L'angolo dello scrittore

Biagio de Giovanni, A destra tutta. Dove si è persa la sinistra?, Edizioni Marsilio, 2009.

di Alberto Scarponi

Nonostante la verve polemica, Biagio de Giovanni non sa rinunciare nemmeno in un pamphlet alla passione ragionante e dunque propositiva. Intende argomentare sul perché dello stallo in cui si è bloccata la sinistra e della nascente egemonia della destra italiana, che a lui sembra «non di breve periodo». È presto detto, noi assistiamo oggi alla fine di un sistema egemonico, quello ispirato a una idea unificatrice della storia italiana a partire dalla analisi della «questione meridionale» proposta da tutta una classe dirigente intellettuale. Infatti, spiega de Giovanni «i dati oggettivi non fanno mai la storia da soli. Le egemonie non si costruiscono mai per il solo affluire di dati economici e sociali. Esse hanno bisogno di forze attive, soggetti che entrano in campo, culture, per quanto si voglia primitive, ma capaci di mettere insieme persone e gruppi altrimenti dispersi, senza direzione… non è necessario ricordare Gramsci per comprendere  questo». E oggi la «questione settentrionale» è «un altro punto di vista sulla storia italiana» che nasce «su mutamenti profondi dello scenario nazionale e mondiale, sulla crisi degli stati nazionali, sull’internazionalizzazione dell’economia, sull’irrompere del nord-est come nuova chiave di lettura dello sviluppo produttivo italiano».

Nel blocco strategico del pensiero meridionalista, il centrosinistra si ritrova  erede impotente del vecchio sistema egemonico, ora divenuto «corporativismo sindacale». Gioca di rimessa sotto i «vecchi simboli, visibilmente sopraffatto nell’agenda politica, impantanato in una visione della politica cui non di rado manca il lessico per esprimersi». In una società divenuta «un grumo di resistenze corporative», paradossalmente la sinistra ha perduto ogni spirito di riforma, resiste e basta, mentre il centrodestra coltiva il cambiamento: federalismo, protezionismo, settentrionalismo, populismo. Soprattutto quest’ultimo sembra incidere, addirittura in termini culturali: «Berlusconi ha introdotto un altro livello della comunicazione politica, veloce, diretto, non gergale, magari scandaloso per chi vive del vecchio linguaggio togato».

E forse, viene da osservare, il leaderismo berlusconiano va anche più in là, giacché tende a negare la politica stessa riassorbendola anche in idea dentro il campo economico. Qui il ‘popolo’ non ha sovranità, non è popolo in senso stretto (storico-politico, direbbe de Giovanni), è una massa che gioca un ruolo limitato, quello del recettore di offerte da parte di uno o più leader, un ruolo simile a quello del pubblico, del consumatore e dunque dipendente dalle performances della persuasione pubblicitaria. Di qui lo specifico linguaggio manipolatorio, affatto assente quanto a etica del discorso, dunque pragmatico, assai adeguato alla «realtà delle cose» del quotidiano, ma, appunto come tale sfera, sprovvisto in essenza di dimensione strategica e dunque produttivo di mode, non di egemonia. Mero carisma, se si vuole, che è entrato nel vuoto del crollo egemonico della sinistra, lasciandolo vuoto. Non per nulla il problema del dopo Berlusconi si presenta come scelta fra Bossi-Tremonti o Fini.

Il centrodestra va cambiando alcune cose in Italia, scuola, giustizia, princìpi contrattuali, parlamento, federalismo, fisco, ma quanto al cambiamento complessivo per adeguare il paese al mondo in cambiamento, de Giovanni dubita che nella cultura del centrodestra abiti davvero la volontà occorrente. Ciò, sebbene la fase attuale chieda una «ricollocazione complessiva rispetto a una fisionomia consolidata della storia italiana, in vista di cambiamenti legati anche alla lettura del mondo globale».

Cosicché per l’interlocutore diretto di questo «apolide della sinistra» «si riaprono le categorie di comprensione del mondo, e c’è pane per una sinistra che voglia pensare». Riuscire a sostituire Keynes con Schumpeter, tornare dalla politica del debito «alla forza del lavoro effettivo senza far di quest’ultimo un mito unificante, è una grande occasione per ripensare le società, per ricostituire un afflato etico-politico». Qui, e viene detto senza mezzi termini, si è inspiegabilmente bloccato il lavoro iniziato da Walter Veltroni, il quale ha enunciato bensì il bisogno di una grande ricostruzione culturale della sinistra, ma senza attivare il conseguente concreto lavoro intellettuale. Probabilmente ­– sembra dimostrare questo libro – perché i compiti culturali spettano alla cultura.

Enrique Dussel, 20 tesi di politica. Per comprendere e partecipare. Introduzione e traduzione di Antonino Infranca, Asterios Editore, 2009.

La vita stessa di questo intellettuale è indizio della condizione complessa in cui si trova oggi la cultura politica (e talora anche la cultura letteraria) del subcontinente latinoamericano. Enrique Dussel, nato in Argentina, oggi insegna (Etica e Storia della Chiesa) a Città del Messico dopo un percorso avventuroso di studi (per un decennio fra Spagna, Francia, Germania e Israele), un attentato dinamitardo subito nel 1973 in Argentina e infine il golpe militare del 1976, da cui si salva con l’esilio. E sono forse proprio tali condizioni complicate, non sempre perspicue all’occhio europeo, che hanno indotto Dussel a redigere questa sorta di manuale istituzionale diretto «innanzi tutto ai giovani, a coloro che devono comprendere che la nobile funzione della politica è un compito patriottico, comunitario, appassionante».

In queste poche parole preliminari è sintetizzata l’intera visione metodica di Dussel, dai fondamenti agli obiettivi, dall’impianto alle aporie. Fondamento della politica è, qui, la volontà di vita e quindi la funzione di autogoverno della comunità (con le sue dinamiche e strategie e i suoi interessi e conflitti), la quale comunità ovvero popolo non solo è titolare della sovranità ma letteralmente la esprime da sé come propria qualità intrinseca, sotto il concetto spinoziano di potentia. Quello che «appare» come carattere specifico della politica, cioè l’esercizio del potere istituzionale o potestas, non è altro che lo strumento con cui l’originaria potentia appunto si articola empiricamente. Conseguenza: la politica è funzione nobile in sé, ma solo fin quando si intende potere obbedienziale (il funzionario pubblico come servitore non dello stato ma della comunità) e dunque mantiene esplicito il senso della sua origine-finalità; la politica è corrotta invece quando crede che e si comporta come se il potere istituzionale sia l’origine-finalità della sua funzione.

Va da sé che un tale impianto implica un chiaro contenuto etico del comportamento politico (il riferimento alla comunità) e un impegno individuale non limitato all’intelletto, ma coinvolgente anche il terreno emotivo, la passione. Con tutte le complicazioni del caso. Né Dussel manca di affrontare tali temi nel quadro della «decostruzione» a cui successivamente sottopone lo schema astratto della prima parte del libro. L’aporia di fondo tuttavia, che apre illuminanti ragionamenti quando si discute di populismo, consiste nella determinazione concreta, storica, della comunità di riferimento. Se, come sembra di capire, il popolo è comunità politica in quanto prodotto della ragione pratico-discorsiva, vale a dire è quella comunità comunicativa (anzitutto linguistica) in cui i membri «possono darsi ragioni gli uni agli altri per arrivare ad accordi» (p. 48), si aprono problemi non solo quanto alla formazione storica dei popoli, ma poi – con fortissima attualità nella società globale dei grandi numeri – di comunicazione (verbale e materiale) interna alla comunità stessa.

Ed è interessante che tali sollecitazioni problematiche ci vengano da società in apparenza così altre rispetto alle nostre, così avanzate, così europee.