Memorie di te, Viola Bonfanti_Cesano Maderno(MB)
Racconto finalista venticinquesima edizione Premio Energheia 2019
Il paese in cui sono nato siede proprio sulla cima di una verde collina, le case sono tutte della stessa bianca pietra e se ne stanno pallidamente sdraiate al sole come bambini che si reggono appena alla roccia su cui si sono arrampicati. Le famiglie che ci abitavano non erano molte e noi ragazzi avevamo frequentato tutti lo stesso istituto nel paese vicino, così che era impossibile non conoscerci a vicenda; in estate noi bambini riempivamo di schiamazzi le strade ciottolose del contado ed il sagrato davanti alla chiesa diventava il nostro campo per le partite improvvisate di calcio, a cui talvolta si univa anche il parroco don Michele ghiotto dell’occasione di insegnarci qualcosa di catechismo che noi non ascoltavamo mai. Fino ai quattordici anni non avevo mai passato davvero del tempo con una ragazza, erano altri tempi, altre tradizioni, né mai mi ero davvero chiesto che cosa facessero nei pomeriggi dopo la scuola, ma quel giorno di metà luglio faceva troppo caldo per giocare nella vuota piazza dove il sole ci scottava la pelle a tutte le ore, quasi fossimo pirati a bordo di un leggendario vascello. Così il bambino che abitava nella casa di fianco alla mia propose di andare all’ombra del grande ulivo che si vedeva sulla strada per raggiungere la città, di fianco alla vecchia cascina in cui nessuno viveva più da tanto tempo. Ci dirigemmo tutti attraverso i sentieri nei campi, in un procedere chiassoso e disorganizzato; “A chi arriva primo all’albero!” urlò qualcuno all’improvviso e iniziammo tutti a correre. Io ero il più veloce, arrivai per primo e avevo già iniziato la scalata quando gli altri mi raggiunsero, ma, mentre stavo afferrando uno dei rami più grossi, tra il fogliame spuntò all’improvviso il viso di una ragazzina e io fui tanto sorpreso da mancare la presa e cadere a terra, con grande fastidio e dolore di natiche. Ci fissammo a vicenda un istante, un guazzabuglio di bambini di tutte le età sparpagliati sul prato verde, io davanti a tutti, ancora a terra con le braccia dietro alla schiena per sorreggermi, tutti con i visi rivolti all’insù a quell’apparizione che ora se ne stava lì, senza dare spiegazioni di chi fosse, con la testa un po’ piegata di lato ed i capelli, intrecciati con spighe di grano e fiori, scompigliati dal vento. Si mosse d’improvviso e velocemente scese giù dal vecchio tronco, con quell’eleganza e abilità che avrei potuto solo ammirare, ma mai avere. Una volta arrivata a terra tese la mano, aspettando che la prendessi per rialzarmi, e disse: “Mi dispiace averti spaventato, non volevo proprio. Io sono Flora, ho tredici anni e mezzo, sto nella casa qui accanto e voi, chi siete?”. Io non riuscivo ad aprire la bocca e, mentre le sue gote si tingevano di un tenue rossore, guardavo i suoi occhi. Nn ne vidi mai più in vita mia di così speciali: il sinistro era scuro come la terra appena arata ancora bagnata dalla pioggia, il destro era verde come il germoglio di un fiore appena nato.
Dicono che gli occhi sono lo specchio dell’anima, ma io provai qualcosa che non saprei descrivervi, la sensazione davanti ad una scelta importante che può cambiarvi la vita, quella consapevolezza disarmante e inaspettata che da allora in poi non sarai più lo stesso. Qualcuno fece un passo avanti e urlò: “Non provare a sembrare simpatica: sei una femmina e un mostro della natura” calcò le ultime parole come se fossero una colpa. Subito dopo esplose un vociare incontrollato e risa canzonatorie: “Guardate, una strega” “Vai via mostro!” “Guardate quanto è brutta la strega!”e ridevano, ridevano come se fosse normale insultare una bambina, come se fosse giusto. Eravamo bambini ed eravamo stupidi, cresciuti nella chiusa convinzione che ciò che è diverso è male, abituati alle solite quattro case abitate dalle stesse famiglie da generazioni, avevamo paura di un tale prodigio del creato, ma non eravamo per questo meno colpevoli. Mentre i bambini la deridevano e le si avvicinavano sempre di più, nascondendosi dietro alla falsa potenza delle dita puntate, lei era lì, ancora con la mano debolmente tesa, con gli occhi spalancati per la sorpresa, come se non si aspettasse tale reazione, mentre quegli occhi si riempivano di lacrime. Sapevo che non era giusto quello che le stavano facendo i miei compagni, sapevo che dovevo fare qualcosa. Le afferrai il polso tremante, con un salto mi rialzai e corsi via, portandola con me lungo i sentieri, fino al limitare dei campi, oltre il boschetto, nella radura dove le fate la notte saltavano fuori dal ruscello per tenere i loro comizi segreti. Quando ci fermammo avevamo già corso per parecchio tempo ed il respiro pesante e scoordinato ci impediva di parlare, ma lei mi si mise di fronte, si alzò sulle punte, stringendomi la mano, dopo aver preso tutto il coraggio di cui aveva bisogno, e mi sussurrò all’orecchio, tanto vicino che potevo sentire il suo cuore battere: “Mi hai salvata”. Si girò su se stessa con la grazia di una ballerina e andò a sedersi su una grossa pietra, si tolse i sandali impolverati per la lunga fuga e gettò i piedi in acqua, muovendoli creando grandi schizzi. Io la seguii a ruota. Non so quanto tempo passammo lì senza dir niente, le parole parevano non contare o non essere abbastanza. Fin da quel primo incontro mi stava insegnando ad apprezzare le parole taciute, a me, che avevo sempre detto qualsiasi cosa mi passasse per la mente, che non avevo mai compreso che, per capirsi, certe volte basta uno sguardo. Sì, mi faceva apprezzare i silenzi, lei. Mentre la osservavo di sottecchi, lei alzò il viso verso il cielo, rovesciando la testa all’indietro “Guarda è arrivata la luna!” “Dove? Non riesco a vederla” “E’ propri lì, dietro al faggio, si vede appena: non è ancora pronta a brillare” “Oh, ora la vedo. E’ bellissima” “Lo è sempre, ma oggi di più – poi aggiunse – Mi piace, la luna, porta pace agli angosciati e compagnia agli incompresi. A te piace la notte?”. Non mi guardava ancora negli occhi e io non capivo perché mi facesse quella strana domanda, prima ancora di chiedermi chi fossi; solo ora, mentre lo racconto, mi accorgo che forse quella era una specie di prova per comprendere la mia indole senza domandare esplicitamente: lei vedeva sempre oltre le parole, sapeva proprio vivisezionarle talvolta. Non pensai al significato nascosto che la risposta avrebbe potuto avere per lei e le risposi senza pensare: “No, è noiosa, serve solo per dormire. Preferisco il giorno: è luminoso e se c’è bel tempo mamma mi lascia andare a giocare fuori con il pallone o a correre fin giù in città” “Sarà” rispose girando il viso per sorridermi, ma lo diceva per rispettare la mia opinione, non perché ci credesse. Come se si fosse resa conto solo in quel momento che stava parlando con un ragazzino incontrato per caso senza volto né storia, finalmente mi chiese chi fossi. Le dissi il mio nome, che avevo compiuto quattordici anni a gennaio e che vivevo proprio sopra la drogheria del paese, i cui proprietari erano i miei genitori; lei mi ridisse il suo nome, disse che i quattordici anni li avrebbe compiuti solo in autunno, mi spiegò che la vecchia cascina era la casa del nonno, mancato da poco, e che il padre voleva vendere.
Fui stupito quando mi raccontò di essere figlia unica, ma forse lo fu più lei quando scoprì che ero il più grande di cinque fratelli, con un sesto in arrivo. Mi piaceva lasciarla parlare della grande città dove viveva, delle meraviglie che non avevo mai visto, e a lei piaceva sentirmi parlare del paesino e di tutte le cose noiose di cui io avrei fatto a meno: ci stavamo raccontando a vicenda storie incantate di mondi mai visti. L’imbrunire si avvicinò troppo velocemente, prima che ce ne accorgessimo e finissimo i nostri discorsi, così la invitai a vederci il giorno successivo dopo pranzo in quella stessa radura, eletta a nostro luogo segreto. Ricordo che quella sera tornai a casa felice come non ero da tempo, ma nessuno notò il mio umore, abituati com’erano al mio carattere esuberante; quella notte, per la prima volta, stetti sveglio a guardare il cielo, aveva ragione: la luna era piena e insolitamente grande, le stelle parevano poco più che lucciole sparse davanti alla sua maestosità. Mi addormentai sognando di ulivi e ragazze con gli occhi di colore diverso. Quando arrivavo alla radura di solito lei era già lì, seduta sotto un albero con un blocco da disegno in mano, per ritrarre l’incanti di quel posto: mi ci voleva molto per liberarmi degli altri ragazzi, che riuscivo a depistare accampando scuse un po’ a casaccio. Nei giorni a seguire parlammo molto, di tutto e di niente, ma aggirando argomenti troppo seri, mi raccontò di come volesse diventare insegnante di letteratura, amando l’idea di far comprendere ai ragazzi la magia delle piccole cose (sono sicuro le si addicesse molto come lavoro). Mi parlava osannando la musica, l’arte, la poesia; mentre descriveva creava, senza accorgersene, nuove sinfonie, ma io proprio non capivo che cosa ci trovasse di tanto interessante. Raccontava di storie, mondi fantastici e leggende mai sentite, mentre stesa sul prato appoggiava la testa sul mio petto e guardava il cielo. Ogni tanto una nuvola dalla forma particolare o il canto di un uccello catturava la sua attenzione, allora si bloccava improvvisamente, stava un attimo in ascolto e sospirava: “Ah, questo posto, ci lascerò il cuore”. Un giorno, stanca forse che io non potessi assecondare degnamente i sui discorsi, mi portò un libro. Io, sperduto tra i boschi e il grano, gli unici libri che avevo letto erano stati i testi di scuola e nemmeno con troppa attenzione, ma questo me lo stava offrendo lei, era diverso. O lei mi rendeva diverso, non ne sono sicuro. Lessi il libro in una notte e il giorno dopo già lo riportavo indietro; lo adorai. Lei diceva che ti faceva sentire: “A metà tra la terra ed il cielo”. Mi regalò il libro: “L’ho letto molte volte e ne ho una’altra copia a casa. Quella è la mia preferita, ci sono le mie sottolineature e note a margine. Voglio che l’abbia tu, ne hai più bisogno”. Bisogno, usò proprio questa parola, per lei era questo leggere, penso lo mettesse proprio sotto a “respirare” nella lista delle priorità. Conservo quel libro con cura spasmodica, ancora con le sue lettere in corsivo a margine; è il pezzo più bello della mia collezione, che negli anni ha raggiunto discrete dimensioni. Un giorno, mentre stavamo avendo una stretta discussione, un tuono squarciò prepotentemente la pace e iniziò a piovere. Era uno di quei temporali estivi, veloci quanto carichi d’acqua. Corremmo più veloce che potemmo per cercare di tornare a casa asciutti, ma ci ritrovammo fradici dalla testa ai piedi a saltare nelle pozzanghere sulla via del ritorno e a ridere come non avevamo mai fatto. Se mi concentro un attimo riesco ancora a sentire il suo riso cristallino e la pioggia cadere in sottofondo, mentre mi diceva: “Dai, vieni a ballare con me! È divertente!” danzando nel vento con una giravolta, facendo una ruota con la sua bella gonna e ritrovandosi i capelli sul viso. Lei era uno spirito libero, una ninfa che camminava nei boschi a piedi nudi con le braccia alzate a sfiorare il cielo, lei era il bosco durante una tempesta e, al contempo, una radura pallidamente illuminata dalla luna. Solo più tardi, negli anni, l’avrei accostata all’immagine di quella dea della natura antica e dimenticata di cui portava il nome senza saperlo. Durante quelle settimane abbandonai completamente i miei vecchi compagni di giochi, li trovavo ormai insopportabilmente infantili e sapevo che tutte le volte che avrebbero incontrato Flora l’avrebbero trattata peggio del vecchio cane randagio che viveva dietro alla chiesa, così senza troppo dispiacere evitavo la loro compagnia fuggendo da casa sempre prima che venissero a cercarmi. Insomma i rapporti non erano dei più felici; con loro non avemmo problemi particolari, dato che non li incontravamo mai, fino ad una sera. Era agosto orami inoltrato, quando li incrociammo sul sentiero vicino alla cascina dell’ulivo, mentre, come al solito, la riaccompagnavo a casa. Erano sempre una banda chiassosa e per questo non si accorsero subito di noi. “Guardate là, la strega e lo scemo!” urlò qualcuno, erano sempre volti indistinti, forti della potenza del branco ma che da soli non riuscivano nemmeno a guardarti negli occhi. Ipocriti. Uno si fece avanti, ricordo vagamente che fosse il figlio del calzolaio: “Dovresti uscire di nuovo con noi, stai cambiando. Non vedi che questa fattucchiera ti sta incantando? Quando sarai solo e triste non venire da noi!” “Lei mi fa vedere tutto in maniera diversa, voi non potreste capire” Non so esattamente come giungemmo alle mani: un attimo prima ero calmo e stavo discutendo in modo più o meno civile, l’attimo dopo gli tiravo un pugno in faccia. Lo so, lo so, ripensandoci ora fu un’azione stupida e avventata, che avrebbe potuto portare a ferire anche lei, ma io mi ero trasformato in un leone rabbioso e loro in tante insulse iene maligne. Ovviamente vinsero loro, ma solo perché erano i più numerosi. Mi battei come se ne andasse della mia vita e qualcuno lo conciai anche male, ma non tanto come ne uscii io però. Mi salvò Flora, che, vedendo passare un contadino sul suo trattore, iniziò a urlare cercando di richiamare la sua attenzione. Non ci riuscì ma i bambini scapparono tutti terrorizzati all’idea, lasciandomi però ancora in piedi. Mi aspettavo, a quel punto, che mi ringraziasse per averla difesa, invece più tardi mi fece una bella lavata di capo: fu l’unica volta in cui la vidi perdere la calma: “Cosa ti è saltato in testa? Sei forse diventato matto? Non ho bisogno di un ragazzo che faccia a botte per me con un branco di omuncoli ignoranti, ho bisogno di una persona di cui fidarmi! Avresti potuto davvero farti male, lo sai? Ringrazia il cielo che non ti abbiano rotto qualche osso” Mentre lo diceva mi medicava seduti sugli scalini della veranda, premendo con forza i batuffoli di cotone impregnati di alcool con tanta forza da farmi lacrimare gli occhi. Avevo gli occhi bassi guardando il pavimento e ammisi dispiaciuto: “Lo so, mi dispiace, non lo farò più”. Notai l’esitazione quando si fermò un attimo con la mano tremante a mezz’aria; incatenai il suo sguardo: “Cos’hai?” “Niente, non è niente,è solo che … ho avuto paura. Io ho imparato fin da piccola che non valeva la pena rispondere a tali provocazioni, ma a te nessuno lo ha mai insegnato. Non farmi più preoccupare …” “Non lo farò, lo prometto” Mantenni la promessa fatta in quella sera di agosto per tutti gli anni a venire, non picchiai più nessuno, non risposi alle provocazioni; vederla così vulnerabile mi fece capire per la prima volta che non dovevo, non potevo, far preoccupare le persone che tenevano a me: così imparai a essere mite.
Non incrociammo più le strade degli altri ragazzi e seguitammo con i nostri incontri nella radura segreta, che ormai sentivamo come casa nostra. Con la fine di agosto arrivò anche la conclusione della nostra amicizia: ormai la vecchia cascina aveva trovato un nuovo proprietario e l’inizio dalla scuola minacciava tutti con la sua incombenza. Ricordo che non parlammo molto quel giorno, nessuno aveva voglia di riempire il silenzio, sentivamo già la nostalgia dei nostri giochi e la malinconia della lontananza, guardammo per molto tempo il cielo ed il bosco, ascoltando i nostri sguardi. Quando la riaccompagnai a casa la sera mi aspettavo fiumi di lacrime da parte sua e frasi da fermare il battito del cuore, come succedeva nei film, invece prima di entrare in casa si girò semplicemente verso di me e disse: “Non mi piacciono i saluti … sono stata bene con te quest’estate, non pensavo di trovare in questo angolo sperduto di mondo un amico così sincero. Grazie” Rientrò in casa senza lasciarmi il tempo di dire niente. Non disse “addio” o “arrivederci”, nemmeno accennò un “ritornerò e ci rivedremo ancora”, sapeva di non dire la verità e non amava fare promesse che non era sicura di poter mantenere. Lo apprezzai molto, ma avrei voluto dirle qualcosa, qualsiasi cosa, non so davvero cosa volessi risponderle. Come molte altre storie di un’estate questa non proseguì la stagione successiva, ma d’altronde a quindici anni ancora da compiere non puoi imporre il desiderio di tornare in un paesello sperduto tra la campagna e la collina, e nemmeno a sedici. I primi giorni ricordo che il senso di mancanza era persistente e martellante, non sapevo più dove e con chi passare le mie giornate, ovviamente non pensavo nemmeno di voler tornare con quei ragazzi così ottusi; quando iniziò la scuola le cose iniziarono ad andare meglio: le lezioni mi occupavano la mattina ed il primo pomeriggio e, sebbene i primi giorni non avessi da studiare, successivamente seguì il consiglio di Flora ed iniziai ad impegnarmi per ottenere buoni risultati. Così smisi di pensare a lei appena sveglio la mattina o nei momenti di noia, finché un giorno, addormentandomi nel mio letto la sera, mi resi conto di non averla pensata affatto. La mancanza si trasformò presto in nostalgia, e la nostalgia in ricordo. L’estate successiva non potei fare a meno di sperare che tornasse, invano. La delusione fu lancinante e a lungo negai di averla conosciuta: mi sentivo tradito, sebbene non mi avesse mai promesso nulla. Da quell’estate lessi molti libri dei generi più disparati, mi impegnai in ciò che facevo e cercai sempre di essere il più gentile e obbiettivo possibile senza dare giudizi inutili. Fui il primo della mia famiglia ad andare all’università e l’unico tra i miei fratelli, ma non frequentai una facoltà qualunque: mi laureai con successo in medicina e presi il dottorato in chirurgia, diventando, se non il più bravo, quanto meno uno dei più rinomati chirurghi del luogo. Lo feci soprattutto per seguire quel suo consiglio “Aiuta gli altri e ti sentirai meglio”. Ogni tanto spero ancora arrivi a sorprendermi con una delle sue idee geniali, spalancando la porta del mio ufficio dopo aver letto un qualche articolo su di me … So di essere infantile, perfino ingenuo a volte, ma non posso farne a meno. In una sola estate mi insegnò così tanto: apprezzare i silenzi, amare la lettura, liberare la fantasia, non perdere la pazienza, non sprecare il mio tempo a combattere guerre inutili, essere me stesso. Non fu poco, no, decisamente non fu poco. Non so se realizzò il suo sogno di diventare insegnante per veder crescere i ragazzi; me la immagino a spiegare davanti ad una classe di alunni più interessati all’ eterocromia dei suoi occhi che alla sua spiegazione. Non la rividi mai più, ma so che ora sono ciò che sono solo grazie a lei. Sembrerà strano alla vostra nuova generazione, così concentrata sul presente e sugli attimi da dimenticare il passato, così improntata verso il futuro, ma dovete capirmi: fu la prima ragazza di cui fui veramente amico e per cui, l’avrete capito, provavo qualcosa di più, anche se non ho mai avuto né il coraggio né il tempo per confessarglielo. È una bella storia che mi piace ricordare ancora, qualche volta, nelle sere d’estate, raccontandola ai miei figli e ai miei nipoti, raccolti intorno a me sulla veranda della vecchia cascina dell’ulivo, che comprai molti anni dopo il nostro incontro. Si dice che i piccoli paesi siano fatti per sognare: per chi resta, di andarsene, per chi va, di tornare; io prima andai a studiare e lavorare lontano da quella terra natia che tanto odiavo durante la mia gioventù, poi mi sono ritirato qui in pensione. Chissà se anche lei pensa di tornare. La luna nelle sere d’estate splende ancora magnificamente dietro agli alberi della radura e le stelle sono meravigliose; ho imparato ad apprezzare con gli anni quella calma e quella pace che solo il buio sa portare. Forse con quella sua domanda cercava di capire se fossi una persona riflessiva o meno, ma non lo saprò mai. In questo piccolo angolo di mondo nulla è cambiato, le stesse case di pietra bianca con le stesse famiglie, gli stessi alberi, le stesse abitudini, gli stessi sogni dei bambini che furono anche i miei. Noi siamo cambiati però, siamo cresciuti, nel bene e nel male. Ma nonostante un matrimonio felice, sei figli amatissimi e tredici nipoti che sono la luce dei miei occhi, nonostante la vita che mi sono costruito e di cui non rimpiango nemmeno una scelta, io ancora oggi, nella folla, non posso far a meno di cercare il suo sguardo tra la gente