I brevissimi 2005 – Terra di Carlo Leopardi_Narni(TR)
anno 2005 (Il sesto senso)
Il maestoso cerchio del tempo ruotava consueto e inarrestabile imperniato
sulla coscienza dell’Essere, condizione essenziale della propria valenza,
altrimenti insensata entro i confini del Nulla.
E si trovava a definire quel periodo all’interno del quale, in quella delicata
sommità del colle, avevano dominio incontrastato i profumi spiccati di
essenze, emanati da microcosmi odorosi e squillanti di decise policromie.
Quando il sole è impegnato a percorrere nel cielo il sentiero della lunga
armilla.
Era il momento nel quale lo stropicciarsi delle erbe tra loro, generava un
brusio sommesso che rimaneva imprigionato dalla cortina di arbusti che
circondavano quella radura. Da un lato un velluto di ginestre, e dall’altro il
cicaleccio chiassoso e dorato di un piccolo mare di spighe, che si spingeva
fino al laghetto.
Un soffio caldo risaliva dal lontano, rovente Mezzogiorno fin lì. Nato
impetuoso da cieli graffiati di sibili acuminati, temperato durante il viaggio
dal ballo di damaschi marini. Cortese nel competere con la luce del tardo
pomeriggio, mentre entrambi copiavano gli innumerevoli, delicati contorni
del corpo di lei, che solitaria era salita fin lì, convinta di ricevere le
risposte.
Con tutto il legittimo orgoglio della sua nuda giovinezza, con gli occhi
chiusi, ma con lo sguardo ben oltre l’orizzonte del pensiero, tornò al
momento in cui, senza perché, aveva accolto la sua primordiale rigidità
maschile, scivolandogli attorno lentamente, inginocchiata sulla percezione
del suo liscio pulsare, e catturandone la breve superbia nel proprio sé. In
quegli attimi durante i quali è concesso dare una fuggevole sbirciata, come
attraverso un breve socchiudersi di porta, dentro, l’altrimenti insostenibile,
potenza della creazione.
Ora lì, in piedi, con le gambe leggermente divaricate, le braccia allargate e
tese, con le dita delle mani aperte, si sentiva un tutt’uno con la terra che le
catturava i piedi. Lei e la terra: due frazioni dell’intero, due simboli che si
riconoscevano nel ricomporsi, un unicum di valori e significati, di
linguaggi.
E mentre la tiepida mano del tramonto le tinteggiava d’arancio il piccolo
ventre di madreperla, già leggermente convesso, esaltato dal delicato fiore
dell’ombelico, udì dentro il proprio essere più profondo, il rumoreggiare
del mondo e poi dell’intero universo.
Lei, microcosmo, percepì la voce rumorosa, assordante, indistinta di tutto
l’Essere che, galleggiando nel Nulla, ribolliva, sbuffava, vibrava, esplodeva
continuamente, incessantemente senza sosta. Baccano di materia e di spazi
microscopici e siderali; fissità incorruttibili in movimento e velocità
inenarrabili inchiodate nelle partizioni temporali. Nessun ordinato tracciare
di ellissi, nessun banale e pignolo procedere, nessun tragitto affilato come
lama, su cui scivolavano silenziose sfere.
Ma uno smisurato, spaventoso mugghiare dentro l’enorme calderone,
governato dall’unica, vera legge: l’assenza di leggi. Il continuo e costante
caos puro, sordo e cieco, che si rigenera all’infinito.
Era troppo immenso e terribile quel sapere, quel sentire così assordante,
quel vedere così accecante: riaprì gli occhi non resistendo oltre.
Stordita, si accovacciò, rannicchiandosi e lentamente si sorprese a
sorridere, pensando che, in fondo, quel tepore sulla sua feconda nudità,
proveniva da una grossa arancia che garbatamente si stava nascondendo
dietro il morbido profilo del colle.