no ?»
«Sì, è viva.»
Nando tirò un lungo sospiro di sollievo e si strofinò le mani sul pantalone per asciugarsele dal sudore freddo che le aveva improvvisamente inumidite.
Asiya riprese: «Io fortunatamente sono riuscita a fuggire e non è un caso che sia qui con te oggi. Puoi aiutarmi a liberarla ?»
Al che Nando pensò: «Io mo sentivo che me conoscevi.»
Poi diede una forte boccata al suo toscano e le disse: «Nando ce sta ! Nun te molla !»
Lui era così, quando era libero da condizionamenti e deciso, d’un tratto lasciava che la sua genuina romanità emergesse prepotente, come la forza calda di un soffione boracifero.
Asiya, ebbe l’istinto di porgli una mano sull’avambraccio in segno di ringraziamento ma si fermò.
Poi riprese: «Il pagamento era anticipato. Era quasi l’alba e coloro che ci scortavano, ci assicurarono che saremmo partiti per l’Italia di lì a poco. Poi invece arrivarono delle milizie armate che diedero due compatti mazzi di dollari alla nostra guida e fummo subito strattonate verso un fuoristrada per essere portate in un luogo sperduto nel deserto. Dopo circa due ore ci ritrovammo in una fatiscente costruzione in muratura che da fuori sembrava un ovile: eravamo insieme ad un’altra dozzina di ragazze i cui occhi avevano una vena di rassegnazione che non lasciava presagire nulla di buono.»
E Nando: «Porco mondo…, ma quanto tempo fa è successo? E tu come sei riuscita a fuggire ?»
Asiya proseguì: «Della mia liberazione saprai. La nostra prigione si trovava a circa 800 metri da una piccola oasi dove tutte le mattine ci portavano per prendere l’acqua e lavare i loro indumenti.»
«Ma che razza di gente è ? Non siamo mica nel medioevo, negli ovili si tengono gli animali non le persone. Dovrebbero starci loro lì. Bastardi !»
Poi si fermò come incredulo prima di chiedere: «Ho capito bene ? Tratta di schiave ? Altro che medioevo qui dobbiamo risalire a migliaia di anni fa. Voglio sperare che vi abbiano sfruttato solo lavorativamente !»
Asiya, fece un lungo sospiro e dopo essersi alzata delicatamente il prezioso abito plissettato, gli mostrò il polpaccio destro segnato da un’estesa ed irregolare ustione.
«Questo è quello che ci facevano quando osavamo ribellarci ai loro spregevoli desideri. Usavano acqua bollente, la stessa acqua che ci costringevano a prendere e persino a scaldare.»
Poi due grandi lacrime, trasparenti come la sua anima, solcarono quasi contemporaneamente il volto di quella che, per lui era, ormai, “la regina degli altipiani”.
Nando tacque, poi si alzò lentamente e spense con rabbia il sigaro sulla corteccia di un pioppo lì di fronte.
Nel frattempo, quel campione di Siluro, di rientro da un paio di giri intorno alla statua di San Francesco, si avvicinò con fare irriverente e, accucciandosi come un giaguaro dai colori di una mucca svizzera, abbaiò ad Asiya invitandola a giocare un po’.
Nando si sentì sollevato per non dover dire nulla d’impegnato e dopo aver riposto con cura il mozzicone nel suo portasigari, si rivolse a Siluro dicendogli, tra una risata e una rude scrollata: «Aò ma che voi ? Che nun o vedi che sto a parlà co na signora ?»
Ma Asiya non rise, sembrò ricordare qualcosa e si alzò di scatto.
Così fece anche Siluro. Nando rimase stupito dall’innaturale sincronizzazione di quei movimenti e rivolgendosi ad Asiya le chiese: «Vuoi fare due passi ?»
E lei: «E’ ora che io vada, so che farai tutto il possibile per salvare Anna, non posso dirti di più.»
Nando non sapeva come fare per trattenerla, aveva bisogno di più informazioni, di più tempo, al che le disse: «ma perché non andiamo a farci un bel cappuccino con la schiuma ?» Ma lei: «No grazie, non posso, non posso proprio.»
«Ma come facciamo a rimanere in contatto ?»
«Non preoccuparti, saprai dove trovarmi.»
Quella frase così misteriosa faceva pendant con quella donna impenetrabile.
Quasi inseguendola con la voce, Nando le chiese: «Ma come riconoscerò Anna ?»
«Dal nostro diadema», le rispose con un tenero sorriso.
Infine, prima di voltarsi gli disse: «Ricorda…..ricorda il mio nome ».
Uno strano profumo di fiori di ginepro lasciò i suoi capelli, addolcendo quel residuo odore di pioggia.
Lui, rimase turbato e pensieroso, mise il guinzaglio a Siluro e si recò a passo veloce verso casa, al quinto piano di un macrocondominio di Via La Spezia.
Come tutte le mattine, ad attenderlo, nel vialetto che precede il cortile interno, c’era Mara, la sua giunonica portiera, che con la scusa d’innaffiare le piante condominiali, salutava tutti, svolgendo la sua primaria funzione: dispensare e raccogliere informazioni.
Quel giorno Mara era più elegante del solito in quell’abito in cotone blu anni sessanta con la cinta in vita. I suoi grandi e vistosi orecchini color oro a forma di giglio, volevano forse abbinarsi alla fibia lucida della cinta che delineava le compresse rotondità del suo ventre.
Sapendo che di lì a poco sarebbe rientrato quel marcantonio di Nando, si fece trovare con una generosa scollatura a vista, reclinata sui suoi invidiatissimi gerani rosso vermiglio.
Nando sembrò non voler sbirciare tra l’abbondanza di quei seni giganteschi, ma nonostante il suo particolarissimo stato d’animo, non poté fare a meno di indugiarci per qualche istante.
«Buongiorno cara, che fai innaffi pure dopo la pioggia ?»
«Ma che dice dottò ! E che era pioggia quella de stamattina ? E poi e piante so come e persone, hanno bisogno d’amore.»
Nando le sorrise trattenendo a fatica un ghigno più audace, poi la salutò: «mò torno.»
Salì di corsa le scale a due a due insieme a Siluro ed entrò in casa per farsi il suo solito caffè alla moka.
Il silenzio dei suoi pensieri era rotto solo dagli echi dello sport preferito di Siluro: abbaiare inutilmente agli svolazzanti piccioni del cortile interno.
Dopo aver ripreso la sua inseparabile radiolina rivestita da quell’oscena foderina in finta pelle beige, salutò Siluro che rimase a guardare la tv e si recò al giornale.
Giunto al vialetto interno, però, il suo passo cadenzato e spedito s’interruppe al profumo proveniente da quella finestrella magica che dava sul cucinotto posto al piano terra dell’appartamento di Mara.
«A che ora vengo ?» chiese Nando facendo finta di fischiettare.
«Quando vuole dottò, noi si pranza per l’una, facci lei…oggi taglioni all’uovo con cicoria, rosmarino e pecorino !»
E poi: «Io comunque sono a sua disposizione dottò, le mie risorse sono al suo servizio.»
Nando sollevò un angolo della bocca e la salutò fugacemente con la mano.
In pochi minuti era già al giornale, salutò tutti come di consueto, ma quella mattina non diede molta confidenza ai colleghi di redazione, nessuna battuta, nessun commento sulle notizie del giorno, nulla di nulla.
Nando, entrò e fissò assorto la sua vecchia Olivetti lettera 22 color grigio topo o, come dicevano i ragazzi della redazione, semplicemente color topo.
Il suo ufficio era l’unico a non essere open space, perché Amanda Lusi, la Capo redattrice, gli aveva concesso quella stanza chiusa facendo finta di non sapere che lui, di tanto in tanto, fumasse di nascosto.
Lui diceva che il fumo lo aiutava a concentrarsi, mentre i colleghi mormoravano che quella puzza era insopportabile e che prima o poi avrebbero chiamato i vigili.
Appena entrato in ufficio, Nando aprì la finestra e prese una profonda boccata d’aria per fare un enorme e prolungato sospiro liberatorio, poi fissò le nuvole come se volesse abbracciarle, ma loro si muovevano troppo veloci quella mattina: un’innaturale luce blu cobalto era il loro palcoscenico.
Nando non sapeva esattamente da dove cominciare, così si mise in bocca un mozzicone spento, mentre i pensieri correvano senza una direzione precisa, inseguendosi come bambini al parco.
Poi ebbe come una folgorazione e gridò: «Cavolo, Marco !»
Marco era il suo giovane tirocinante, un ragazzo poco più che ventenne, dalla pelle liscia e delicata, appassionato di geopolitica.
Intimidito dalla severità di quell’insolito tono di voce, Marco fece “capoccella” in equilibrio precario dopo una timida bussata.
Appena dentro, Nando lo baciò come se non lo vedesse da anni, spettinandolo un po’, poi esclamò: «Al lavoro piccolè !» indicandogli il polveroso computer di cui Amanda lo aveva inutilmente dotato.
Nando gli spiegò tra l’eccitato e l’imbarazzato che l’esigenza era quella di trovare una piccola oasi nel deserto del nord Africa, dove milizie estremiste potessero tenere in schiavitù giovani donne africane.
Marco gli scoccò uno sguardò cercando di afferrare se Nando volesse prenderlo in giro o, invece, affidargli personalmente la gestione di una prestigiosa inchiesta.
Fino ad allora Marco si era occupato solo di fatti di cronaca romana, buttando giù articoletti su omicidi di periferia o scandali rosa. Non capì, ma si mise subito all’opera.
Marco passava in rassegna siti di georilevazione satellitare con le credenziali della rivista di geopolitica dove collaborava come cartografo e al tempo stesso leggeva avidamente articoli del Tripoli Post e dell’Afrol News, in cerca di notizie sulle rotte del traffico di schiave sessuali.
Nando invece continuava a fornirgli dettagli sulla vicenda, spiegandogli l’importanza di quella ricerca da cui dipendeva la vita di Anna.
Dopo una mattinata intensa e carica di tensione, Marco ruppe improvvisamente sia il suo proverbiale silenzio, sia la punta del lapis sferrando un pugno secco sul suo taccuino di fogli riciclati: «E vai ! Siamo nel Fezzan e più precisamente nella Striscia di Auzou, è questa la terra di mezzo che stiamo cercando, contesa da secoli da potenze straniere con l’aiuto di Tuareg e Toubu. Ora l’instabilità politica dell’area alimenta traffici illeciti di ogni tipo, gestiti da milizie estremiste di incerta matrice. La nostra oasi è proprio qui, guarda, non è segnata sulle cartine perché questo luogo dimenticato da Dio è come se non esistesse.»
Poi, ingrandendo un punto preciso sull’immagine a video, esclamò: «Questa ragazza sta entrando proprio in una specie di ovile con un otre sulla testa !»
In quel preciso momento Nando esplose un urlo liberatorio.
Poi esclamò: “Somiglia tantissimo ad Asiya !”
In un lampo fu fuori dal giornale con la stampa di quelle foto e di quelle coordinate geografiche, con l’idea di chiedere aiuto a un suo vecchio amico dell’Arma in pensione, compagno di tante inchieste.
Tuttavia, man mano che i suoi passi aumentavano, la sua spavalda gioiosità diminuiva.
Si stava rendendo conto che Anna non stava in una casa diroccata nel Parco della Marcigliana, ma nel Fezzan e che lui di Asiya non sapeva praticamente nulla.
Camminando sovrappensiero col cellulare in mano arrivò, senza quasi accorgersene, nel vialetto di casa.
Mara sembrava aspettarlo, mentre raccoglieva da terra alcuni petali di rosa canina.
Appena lo vide si strinse la cinta, come per evidenziare un girovita in realtà inesistente e gli chiese: «Ma cai fatto oh ?»
«Lunga storia Mara, lunga storia, sta vorta me sa che manco tu me poi aiutà.»
Mara ridandosi un tono gli chiese: «Ma che le serve dottò ? Nun me sottovaluti !»
«Ma no, devo aiutare una ragazza, Anna, è in pericolo in Africa.»
«Ma Africa Africa o quartiere africano ?»
«A Mà, si te dico Africa e sarà Africa no ?»
Al che Mara: «Va bè, ciccia !»
«No, aspetta, scusame ma st’allergia al polline me innervosisce. Senti ma… non riesco a capì: sto profumo d’acqua de rose viè da le piante o da sti belli capelli… »
Mara sorrise compiaciuta per un istante, poi, avvicinandosi, gli bisbigliò: «E’ George, er Colonnello, è l’unico che ce po’ aiutà. Sta al terzo piano, sotto la lettera G., pe fortuna nun parla solo americano. Ho cominciato a osservallo da quanno ogni mercoleddì dei ragazzi palestrati e ben vestiti vengono a trovallo. Sembreno militari. Me sa che fanno cose segrete perché co tutto l’impegno mio, so riuscita a capì solo che lui è “er Colonnello”.»
E Nando: «Ma sei sicura che questo Colonnello non frequenti ragazzi più giovani perché magari…»
Mara lo bloccò subito ponendo in avanti il palmo della mano destra: «No, te posso assicurà de no. Ciavemo na certa amicizia intima…ma queste so cose riservate…»
Poi Mara gli prese i fogli dalle mani dicendo: «Fidate, si Anna sta là er Colonnello ce la riporta ‘ndietro. Nun me dirà de no !»
Nando passò tutto il pomeriggio e la notte al giornale a scrivere.
Il suo articolo fu un’appassionata difesa dei diritti di tutte le donne violate che sembrava scritto a quattro mani con l’Ambasciatrice di Buona Volontà dell’Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta degli esseri umani.
L’ultima frase appena battuta dalla macchina da scrivere di Nando era di Ludwig Wittgenstein e aveva il sapore di un aspro presagio: “Le parole sono azioni.”
Infatti in quel preciso momento, alle cinque del mattino, il telefono s’illuminò.
Era un messaggio di Mara: «Accendi sul primo canale, subito !»
Nel fermo immagine il commentatore televisivo abbracciava una ragazza infreddolita dal volto chino che indossava un diadema identico a quello di Asiya.
Le parole del servizio furono: «Questa notte un attacco di ignote forze speciali presso una piccola oasi nel Fezzan, ha consentito la liberazione di 11 donne, quasi tutte provenienti dal Corno d’Africa. Troppo tardi per la meno giovane di loro che dopo essersi ribellata alle violenze dei suoi carcerieri è stata uccisa all’alba di ieri: il suo nome era Asiya, che in arabo significa “colei che si tende verso i deboli e li solleva” !»
Asiya ieri si era già liberata, a modo suo.
Una carezza profonda raggiunse il volto impietrito di Nando, mentre un dolce profumo di resina di cedro e d’incenso riavvolse i suoi pensieri.