I brevissimi 2002 – Prison soundtrack di Carlo Dutto_Roma
anno 2002 (I sensi – I suoni)
Il pallone sbatte sul muro in cemento del campetto da calcio e l’eco del
tonfo, come un pugno nella schiena, mi ridà il benvenuto nella camera
3×4, dopo la mia ora d’aria. Ancora dodici anni dovrò passare qui dentro,
ancora dodici compleanni da festeggiare nella sala dei colloqui con
Ninetto, che si vergogna di avere un papà nella grande città sbarrata di
Rebibbia.
La grande cicatrice che attraversa la guancia destra e raggiunge la
palpebra dell’occhio, mi ricorda ogni giorno chi sono, davanti allo
specchietto retrovisore di una Y10, che ho appeso vicino alla finestra con i
cilindri incassati. Giuseppe D., ladro e assassino, 16 anni di massima
sicurezza. Un marchio, come un animale, come i cavalli che accudivo da
ragazzo per poche lire. Abbasso gli occhi, accarezzo il braccio, mi passo le
dita sulla barba ispida di due giorni, tanto Paola non verrà prima di
domani, mi sistemo la maglietta dentro i pantaloni.
Con la mano scaravento per terra le riviste sparse sul copriletto e il
telecomando di frantuma in un sonoro scroscio di elettronica giapponese.
Tingl, tingl, fa la valvolina, rolla sul pavimento la batteria alcalina, ti piace
papà” mi sdraio sulla branda, cigola di un rumore ormai familiare, mi
accompagna con il suo lieve stridore metallico, e con esso le molle
sfondate che mi inglobano nel materasso, come un abbraccio materno.
Silenzio intorno, da fuori penetrano, attraverso le sbarre del mio quarto
piano, soffocate, le urla di chi gioca a pallone, le scarpe da ginnastica che
scivolano sul cemento, come le frenate di un motorino, i dai passa, i sono
solo, le bestemmie orbetelliane di Enrico, braccio D.
Le palpebre scendono, la mano alza il volume della radio sotto al letto e la
voce di DJ Valentina, mi ricorda che alle nove, con il sole tramontato, al
Palaeur ci sarà Enrico Ruggirei, il mio preferito. Ho conosciuto la musica
qui dentro, mi accompagna dal mattino alla sera, grazie alla scatola nera
piena di rigature, regalatami da Mario, uscito sei mesi e tre giorni fa.
Grat grat, la testa pelata, scontro frontale di pensieri di lamiera sulla Paola
amata. Le gracchianti molle stanno a tempo mentre mi rialzo dal letto a
baldacchino (piccola retina intorno, uguale zero ronzanti zanzare). Il cupo
e sordo rumore delle nocche della mano sul muro bianco mi arriva al
cervello sotto forma di dolore. Un pugno, e ancora uno e mille e un altro
pugno e ancora uno, in breve la mano si apre, vibrazione di mela spezzata,
intingolo di lacrime afone e rossa vita negata. Plick, plick la goccia per
terra, plick la goccia sulla carta da lettera, sarò da Paola e Ninetto grazie
ad un francobollo. Urla da fuori, gol e proteste, minacce, fragorose risate,
girone infernale, le guardie con il forcone dall’alto buttano un occhio,
indifferenti.
DJ Valentina sorride al microfono, mentre un ascoltatore ha vinto un
biglietto per il concerto, Paola nella mia testa piange e corre a prendere
garze e disinfettante e prega biascicando con le labbra morbide. I miei
piedi nudi frusciano sul piccolo scendiletto di lana, crick, scrock, le briciole
di pane secco, quelle che dal piatto non lecco. Nella mia nuvoletta da
fumetto, la libertà: dindlon di campanello, toh chi si vede, entrate, driiin di
telefono nel salotto, chi è che mi cerca?, flusssshhh l’acqua della doccia ci
mette qualche secondo per scaldarsi, clic, clac, ecco aggiustato il
rubinetto.
“Il rancio, il rancio!”. Mentre il secondino gira la lunga chiave nella
serratura della mia cella, sento il traffico della Tiburtina, un ingorgo di
clacson e motori, centinaia di vite, intrappolate nel traffico tentacolare e
ingabbiate nelle loro roboanti, lucide automobili. Li invidio e intanto
cigolano i cardini della porta blindata.