I brevissimi 2019 – Le colline dei castelli, Flavio Bidolli_Frascati(RM)
Anno 2019 (I colori dell’iride – Verde)
Roma, il cielo azzurro sbiadisce toccando la linea dell’orizzonte e a volte, quando in Estate le nuvole abbandonano la terra, si macchia visibilmente di grigio.
Dalla soffitta potevo salire sul tetto della mia casa da dove seduto sulle tegole assaporavo un vento lieve, pensando a quanto perfetto fosse l’azzurro come colore del cielo. Pensavo che i Castelli avessero il cielo più azzurro del mondo, bastava la sua vista a rendermi felice. Godevo d’una buona veduta sull’Urbe, il panorama era gradevole, gran parte della sua vista però, era esclusa da una collina.
Un “ermo colle” leopardiano, un piccolo, isolato promontorio, verde di prato e vergine d’uomo.
Non un albero, non una casa deturpavano le sue curve e così rimaneva lì, ridente, a togliermi Roma e le sue opere urbane, offrendomi solo un grande bernoccolo verde sul terreno.
Gli anni passavano ed io continuavo a salire sul tetto, a volte il mio gattino mi seguiva, e rimanevo a coccolarlo, vento fra i capelli, pelo sulle maniche, sguardo sulla collina. All’inizio la detestavo, sembrava una bambina innocente, ignara di privarmi della vista della capitale. La immaginavo sorridere ai vigneti e alle villette vicine, la immaginavo deliziarsi a mie spese della vista che mi nascondeva. Ma dovetti ricredermi, fu solo grazie a lei che mi accorsi di quanto tutto intorno a me stesse cambiando: da quando erano spariti gli ulivi e le vigne nella zona, da quando polverosi cantieri infrangevano la quiete idilliaca dei castelli, da quando il cemento, lo stesso che mi crucciavo di non riuscire a vedere, strappava il verde alla mia zona, alla mia terra, alle mie colline. Una conquista talmente rumorosa e stravolgente stava avvenendo in silenzio e segreto sotto i miei occhi ed io, cieco, non me ne ero ancora accorto. Un giorno, particolarmente coinvolto dalla canzone che stavo ascoltando, decisi di salire, ispirato, sul tetto. Non lo facevo da un po’ e l’orrore fu grande quanto la sorpresa: sulla collina innocente, delle volgari gru avevano fatto la loro comparsa. Come erbacce in un’aiuola, macchie di petrolio nel mare, grattacieli in montagna, i nostri paesaggi venivano deturpati da nuove case vuote, erette vicino ad altre abbandonate ma intatte, il pianto inudibile di vittime ignorate squarciava i miei occhi, neanche lei si stava salvando, avrebbero costruito anche lì. Cemento, cemento, come poteva la natura implorare pietà, non le restava che soccombere.
E invece io capii: la ridente collina che prima quasi detestavo ora era triste e ferita, l’azzurro del cielo non poteva confortarla, una morsa prepotente le si stringeva intorno, sempre di più, sempre più velocemente, sempre più soffocante. Ed io allora capii, proprio mentre la stavo perdendo, il suo valore. Come potevo permettere che le facessero questo?
Passò del tempo, pensai più volte di sabotare i cantieri, ma la collina era troppo distante ed io non avevo né il carattere né il coraggio per farlo. La speranza andava sempre più affievolendosi, a volte si trasformava perfino in rabbia, però, improvvisamente tutto sparì, le gru si dissolsero dal paesaggio. Miracolo? Compassione? Mancanza di fondi e accusa di abuso edilizio, in ogni caso la collina tornò a sorridere e i miei panorami bucolici a irradiarmi nuovamente di verde sotto l’azzurro del cielo.
Fu allora che feci un giuramento, se mai qualcuno fosse tornato ad attaccare la mia collina l’avrei fermato, avrei protetto quella bambina innocente e così, forse disturbando il gattino accoccolato sulle mie ginocchia, urlai a squarciagola, ascoltando divertito l’eco di ritorno: “Che nessuno tocchi mai più le colline dei castelli!”