Africa: impunità e stabilità
Amani – 4 Febbraio 2011 – di Renato Kizito Sesana
I pirati somali, impossessandosi di una nave carica di armi pesanti, destinata, quasi certamente al governo del Sud Sudan, hanno aiutato a sollevare la coltre di segretezza che nasconde il commercio delle armi verso l’Africa. Il Sudan si sta preparando a un nuovo conflitto, probabilmente più feroce – perché i mezzi saranno più sofisticati – della guerra civile, concluso con il trattato di pace del gennaio 2005. Nord e Sud si stanno riarmando, contrariamente a tutti gli impegni firmati. Inoltre, un documentatissimo rapporto dell’organizzazione non governativa International Crisis Group, ipotizza che il Sud Kordofan (le Montagne Nuba), si stia preparando una crisi simile, se non peggiore, di quella del Darfur. Dall’Uganda giungono voci che l’Esercito di resistenza del Signore (Lra) si sta ricostituendo, non più intorno alla sconcertante ed esclusiva figura di Joseph Kony, ma intorno a militari professionisti (alcuni dei quali alti ufficiali nell’esercito governativo), che si preparano a passare all’opposizione.
Nell’est della Repubblica democratica del Congo, dopo le elezioni di 3 anni fa che avevano fatto sperare nel ritorno della pace, si è tornati alla guerra civile, ai signori della guerra, alle bande che non hanno altra visione se non quella di arricchirsi con le risorse naturali.
E poi abbiamo il Kenya, il cui governo si è gentilmente prestato ad accollarsi la responsabilità di essere la destinazione finale delle armi sequestrate dai pirati somali per coprire il governo sudanese, gli amici commercianti di armi, gli alleati e protettori che le hanno ordinate per conto del Sud Sudan. Il budget militare del Kenya è segretissimo e le armi sequestrate erano solo una parte di quelle che passano per il porto di Mombasa, con la connivenza delle autorità.
A quasi tre anni dalla formazione di un governo di unità nazionale, il Kenya non ha trovato la stabilità e l’autostima di cui ha bisogno. L’accordo ha evitato di cadere nell’abisso della guerra tribale e dell’anarchia, ma i passi in avanti per risolvere i problemi che avevano alimentato gli scontri etnici, sono ancora troppo pochi.
Un filo lega la situazione keniana con le altre citate all’inizio, crisi complicate e terribili che causano sofferenza a milioni di persone e nascondono interessi economici e geopolitica internazionali: la comune relazione con la Corte penale internazionale (Cpi). Gli interventi della Cpi in Sudan con l’accusa al presidente Bashir, in Uganda con la richiesta di estradizione di Kony, in Congo con il processo in corso contro alcuni signori della guerra, il provabilissimo intervento in Kenya, fanno sorgere alcune domande. La più importante è: gli interventi della Cpi che hanno certamente contribuito a intaccare la cultura di impunità, hanno contribuito anche alla stabilità.