Dallo Zimbabwe, fuga senza fine. Rivalità tra Mugabe e Tsvangirai
Amani – 11 Febbraio 2011
Alla fine Thabo Mbeki è riuscito a mettere d’accordo i due eterni rivali. Il presidente sudafricano uscente (visto che a settembre ha annunciato il proprio ritiro anticipato), dopo un lento, lungo e difficile lavoro di mediazione – in stile africano -, ha convinto il padre e padrone dello Zimbanwe Robert Mugabe e il leader dell’opposizione e del partito Mdc (il Movimento per un cambio democratico), Morgan Tsvangirai, a spartirsi il potere. Arthur Mutambara, leader di una fazione dissidente dell’Mdc, diventerà vicepremier. Per la prima volta dall’indipendenza ottenuta nel 1980, il compagno Bob acconsente a limitare il proprio potere.
Al di là della complessa spartizione politica e della difficile costituzione di un governo di unità nazionale, vi sono due aspetti non risolti che lasciano molti dubbi sul fatto che questo importante accordo possa essere risolutivo nella crisi che attanaglia il Paese dell’Africa australe. Il primo riguarda la sicurezza: Mugabe controlla ancora l’esercito, la polizia e soprattutto il Servizio centrale di intelligence, ovvero i temuti servizi segreti. In un primo momento sembrava che la polizia dovesse dipendere dal ministero dell’interno, a cui doveva essere destinato un esponente dell’Mdc e quindi di Tsvangirai. Ma non tutto l’accordo è stato reso pubblico e questo punto non è ancora stato sciolto. Tsvangirai e molti esponenti dell’Mdc, portano ancora sul corpo i segni della violenza subita dagli agenti, i quali hanno arrestato e malmenato innumerevoli volte gli oppositori politici. Una qualsiasi ipotesi di riconciliazione nazionale passa anche attraverso una diversa gestione delle forze di polizia.
Il secondo motivo di preoccupazione, riguarda la crisi economica, che ormai ha raggiunto livelli quasi inimmaginabili. L’inflazione è a sei cifre, ufficialmente stimata in qualcosa come 11 milioni per cento, secondo la Bbc: ma è evidente che di fronte a tali numeri, le proporzioni saltano; forse ricordare che le banconote in Zimbabwe non valgono la carta su cui sono stampate (proveniente dalla Germania), potrebbe rendere di più l’idea. A maggio la Banca centrale aveva emesso una banconota da 50 miliardi di dollari, con un valore reale al cambio, di poco più di cinquanta centesimi di euro… In settembre, contemporaneamente all’annuncio dell’accordo politico tra Mugabe e Tsvangirai, Gideon Gono – governatore della Banca centrale – ha dichiarato che la valuta locale era valida solo fino al 10 settembre. Di fatto, però, in Zimbabwe si utilizzavano già i rand sudafricani, inoltre, nella zona di Bulawayo e nelle regioni più occidentali si usa anche la pula del Botswana, nel nord la kwacha dello Zambia e attorno all’area di Mutare, a est, il metical del Mozambico. Ogni mese, circa 400mila zimbabweani, attraversano il confine per andare a fare spesa all’estero; non pochi, inoltre, sono ritornati al baratto. In Europa, per ricordare qualcosa di simile, bisogna tornare in Germania, ai tempi della Repubblica di Weimar, quando i tedeschi andavano a comprare il pane o il latte, con una valigia piena di marchi. Negli ultimi cinque anni, più di tre milioni di persone hanno lasciato il Paese per emigrare, soprattutto in Sudafrica. Le speranze a medio termine per lo Zimbabwe sono quelle di integrarsi nell’economia del vicino: un migliaio di negozi e circa 250 magazzini all’ingrosso, potranno legalmente accettare valute straniere per un periodo di 18 mesi, fino a marzo 2010, quando il Sudafrica ospiterà la Coppa del Mondo. In Zimbabwe il tasso di disoccupazione supera l’80%; chi lavora riceve uno stipendio in dollari, ma dollari dello Zimbabwe e, dunque, il potere di acquisto è quasi nullo. Mancano l’elettricità e il carburante, le Nazioni Unite prevedono che nel 2009, oltre cinque milioni di abitanti (su una popolazione complessiva di 12 milioni), avrà bisogno di ricevere aiuti in cibo. In altre parole, quasi metà della popolazione non ha abbastanza da mangiare. Al punto che nel suo primo discorso da premier Tsvangirai, non ha avuto paura di ammettere che “la priorità del governo è di togliere il lucchetto a depositi di viveri presenti nel Paese e di distribuire il cibo alla gente”. Per non parlare della situazione sanitaria e scolastica. Mugabe aveva di fatto allontanato le ong che lavoravano in Zimbabwe: oggi Tsvangirai chiedi a gran voce il loro ritorno.
Uno scenario da Paese in guerra civile, oppure stravolto da un cataclisma naturale senza precedenti. In realtà il dramma dello Zimbabwe è stato solo un decennio in cui Mugabe non ha mollato il potere di un centimetro. La caparbietà con cui egli, a 84 anni, si mantiene attaccato al potere, ha qualcosa di straordinario, anche per i parametri africani che pure vedono non pochi dittatori essere rimasti al potere per decenni. Quello che più colpisce in Mugabe, non è tanto la pur ragguardevole lunghezza del suo regno, quanto il fatto che egli, di fronte ai successivi e sempre più gravi allarmi del Paese, non ha mai avviato una riforma o dato una risposta, ma si è limitato a ripetere i vecchi slogan della guerra di indipendenza e a reprimere gli oppositori.
Nel 2000 Mugabe ordina ai suoi seguaci l’assalto alle fattorie degli agricoltori bianchi, la maniera forse più sbagliata per affrontare il problema della ridistribuzione delle terre, endemico in Africa. L’attuale tracollo economico è cominciato proprio con il fallimento del settore agricolo, un tempo florido. L’opposizione di Tsvangirai, un ex leader sindacale con buoni appoggi internazionali e un notevole sostegno locale, si trasforma nell’alternativa più credibile al potere di Mugabe. Nel 2002, in campagna elettorale i seguaci del presidente seminano il panico tra i sostenitori dell’Mdc: Mugabe vince le elezioni, ma viene espulso dal Commonwealth e isolato dalla comunità internazionale che emette sanzioni economiche e diplomatiche contro lo Zimbabwe. Mugabe rilancia i triti e ritriti discorsi sull’imperialismo delle ex potenze coloniali – cioè il Regno Unito – e degli Usa, imbavaglia i giornalisti critici (alcuni di loro vengono trovati assassinati e nessuno ha fornito spiegazioni), caccia la Bbc dal Paese. Contro tutto e contro tutti, Mugabe non molla. Non accetta nemmeno l’esito delle drammatiche elezioni di marzo di quest’anno, quando per alcuni giorni era sembrato che l’Mdc di Tsangirai avesse vinto e che un cambio potesse essere finalmente possibile. Applicando tutti gli stratagemmi possibili, legali e non, Mugabe si è proclamato vincitore. L’ultimo atto sono state le elezioni-bis di giugno, in cui ha vinto ancora lui, dopo essere rimasto l’unico candidato, visto che Tsvangirai si era ritirato a causa delle troppe violenze contro i propri sostenitori. Ormai nessuno – a parte Mugabe stesso -, ritiene legittimo il presidente dello Zimbabwe. Così la comunità internazionale e in particolare il Sudafrica, cioè la vera potenza a livello regionale, sbloccano una situazione ormai insostenibile e Mbeki riesce a trovare l’accordo. Tsvangirai ha dichiarato: “L’ho firmato perché ritengo che esso rappresenti la miglior opportunità per noi, di costruire uno Zimbabwe democratico, prospero, pacifico. E perché la mia fiducia nello Zimbabwe e nella sua gente è più profonda delle cicatrici che porto in seguito alla mia battaglia politica”. Nonostante la fiducia professata da Tsvangirai, nessuno, per ora, sembra in grado di dire se l’accordo reggerà e funzionerà. A meno che non si voglia notare – anche se è politicamente scorretto -, che vista l’età di Mugabe, il tempo gioca a favore di tsvangirai.