Il mio vicino_Mathis Ferroussier_Parigi
Racconto vincitore Premio Energheia Francia 2017
Traduzione a cura di Carla Giacalone
È colpa del mio vicino se non dormo più. Non è perché sia rumoroso anzi è piuttosto tranquillo. Ma il mio appartamento è ancora più tranquillo di lui. E qualsiasi cosa faccia il mio vicino, io lo sento. O più esattamente lo ascolto. Non ho mai parlato con lui, non l’ho neanche mai visto, eppure so tutto di lui. Il mio vicino si chiama G. Printemps, è scritto sulla porta ed abita lì da almeno due anni perché quando ho traslocato qui lui c’era già. So quando c’è e quando non c’è. So quando mangia, quando dorme, quando fuma e quando legge. So che ogni mattina si alza elle 7.45 senza sveglia e che i suoi primi gesti, scendendo dal letto, sono indossare un lungo accappatoio di seta e ispezionare ognuna delle piante del suo appartamento. Controlla se durante la notte è cresciuta una nuova foglia, se è sbocciato un fiore. Ieri i suoi nasturzi erano sbocciati. L’ho sentito dai suoi passi allegri che galleggiavano di qua e di là, a destra e a sinistra sul parquet, rimanevano sospesi in aria per un po’ e poi si poggiavano con dolcezza. Il mio vicino non è spesso felice. Di solito i suoi passi pesanti strisciano per terra e si lascia cadere nel suo vecchio divano ascoltando Mozart. Penso che sia perfino depresso.
L’altro giorno il mio vicino ha avuto una visita. Cosa rara che dapprima mi ha commosso e poi deluso profondamente. Il mio vicino ed il suo visitatore hanno lasciato l’appartamento il pomeriggio stesso ed il mio vicino è tornato solo la sera verso le 21.30. Il mio vicino, lo sapete, mi è infedele. Al suo ritorno gli ho fatto capire la mia scontentezza. Nel momento in cui ha sbattuto la porta, mi sono affrettato, andando in cucina, a prepararmi una frittata al formaggio. L’odore delle uova cotte lo disgusta ed è intollerante al lattosio. Ha capito benissimo il messaggio, che ce l’avevo con lui perché andando a letto ha estratto accuratamente diverse pillole dal blister di un medicinale. Il rumore della compressa spinta dalla plastica e che buca l’alluminio mi è insopportabile, questo lo sa bene. Ma non sono un tipo rancoroso e neppure lui e quindi dopo l’incidente la nostra relazione è tornata alla normalità.
Ma ecco ormai non dormo più per colpa sua. Da quasi una settimana ha una nuova moda passeggera. I suoi problemi d’insonnia non sono per niente nuovi e quando non riusciva a dormire avevo preso l’abitudine di accarezzare il muro divisorio interno per rassicurarlo. Mi ero accorto già da un po’ che le mie carezze non lo calmavano più, ma ecco che da cinque notti non prova neanche più a trovare il sonno e anziché dormire, scrive. Rendetevi conto, pagine annerite dall’altro lato della parete a qualche centimetro da me, ma il cui contenuto mi rimane irrimediabilmente sconosciuto. E non sono solo un paio di righe tracciate, sento tutta la notte la sua matita che graffia la carta, pagina dopo pagina, fino all’alba. L’ultima volta ne ho contate quasi cento.
Per dispetto anch’io ho iniziato a scrivere ed ho pensato per un attimo di inventarmi uno stratagemma per decifrare questi scritti che mi nasconde. Ho ascoltato, con una precisione da appassionato di musica, il ritmo dei colpi di matita sulla carta per tentare di farne uscire un motivo ed associare ogni suono ad una lettera. Sono riuscito con facilità a decifrare la curva delle e che inizia piano piano in un suono sordo, poi accelera in modo secco per il looping centrale prima di finire con un atterraggio controllato e legarsi alla lettera successiva. Anche le s sono state facili da distinguere, come piccoli serpenti nervosi che strisciano alla fine delle parole; così come per le v che la penna fa cadere bruscamente e che risale allo stesso modo, scollate come le gole di un canyon. Ma per il resto, nessuna regolarità nella formazione delle sue lettere, il mio vicino ha una scrittura a zampa di gallina.
Accetto il fatto che abbia i suoi segreti, non è questo il problema, perché anch’io ho i miei. Ma in questo caso se li tenesse tutti per sé piuttosto che farmene parte solo a metà, facendomi vedere soltanto che ne ha.
Ho anche pensato a traslocare poiché visibilmente il vicinato non è più possibile fra me ed il mio vicino. Ma perché avrei dovuto pagare da solo le conseguenze di questo litigio tanto improvviso, quanto inaspettato? Riconosco la mia parte di responsabilità nell’incomprensione che si è creata fra di noi e so che è dovuta in parte ad una mancanza di comunicazione da parte mia. Ma dare l’intera colpa a me da parte del mio vicino è davvero essere in malafede. Per tutte queste ragioni ho deciso di ammazzare il mio vicino.
Il mio vicino, come già detto, dedica un culto alle piante e in particolar modo a quelle che sbocciano e diventa un culto quasi religioso. Sono riuscito a procurarmi, grazie ad una conoscenza famosa nel mondo della botanica – e di cui non svelerò il nome qui per ragioni evidenti –, una pianta tropicale rarissima e dal potere tossico così potente che dopo due ore rinchiuso con lei ti porta alla morte. Perfalis Nigrium, è il suo nome, mi è pervenuta stamattina incartata con cura in un vestito di polipropilene sigillato in modo rigorosamente ermetico. Vedo attraverso la pellicola trasparente i larghi fiori azzurri divinamente sbocciati ed immagino, galleggiando nell’aria intossicata di questo vaso chiuso, il profumo che ucciderà il mio vicino. Scrivendo queste ultime righe, sto per togliermi le scarpe per piazzare senza rumore la pianta davanti alla porta del mio vicino ed aspettare di sentire il rumore della plastica che libera il veleno.
***
Un giorno qualcosa si è messa a puzzare. Io condivido i servizi igienici sul pianerottolo con il mio vicino e ho pensato inizialmente che li aveva dovuti chiudere. Ma siccome non avevo più sentito rumori nell’appartamento del mio vicino da più di un mese, il bagno, ogni volta che ci andavo era segnato dalla mia unica traccia. Nessuna goccia di pipì se non quella schizzata sulla tavoletta del water. L’odore mi offriva così la certezza della morte del mio vicino e ne conclusi che il suo corpo si stava infiltrando nelle fibre del materasso. L’odore, benché sgradevole, non mi disturbava. Alla fine mi era diventato familiare e occupava l’appartamento con una presenza che mi era quasi piacevole.
Qualche giorno dopo, dall’altro lato del muro, si sentì improvvisamente un rumore. Era un rumore costante, una specie di brusio perpetuo che col passare dei giorni si faceva sempre più forte. Era come dei fogli accartocciati e dei colpetti secchi dati sui muri, sui mobili, sui tessuti. Erano le mosche che avevano invaso l’appartamento del mio vicino e in numero talmente importante che finirono per intrufolarsi anche in casa mia. Una di loro doveva essere riuscita a infiltrarsi da sotto la porta, a penetrare nel mio appartamento e a deporre le uova in un terreno caldo e umido di un vaso di fiori o nella mollica dolce di una brioche al burro. Erano ormai decine e decine a gironzolare nel mio appartamento. Aprendo gli armadi sciami neri sfrigolanti prendevano il volo sbattendo le loro ali secche e fini, come carta di seta. Si posavano sul tavolo per mangiucchiare le poche briciole dimenticate, succhiavano i liquidi dei frutti troppo maturi nel cesto della frutta, grattavano il salnitro dai muri, la muffa dalla doccia, i resti di cibo accumulato sullo sgocciolatoio del lavandino. E quando io mi immobilizzavo a osservare le loro incessanti attività, il loro ininterrotto rituale, venivano a piantare le loro zampette su di me. Io le osservavo da vicino votarsi con gli stessi gesti sul mio corpo, leccare il sebo della mia pelle, tra pezzi diversi e sparsi dei miei peli, aspirare un po’ di sangue dalle crosticine grattate che sanguinavano un po’, riempirsi della traspirazione che affiorava dai miei pori. Mangiavano, succhiavano, leccavano tutto quello che trovavano.
Un giorno che ero steso sul letto, lo spettacolo di queste mosche indaffarate a degustare il mio corpo mi sembrò investito di una dimensione erotica particolarmente eccitante. Repressi subito questo pensiero, ma aveva invaso la mia mente, e più me lo impedivo, più questa idea mi sembrava attraente. Trovavo particolarmente intrigante il fatto che queste mosche, prima di posarsi sul mio corpo, avevano probabilmente fatto un giro nella camera accanto e avevano succhiato dall’estremità della loro proboscide il corpo senza vita del mio vicino. Quel corpo che avevo cercato di immaginare per due anni, quel corpo che avevo tanto fantasticato, quel corpo di cui avevo ascoltato i sospiri, i rantoli e i flussi trascorrere senza mai intravvederlo, senza mai sentirne neppure la voce; quel corpo di cui sognavo ogni notte i contorni, passando dolcemente la mano sul muro, mi diventava infine accessibile fisicamente, mi era quasi reso palpabile grazie all’intermediazione delle mosche. Un giorno notai, sulla punta della proboscide di una di loro, un piccolo pezzettino di carne rossastra, dall’aspetto umido e tenero. Era un piccolo pezzo di carne prelevata dal corpo del mio vicino di cui quella mosca aveva dovuto deliziarsi; ora ne conservava un pezzetto sulla proboscide. Con la punta delle dita presi delicatamente la mosca dalle ali, come una pietra preziosa, con una minuzia da gioielliere. Sentivo le sue braccia minuscole battere contro le mie dita mentre, allo stesso tempo, agitava le zampe e, sporgendo le labbra in avanti, la portai alla mia bocca. Chi non ha conosciuto il sapore dell’uomo resta sconosciuto anche a se stesso. Questo pezzo minuscolo, questa piccolissima particella di carne, la tenni in bocca per giorni e giorni. Incastrata tra uno dei canini superiori e le gengive, ne assaporavo con la punta della lingua i sapori più nascosti, con la forma effettivamente molto delimitata, ma con i contorni un po’ sfilacciati, dalla consistenza decisa e filamentosa, croccante e delicata. Prima di ogni pasto tiravo fuori dalla bocca il piccolo pezzo di carne per non alterarne i sapori e dopo essermi meticolosamente lavato i denti, lo rimettevo sempre nello stesso posto. Prima di addormentarmi lo riponevo in un sacchetto ermetico nel congelatore, affinché non marcisse e la mattina mi affrettavo a rimetterlo in bocca. E sempre, in quel momento, quando, dopo un pasto o una notte di sonno, rimettevo il pezzo di carne tra il canino e le gengive, sempre, il mio corpo si elettrizzava con un fremito di goduria di cui prima non aveva mai conosciuto nulla di simile.
Un lunedì 8 maggio – me ne ricordo perché quell’anno l’8 maggio cadeva di lunedì – bussarono alla mia porta. Preso di sorpresa inghiottii il pezzo. Era la vicina del piano inferiore, una certa Maria Ascençao. Non l’avevo mai incontrata, ma avevo notato il suo nome su una cassetta delle lettere nel portone del palazzo. Aveva i capelli di una lunghezza smisurata rispetto al suo piccolo corpo e portava dei vestiti di una noia che si ritrovava nella sua voce. Con quelle scarpe basse e quel pantalone stretto che cingeva i suoi fianchi larghi era salita fino qui a lamentarsi dell’odore che imperversava e mi chiese se sapevo da dove potesse provenire. “Quale odore?” risposi. Con la mano sul naso, rimase un attimo interdetta. Rispose così: “Come quale odore?” “Ah, quell’odore?” feci io, “forse è crepato il vicino”. Subito dopo chiamò la polizia.
Un’ora dopo sentii bussare alla porta del mio vicino gridando “Printemps! Printemps!” Se avessi abitato l’appartamento di fronte mi sarei goduto lo spettacolo grottesco dallo spioncino. I poliziotti finirono per sfondare la porta. Maria Ascençao era con loro e anche la portinaia. Sentii le mosche sbattere un po’ dappertutto. Tossirono. Aprirono le finestre e finirono per gridare. Un attimo dopo, un uomo e una donna in tenuta bianca salirono e dissero che avrebbero spostato il corpo nel corridoio, dove si trovava il sacco con il quale lo avrebbero trasportato. Finalmente, stavo per vedere il Signor G. Printemps. Finalmente, dopo due anni e qualche mese di vita in comune, avrei incontrato il mio vicino. Socchiusi la mia porta e sulla barella deposero il corpo. La pelle era molto rovinata, rosicchiata dal tempo e dalle mosche, e distinguere dei tratti in quei campi di carne scavata sarebbe stato impossibile.
Tuttavia, una certezza si imponeva. Il mio vicino, era una vicina, una donna molto anziana, con i capelli bianchi, in un accappatoio di cotone. “Crisi cardiaca, sicuramente!” sparò il medico. “E la pianta?” chiesi con stupore, spingendo la porta per sbaglio e cadendo quasi sul corpo. “Quale pianta?” dissero. Non c’era la minima traccia di una pianta, morta o viva, in tutto l’appartamento. Non c’era traccia di nasturzi, né di Perfalis Nigrium. Una mosca staccò un pezzo di carne dalla guancia della morta e si posò sulla mia bocca.
Mathis Ferroussier