L'angolo dello scrittore

ROMANESCO E ALTRI DIALETTI.

_ di Roberto Vacca

Avevo 14 anni quando diedi la mia prima consulenza letteraria. Mio padre mi portò a trovare l’Ing. Bo un suo vecchio amico genovese che viveva a Roma da molti anni. Credeva di aver imparato bene il romanesco e aveva scritto alcuni sonetti in dialetto. Desiderava il parere di un indigeno e aveva saputo che mia madre mi aveva tirato su ad apprezzare (e memorizzare) i sonetti di Giuseppe Gioachino Belli. Lo andai a consigliare.

Bo aveva progettato e realizzato con successo parecchi sottovia ferroviari. Invece i sonetti romaneschi erano un disastro. Alcuni dei suoi endecasillabi avevano dodici o tredici sillabe. Sentivo subito che non andavano bene, anche senza contare le sillabe sulle dita. Ne avevo ascoltati tanti nei discorsi che si facevano in famiglia. Ne sapevo molti a memoria. Soprappensiero ne componevo ogni tanto alcuni e mi chiedevo se prima o poi ne avrei potuto prendere uno come primo verso di un grande poema. Non era il caso. Un anno dopo scrissi solo un poema umoristico in ottave sulle storie e gli aneddoti che ci raccontava a lezione Armando Landini, il professore di francese, che oltre a insegnarmi bene il francese, mi acculturò su tante altre cose.

Mi parve inopportuno far notare all’ingegner Bo che i suoi versi non scandivano correttamente. Avrebbe dovuto accorgersene da solo. Invece trovai il verso:

er panzo’ s’arza in piedi e poi je mena

e dissi recisamente:

“Non si può dire così. A Roma se ti rivolgi a un panzone, gli puoi dire: “A panzo’, sta a senti’ quer che te dico”. Poi puoi raccontare quel che successe dicendo: “Er panzone, però, nun m’arispose”.

Bo disse che non c’era differenza. Generalizzai:

“I nomi tronchi, sia comuni che propri, a Roma sono solo vocativi. I nominativi non sono mai tronchi.”

Mio padre, genovese anche lui, confermò che in genovese “o panso’” si usa anche come nominativo. Io che conoscevo già bene il dialetto spezzino (un po’ simile al genovese), avanzai l’ipotesi che i nominativi tronchi si usano nei dialetti nordici e non in quelli centro-meridionali. Dissi;

“A Spezia mi chiamano “Ruberto”: quando torno al paese se lo comunicano: “Rube’ i è vegnu’ da po”. A Roma mi dicono “A Robbe’, senti a me”, ma, fra loro “Robberto è arivato,”

L’ingegnere non si convinse.

Il dialetto spezzino (almeno come lo imparai ottanta anni fa) ha un caso in più nella declinazione dei nomi propri. È il “salutativo”. Lo usi quando incontri una persona che vuoi salutare amichevolmente, ma alla quale vuoi far capire chiaramente che hai poco tempo e non hai intenzione di fermarti, neanche per scambiare due parole. Dunque usi “O” del vocativo, poi tronchi il nome proprio dell’interlocutore e ne pronunci l’ultima sillaba in tono più acuto e intenso. In questo modo implichi che il breve saluto finisce lì. Graficamente si può rendere così:

O Rubè !”

Ho raccontato in vari miei scritti la (fondata) teoria del mio amico glottologo Mario Lucidi, secondo cui nelle lingue europee i toni vengono usati, come in cinese e in coreano, per cambiare il significato delle parole (talora anche in modo inconscio). [In cinese uno stesso monosillabo pronunciato in uno dei quattro diversi toni possibili, ha quattro significati ben diversi. In certi dialetti coreani, i toni sono nove.]

Ho individuato in romanesco variazioni di tono in una coppia di interiezioni. Il fonema “Ahò – eh” se si inverte l’ordine delle due componenti e cambiano i toni, esprime significati ben diversi: si usano in due tipi di situazioni di cui descrivo casi tipici.

Il primo è quello in cui io stia telefonando e parecchia gente nella stanza chiacchiera a voce alta e mi disturba. Allora, dico:

“EH”

[a voce molto alta, fissando gli astanti]

– breve pausa – “Ahò”

[a voce più bassa che si va smorzando e con lo sguardo che va dalle
persone al telefono]

. Lo scoppio di voce iniziale significa “State tutti attenti – sveglia!” La seconda parte vuol dire “Rendetevi conto della noia che mi date con questo comportamento maleducato – burino – e smettete!”

La seconda situazione è tipicamente quella del giovanotto che viene amichevolmente criticato o preso in giro per la sua eccessiva dedizione a piaceri erotici o gastronomici. Reagirà dicendo:

“Ahooò”

[a voce bassa e lenta, tono grave]

– – pausa – “Eh” [breve, in tono più acuto]. La prima espressione significa: “Mi rendo ben conto di essere criticabile per quanto sono micidiale”. La seconda vuol dire:

“Che altro potevo fare? Come potevo resistere a mangiare quel piattone tanto buono – o a non fare l’amore con quelle ragazze splendide?”