Speranza: serve più dell’intelligenza
Ho conosciuto molte persone più intelligenti di me. Fra queste, alcune eccellevano nella cultura umanistica. Altre avevano una produzione artistica di alta classe. Altre ancora avevano menti matematiche eccezionali. Per la mia formazione erano queste che mi impressionavano di più e che francamente invidiavo.
Erano capaci di intuire immediatamente soluzioni generali a problemi complicati che io affrontavo in modo goffo e lento. Avevano una incredibile memoria di concetti e soluzioni che potevano esporre in modo completo dopo molti anni da quando li avevano appresi. Avevano menti innovative e avevano inventato teoremi, procedure e metodi di calcolo, macchine. Eppure i nomi di alcuni di loro sono quasi dimenticati. Uno traeva tanto piacere dall’imparare e dall’inventare cose nuove che non trovava il tempo di scriverle, pubblicarle, raccontarle ad altri. Un altro aveva tanta passione per gli scacchi da trascurare discipline e ragionamenti ben più elevati. Un altro ancora – oltre a studiare seriamente – si abbandonava distrattamente a piaceri banali: beveva troppo e fumava troppo e in conseguenza si accorciò drammaticamente la vita.
Invece altre persone di intelligenza più modesta sono più organizzate. Sono motivati a conseguire risultati concreti e ci riescono: producono di più (anche se più lentamente). I loro successi li rendono visibili e li premiano con vantaggi di vario tipo.
La modesta conclusione che è meglio avere un buon carattere che un’intelligenza straordinaria, viene confermata dal Prof. Rick Snyder dell’Università del Kansas. È autore di un “Manuale della Speranza” e ritiene di aver dimostrato che molti successi sono legati più strettamente a un atteggiamento pieno di speranza, che all’intelligenza. Snyder non parla di ottimisti ad oltranza – di gente sempre sicura che “tutto andrà bene alla fine” (anche senza aver raccolto dati rilevanti). Definisce la speranza come una caratteristica cognitiva orientata verso i modi di risolvere problemi e difficoltà e ispirata di continuo dalla tendenza verso obiettivi chiari e concreti.
Non mi convince molto il giudizio sul fatto che l’intelligenza sia da considerare inadeguata – finchè si glissa sui modi di definirla. È interessante, però, il modo in cui Snyder definisce la speranza. Ha costruito un questionario in cui quattro domande indagano sulla propria fiducia e abilità di trovare modi per levarsi dai guai, risolvere problemi conseguire risultati importanti – anche quando gli altri sembrano incapaci di farlo. Altre quattro domande sono intese a determinare quanto ci riteniamo: energici, esperti, realistici, abituati al successo. Il punteggio che si ottiene per ogni domanda va da zero a 4.
Così la dote di speranza di ogni soggetto viene misurata su una scala numerica che va da 0 a 32. Snyder sostiene che questa misura ha forte correlazione positiva con il successo nello sport e a scuola e con la capacità di sopportare il dolore e di guarire dalle malattie (non con il successo economico).
Questa teoria è probabilmente viziata anche perchè si basa largamente sul giudizio che uno dà di se stesso – e l’introspezione è vista con sospetto da molti psicologi seri. La teoria di Snyder concorda, però, con l’esperienza di ogni persona di buon senso. Chi va meglio agli esami anche se non ha studiato moltissimo? Chi ha una mira più sicura nel tiro al bersaglio? Chi guida l’auto in modo più competente e veloce? Lo sappiamo bene: chi è sicuro di se, rilassato, non nervoso, non distratto da segnali casuali e inessenziali.
Dobbiamo concludere che questo psicologo del Kansas ci sta inviando un messaggio banale, mascherato come se fosse un risultato scientifico importante? Non necessariamente. Il progresso nella comprensione dei modi di funzionare degli esseri umani deve passare attraverso tentativi di codificare e di misurare i comportamenti. Solo così possiamo tentare di rinforzare quanto suggerisce il buon senso, sul quale, poi, il consenso spesso è scarso.