Dalla rivoluzione dello “spazio grammaticale” di Péter Esterházy alla rivoluzione immersiva di László Potozky
_di Beatrice Töttössy
Riassumo: un occidentale parla di un oggetto, l’oggetto c’è e lui lo osserva, ogni tanto anche in modo molto personale;
una specie di orientale, centrale, uno che è di mezzo, parla di se stesso, lui c’è e parla di questo attraverso un oggetto.
La domanda: è vero questo, e se è vero, è nel mio interesse scoprirlo (?). La risposta: è vero, ma bisogna negarlo ad oltranza.
Esterházy (1995, 55-56)
Mi sono domandato cosa succederebbe se proponessi a Nikka di ritirarci dalla piazza e finalmente ci occupassimo anche di noi…
ma continuiamo la nostra protesta per riconquistare la vecchia Costituzione e per ottenere le dimissioni del Governo. […]
[…] Si consolano gli universitari vuoti e disperati, riempiono Facebook con le foto di Kagim, Nikka piange: ci hanno rubato
la rivoluzione, siamo invasi da questa gente spazzatura, ecco perché succedono queste cose! come possiamo lottare
per la democrazia quando anche la voce di questa canaglia conta e, vaffanculo!, esattamente quanto la nostra?
Potozky (2017, 96 e 100)
Il racconto dal titolo Mattinata di László Potozky, nella versione italiana di Antonio Sciacovelli, nel 2017 ha vinto il premio Energheia Europa (Matera, 16 settembre). Nello stesso anno a Budapest il testo apparve nell’edizione originale del romanzo Égéstermék (Prodotto di combustione).
Péter Esterházy (1950-2016), riferimento costante per le nuove generazioni di scrittori ungheresi nati alla fine degli anni Ottanta e entrati in scena negli anni Dieci del Duemila1, nel 1986 pubblicò Introduzione alle belle lettere, un romanzo che, a differenza di quanto suggerisce il titolo, è una biografia del homo sovieticus e una satira sui quarant’anni di vita culturale del socialismo reale (1948-1988). Il libro, strutturato in analogia con gli insiemi (quindi dotato di carattere aleatorio) e composto in maniera ‘circolare’ e ‘aperta’ da 21 testi e da circa 800 pagine, è tra le opere maggiormente rappresentative del postmoderno letterario ungherese, la cui caratteristica principale sta in una forte tensione etico-linguistica che viene destinata al recupero della lingua, pesantemente compromessa dagli abusi dell’ideologia sovietica. In Introduzione, plasmata lungo dieci anni, nello “spazio grammaticale” (ovvero nella sfera della langue) l’attenzione viene costantemente portata sugli effetti (corruttivi e logoranti) della sistematica sovrapproduzione di parole e di simboli di origine politica. Dal testo (siamo nel 1986) partono molte sollecitazioni per i lettori a fare i conti con la comunicazione sociale, palesemente impregnata di menzogne, di opacità, di quasi-detto e di semi-taciuto. Allo stesso tempo, l’esperienza di lettura e osservazione del processo di intertestualizzazione e intermedializzazione che Esterházy opera nell’Introduzione (e coscientemente non porta a termine), induce a sperimentare, nello stesso atto della lettura, forme di conversazione (tra l’altro con lo scrittore “anch’egli lettore”) aperte e liberamente interconnesse. L’Introduzione del 1986 offre quindi un tipo di esperienza letteraria ed estetica che facilmente implica l’attitudine a smascherare conversazioni politicamente eterodirette e quindi tali da generare un ascolto snaturato, e inoltre corrotto dalle interferenze delle finalità estranee a quelle di una comprensione culturalmente interessata.
È in questa ottica che il brano di Esterházy citato in epigrafe aiuta ad individuare uno dei momenti essenziali della logica culturale del sistema sovietico-ungherese del 1948-1988, e a intravedere il peso dell’eredità che la generazione di Potozky inevitabilmente deve affrontare. Il brano chiarisce che l’io sovietico, nella sua quotidiana rappresentazione (letteraria) della realtà, non ha potuto (o saputo) rapportarsi all’oggetto osservandolo (“anche in modo molto personale”) ma che ha potuto (o saputo) soltanto mimetizzarsi in quello stesso oggetto, creando un io-mondo indefinito e opaco, con tratti analoghi a quelli prodotti dai mondi e dalle figure della comunicazione politica sovietico-ungherese. L’io della modernità sovietica non si è quindi aperto allo sviluppo di forme dialogiche dell’essere sociale, non lo ha fatto neppure nel suo periodo più maturo o nelle periferie dell’impero meno controllate.
Nel 1991, due anni dopo il crollo del Muro di Berlino e a distanza ravvicinata dalla fine definitiva dell’Unione Sovietica, Esterházy tenne una conferenza in Mexico. Nell’occasione annunciò l’imminente conclusione di Lo sguardo della contessa Hahn-Hahn. Giù per il Danubio (gli mancavano, lo ricorda altrove, le ultime 15 pagine), romanzo che entrerà in stretto dialogo con il Danubio (1986) di Claudio Magris. Esterházy in effetti avrà molte occasioni per discutere anche a distanza con Magris, sia della vitalità culturale e politica, letteraria e scientifica della Monarchia austro-ungarica (su cui Magris lavorò dal 1963, quando pubblicò il saggio Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna), sia della fisionomia dell’Europa centrale e centro-orientale.
Ancora durante la conferenza messicana Esterházy entra nel merito dell’eredità culturale del socialismo:
Parlerei […] brevemente della situazione del romanzo centro-europeo dopo la caduta del socialismo. […] Cosa è successo? Lo possiamo dire con esattezza. È venuto meno il comune nemico sociale, ovvero, per dire, i russi se ne sono andati – ma il Danubio è rimasto, per cui noi ora siamo qui soli, ci guardiamo e non sappiamo chi cosa è. In queste circostanze cambiano anche le parole. Nella letteratura centro-europea, il testo si è sempre mosso verso il senso decisamente a partire dal contesto, anche se alcuni (annotazione autobiografica) abbiano tentato di fare altrimenti, comunque con poco successo. Nel nuovo contesto, ora, le parole sono diventate traditrici. Ci hanno abbandonato. Si comportano diversamente da come c’eravamo abituati. Mentono diversamente, si nascondono diversamente. Oggi lo scrittore centro-europeo è – o dovrebbe essere – come un bambino che si trastulla con dadi giocattolo, che prende in mano ogni singola parola, la guarda, la tocca. Non la può spolverare, può soltanto costatare la presenza o l’assenza della polvere. Delle parole ci si può rendere conto soltanto ordinatamente, una dopo l’altra. Impossessarsi di nuovo del dubbio, con lenta e risoluta caparbietà: è ciò che saranno gli anni Novanta. Almeno nel mio progetto. (Esterházy 1991a, 219)
La citazione – oltre ad esemplificare concretamente la condizione in cui dopo il 1989 lo scrittore ungherese gestisce il proprio lavoro sulle parole, libera il segno linguistico (a cui nel Quarantennio si è unita una sorta di rigida placca lasciata dalla paura e dalla menzogna costanti) e riconquista il senso del dubbio – fa presente il bisogno emergente di creare una nuova ‘coscienza ambientale’, che sia in grado di elaborare il dato storico per cui la funzione politica dell’Europa centrale, a lungo legata alla resistenza contro la sovietizzazione dell’Ungheria e delle regioni di austro-ungarica memoria, tale funzione con il 1989 si è esaurita. L’«Europa centrale», che negli anni della guerra fredda è stata vissuta come allegoria della libertà (alimentata dalla Rivoluzione del 1956 di Varsavia e di Budapest, così come dalla Primavera di Praga), dopo il crollo del Muro di Berlino necessita di essere ripensata e ricostruita (lo suggerisce Esterházy anche con un altro romanzo, Il libro di Hrabal, pubblicato nel 1990 e da subito tradotto in italiano).
Con ricostruzione Esterházy intende ‘occasione’, ‘opportunità’ e ‘situazione’ per la scrittura di romanzo/i:
Il romanzo [qui il riferimento è a Lo sguardo della contessa Hahn-Hahn] propriamente è un libro sul Danubio, parla del Danubio. Evidentemente la frase ‘è un libro che parla del Danubio’ non è vera, né falsa ma è vuota. È priva di senso. Perciò si capisce perché di essa si occupi l’intero libro. Nella nostra ambizione il romanzo è un libro di storia, un libro d’amore, un libro satira sull’Europa centrale, un libro anti-Magris, un libro di viaggio, un libro-guida ai ristoranti, un libro-caos, un libro-libro. Il protagonista del romanzo è il Viaggiatore che, quindi, deve essere rigorosamente distinto dal turista (viaggiatore è colui che ha tempo). Il nostro è un Viaggiatore professionale, […] con esclusiva sul Danubio, benché ciò in nessun modo implicava limitazioni tant’è che nei contratti di viaggio egli ha sempre precisato: Cos’è il Danubio lo stabilisco io! (Ivi, 218)
È quindi notevole che nella conferenza Esterházy abbia voluto precisare:
Il Danubio non esiste da solo ma soltanto insieme a colui che lo contempla (cfr. Heisenberg). D’ora in poi sarò costretto a considerare il Messico un paese danubiano. (Ivi, 219)
È chiaro lo spirito con cui lo scrittore insiste sulla necessità di tentare un nuovo equilibrio nella rappresentazione (letteraria) della realtà (centro-europea). I due poli dell’equilibrio si estendono tra l’io (individuale o collettivo) teso ad espandersi costantemente verso nuovi spazi in cui riconoscersi (“giù per il Danubio”) e l’io produttore di senso oggettivo (“libro-libro”). Quest’ultimo, benché il suo lavoro sia strutturalmente connesso con quello dell’auto-riconoscimento dell’io (in realtà qui non importa se di tipo ‘occidentale’ oppure ‘orientale’, ‘centrale’ o ‘di mezzo’), necessita di autonomia, di distacco o ‘spostamento’ (nello spazio in cui lo scrittore è “anch’egli lettore”). In sostanza si tratta di un progetto (“per gli anni Novanta”) di nuovo equilibrio tra parola, segno, senso e mito i quali, impegnati nella rappresentazione della realtà (letteraria) dallo scrittore (“anch’egli lettore”) e dal lettore (sempre più aperto alla scrittura collaborativa), vengono corroborati dalla tensione, che opera in entrambi, a non rinunciare agli aspetti qualitativi dell’esperienze artistico-letteraria (Casadei 2018, §8).
In questa prospettiva, un interessante punto d’incontro sembra collegare Magris e Esterházy nella figura che chiamo ‘vuoto dinamico’ (e che per l’appunto si presenta come un nuovo equilibrio), in cui due perdite, la Finis Austriae nel 1918 e l’esaurimento del senso politico dell’Europa centrale nel 1989, si riconnettono sollecitando la frequentazione di itinerari (intertestuali, intermediali, di pensiero dialogico) disponibili negli spazi e nelle forme della memoria culturale e letteraria.
Ma il punto d’incontro che qui privilegiamo è quello tra Esterházy e László Potozky, tra le loro scritture letterarie e le loro prospettive poetiche e culturali. Potozky, nato nel 1988 in Romania, in una delle città principali della Székelyföld (Terra dei Székely, di lingua ungherese), dal 2015 a Budapest dove giunge in tempo per assistere all’ultimo Festival del Libro della capitale ungherese a cui Esterházy ha potuto prendere parte prima della sua prematura scomparsa nel 2016. Le linee dell’invenzione dei due scrittori si toccano. Ne vediamo i termini.
Nel caso di Esterházy, si ha uno specifico apporto centro-europeo al “granaio” (M. Yourcenar) dei “qualia, che la letteratura ha individuato nel suo insieme fin dalle origini” (ibidem). La specificità dell’apporto sta nel fatto che in Esterházy il dispiegarsi delle energie creative postmoderne non ha ridimensionato il potenziale descrittivo e interpretativo tradizionalmente realizzato con il nesso pensiero-linguaggio-scrittura. Lo scrittore, pur sperimentando le vie dell’intermedialità, ha ritenuto non (ancora?) di suo interesse un eventuale passaggio al nesso immagini-emblemi-icone. L’interesse resta attivo nella capacità di far transitare l’io dell’autore sia all’interno dell’architettura dello “spazio grammaticale” (Esterházy 1979, 167), sia sopra il risultato, sulla sua superficie, di modo che il contenuto, che è l’io stesso dell’autore, non si presenti come oggetto (come oggetto di osservazione borghese, magari condotta “in modo molto personale”, e tantomeno come oggetto di culto e di cultica confezione di una esteuropea ideologia), ma come un processo non terminato. Ad esempio, nella figura di un giardino costantemente coltivato:
Penso (vorrei?) che la forma esterna, la forma d’esistenza ideale dei miei libri sia: il giardino. Da intendere, però, in modo del tutto semplice: il lettore passeggia nel giardino e, ‘al punto giusto’, si mette a leggere. Magari un foglio di pagina attaccato su un cespuglio. O, più poeticamente: legge il cespuglio […] non vorrei stabilire i sentieri da percorrere […] (Esterházy 1988, 11-12)
In questa prospettiva la dichiarazione per cui “capire l’Europa centrale è possibile soltanto a partire da essa. Essere dell’Europa centrale significa, principalmente, non capire se stessi”. Questa dichiarazione che Esterházy rilascia nel 1994 (come egli stesso annota con lo spirito di un bon-mot), è evidentemente da cogliere nel suo senso esplicito, forte e auto-ironico.
László Potozky, trent’anni dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine del blocco sovietico e della guerra fredda, anche solo per puri motivi anagrafici, potrebbe essere interessato (o forse è già da tempo impegnato?) a dirigersi verso il modello descrittivo-interpretativo del mondo che si fonda sul nesso immagini-emblemi-icone. Verifichiamo.
Notiamo anzitutto che Potozky osserva e accoglie con “spettrale familiarità” le vicende del mondo est-europeo (che per lui, nativo di una piccola città della Transilvania ungherese, si va allargando all’intera Romania, all’Ucraina e alla Slovacchia, all’Ungheria e oltre). Vede in tali vicende il dilagare della paura e della menzogna, della violenza e dell’incapacità di comprendere l’altrui parola (segno linguistico, senso proposto, mito trasmesso). Scrive il romanzo Égéstermék (Prodotto di combustione), storia fittizia di una rivoluzione est-europea che, nel suo dispiegarsi (“con ritmo sostenuto e idioma parlato, senza inutili o dannose frammentazioni del testo e senza fini didattici o informativi”, Potozky in Fehér), andrà a prendere, invece che la forma giardino, la forma collage, quella che potrà essere l’esito di un riordino, preminentemente (ma non senza dubbi) visuale, dei momenti di vita di una folla rivoltosa:
Non ha importanza il fatto che, in mancanza di sottotitoli, non sia riuscito a capire cosa diceva la gente in ucraino; osservavo i volti, le luci, lo sporco per terra, i gesti, ogni minimo movimento che andava a comporre gli eventi rivoluzionari. Poiché la gente partecipava agli scontri avendo con sé il proprio smartphone, ho visto dall’interno la morte di alcune persone, il ferimento di altre sentendo persino le voci, gli spari, le urla e l’affanno. Ho vissuto la rivoluzione ucraina come concreta esperienza immersiva. A partire dalle trasmissioni di Youtube viste in diretta ho poi tentato di simulare il vissuto di un tipo come Minibuller, coinvolto in una rivolta popolare, all’inizio del 21 secolo. (Potozky in Fehér)
La rivoluzione fittizia dell’Oriente europeo si svolge in un luogo in cui le vie non hanno un nome, le persone vengono chiamate con soli nomignoli, il protagonista riceve un soprannome (Minibuller, il dominutivo del nomignolo del fratello minore che tuttavia l’ambiente sente come il più grande) e dove questo stesso protagonista ci narra gli eventi con il tono obiettivo di un povero stolto, quasi del tutto privo di affettività e di intimità anche quando si ritaglia un minimo di tempo, giusto sufficiente per cinque episodi autobiografici (10 delle 168 pagine del romanzo) dedicati alla propria infanzia e adolescenza. È un ragazzo che ha gli anni esatti dello scrittore (28 nel 2016, anno della conclusione della stesura), ha abbandonato gli studi di Scienze della Comunicazione, vive come guardiano notturno e aiuto operaio prima e rider al servizio della clientela di una palestra poi. Vende integratori ma perde il lavoro quindi ritorna con la madre e il fratello minore (Buller). Conosce Nikka, studentessa di Lettere e da lei si lascia coinvolgere nella rivolta. Ma né lui, né gli altri personaggi (tutti tipi, mai individui) andranno oltre il violento desiderio di evitare la solitudine e di conquistare l’appartenenza. Appartengono quindi alla rivoluzione, che vince ma non produce né illusione, né euforia, né comprensione di sorta. Solo noia (“Il guaio della rivoluzione è che è noiosa.”, Potozky 2017, 71) e voragine di un’inerzia scettica.
Totalitarismo come eredità ma anche come rischio del presente. La costatazione di Francesco Muzzioli può valere quindi con una precisazione: “La distopia in questo caso non consiste nella fine del mondo, bensì nella fine della ‘coscienza’ del mondo” (2007, 66). La fine della coscienza del mondo non è un fatto ma un processo (non terminato). Che si può ritenere un punto di partenza.
Opere citate
Casadei Alberto (2018), Biologia della letteratura: corpo, stile, storia, Milano, Il saggiatore.
Esterházy Péter (1979), Termelési-regény (kisssregény), -regény- (Romanzo della produzione (romanzo brrreve), -romanzo-). Budapest, Magvető.
–– (1986), Bevezetés a szépirodalomba, – bevezetés a szépirodalomba – (Introduzione alle belle lettere, – introduzione alle belle lettere -), Budapest, Magvető.
–– (1988), A kitömött hattyú. – írások – (Il cigno impagliato. – scritti -), Budapest, Magvető.
–– (1991), “Hahn-Hahn grófnő pillantása – mexikói házi feladat” (Lo sguardo della contessa Hahn-Hahn – compito a casa a Mexico), in Id., A halacska csodálatos élete (La vita meravigliosa del pesciolino), Budapest, Pannon, 214-220.
–– (1994), Egy kékharisnya följegyzéseiből (Dagli appunti di una calza blu), Budapest, Magvető.
–– (1995), Lo sguardo della contessa Hahn-Hahn: giù per il Danubio (Hahn-Hahn grófnő pillantása. Lefelé a Dunán, 1991), trad. di Mariarosaria Sciglitano, Milano, Garzanti.
Fehér Renátó (2017), “Potozky László: Forradalmi kollázs Kelet-Európából. Interjú”, Litera. Portale letterario, 19 ottobre, <https://litera.hu/magazin/interju/forradalmi-kollazs-kelet-europabol.html> (05/2019).
Magris Claudio (1963), Il mito asburgico nella letteratura austriaca moderna, Torino, Einaudi.
–– (1986), Danubio, Milano, Garzanti.
Muzzioli Francesco (2007), Scritture della catastrofe, Roma, Meltemi.
Pianzola Federico (2018), “La complessità della narrazione e della narratologia”, Enthymema, XXII, 221-233,
Potozky László (2015), Éles (Affilato), Budapest, Magvető.
–– (2017), égéstermék (Prodotto di combustione), Budapest, Magvető.
Töttössy Beatrice (1995), Scrivere postmoderno in Ungheria. Cultura letteraria 1979-1995, Roma, Lucarini,
<http://hdl.handle.net/2158/235580> (07/2019).
–– (2012), Ungheria 1945-2002. La dimensione letteraria, Firenze, FUP, 2012,
<https://www.fupress.com/catalogo/ungheria-1945-2002–la-dimensione-letteraria/1961> (07/2019).
–– (2012), a cura di, Fonti di Weltliteratur: Ungheria, Firenze, FUP,
<https://www.fupress.com/catalogo/fonti-di-weltliteratur/1873> (07/2019).
1 Alla generale e diffusa conversazione dei letterati ungheresi l’accesso dei giovani scrittori è molto più facile che in Italia. Nonostante le difficoltà economiche e, negli ultimi dieci anni anche politico-governative e quindi politico-culturali, la capacità di autogestione della comunità letteraria è alta. A titolo d’esempio alcuni nomi di scrittori attivi nel secondo dopoguerra e le cui opere sono reperibili nelle biblioteche e nel mercato librario italiano con relativa facilità: Tibor Déry (1894-1977), Sándor Márai 1900-1989), Magda Szabó (1917-2007), Imre Kertész (1929-2016, nel 2002 Premio Nobel per la Letteratura), Ádám Bodor (1936), Péter Nádas (1942), László Krasznahorkai (1954), Szilárd Borbély (1963-2014), Krisztina Tóth (1967), Edina Szvoren (1974), Noémi Szécsi (1976). Tra i traduttori attivi: Marinella D’Alessandro, Alexandra Foresto, Vera Gheno, Andrea Rényi, Roberto Ruspanti, Antonio Sciacovelli, Maria Rosaria Sciglitano, Laura Sgarioto, Claudia Tatasciore. Nella bibliografia di questo intervento mi permetto di segnalare una mia sintesi della letteratura ungherese contemporanea e una antologia di testi brevi, scritti ‘a tema’ da 53 scrittori e poeti (entrambi i testi sono gratuitamente scaricabili dal catalogo della Firenze University Press, ai link indicati). Chi eventualmente s’interessi di teoria letteraria, rinvio sempre al mio Scrivere postmoderno in Ungheria. Cultura letteraria 1979-1995, anche questo di libero accesso.