I brevissimi 2009 – Non è giusto di Lucia Sallustio_Molfetta(BA)
anno 2009 (Le quattro virtù cardinali – La giustizia)
Schiacciata tra la folla di studenti, siedo su un rigido sedile del 26,
immersa in festosi gridolini, effluvi di deodoranti commerciali, risatine ora
timide, ora sguaiate, interrotte dalla tossa catarrosa o dalle imprecazioni
insofferenti dei vecchi.
“Non è giusto” grida uno studente alle mie spalle. Ha il viso devastato
dall’eccesso di ormoni, la rabbia di mezzo secolo di lotte studentesche, per
i diplomi facili, per il trionfo della giustizia che poi si è rivelata ingiusta
per chi meritava. Indossa un piumino che sa ancora di bucato, che sa
sorprendentemente del mio bucato. Ma di che mi meraviglio, sarà un Ava
lavatrice, un Dixan, un sottoprodotto, tanto cambia solo il prezzo, per il
resto sono tutti uguali.
La cartella all’altezza dei miei occhi mi graffia il viso con la cerniera a ogni
sussulto della ragazzina che si muove come un’onda del mare. Non se ne
accorge nemmeno, immersa nell’ascolto del suo I-pod.
“Non mettere gli auricolari per strada, potresti non accorgerti delle
macchine” dico sempre a mio figlio. Sentiamo continuamente storie di
pirati che ammazzano ubriachi e fuggono via. Quanti di loro sconteranno la
pena? È giusto morire sul ciglio di una strada? Basterà la sola giustizia
divina? Tante le domande, troppe senza risposta.
Il ragazzo alle mie spalle borbotta ancora sull’ingiustizia subita, sulla
durezza del professore che non ha voluto saperne di drammi esistenziali,
disagi familiari, metabolizzazioni del dolore, conflitti con il mondo intero,
a scuola, a casa, in condominio, per strada, in comitiva.
Trasmettiamo ogni giorno incertezze ai giovani, con il nostro esempio, con
i racconti di liti furibonde, competizione sul lavoro e ingiustizia che
interrompe sogni di carriera.
Io, seduta in mezzo a loro, spartiacque generazionale, con la mia cartella
di cuoio rosso, a metà inquadrata e professionale, a metà ribelle e
irriverente verso i blu, i grigi, i cammello dei professionisti seriosi.
Io, genitore come i loro genitori. Io, figlia come i loro genitori e come loro
stessi.
Io, una di loro, ancora alla ricerca di me stessa, mutante mio malgrado,
incantata dalla bellezza, affascinata dal lusso e dal benessere, appagata
dall’appagamento dell’Io.
Io, disincantata dalla vita, dall’indifferenza di molti, dal cinismo, dalla
meschinità dilagante, dall’ingiustizia.
Io, ribelle anche ora, di fronte alla mancanza di comprensione, alla
negazione delle ragioni psicologiche, della tolleranza. Nel dubbio, pro reo.
E noi che puntiamo il dito accusatore, col gusto di farlo, senza pietà. Può
definirsi uomo chi non prova pietà? E può un mortale non sbagliare mai,
essere sempre nel giusto?
Non è giusto, penso, l’avvicendarsi fluido di sistemi, ideologie, governi,
circolari di carta che stigmatizzano mezze verità, quelle del momento, che
decretano la fine di ciò che solo fino a poco prima era giusto. Crea solo
caos intorno e dentro di noi.
Intorno a me gli studenti parlano, gridano, ridono, si fanno confidenze
d’amore, parlano d’amore. Per fortuna si continua a parlare d’amore, si
continua a credere e sognare. Mi intenerisce guardarli, quasi mi piace il
loro linguaggio, così breve e privo di orpelli. Eppure i giovani non hanno
dimenticato i sentimenti. Non è giusto disincantarli perché noi adulti lo
siamo. Non è giusto parlare loro continuamente di corruzione che azzera il
merito personale. Li spingiamo a non provare, a non provarsi, all’inedia,
alla rassegnazione, li condanniamo alla vecchiaia anzitempo. Basta a dire
loro che tanto non cambia nulla, che se protestano non cambierà nulla, che
l’innamoramento passa dopo solo sei mesi, che l’amore eterno non esiste,
che le ragazze di oggi sono troppo prepotenti e gli uomini fragili o
insensibili.
La ragazzina di fronte a me tira fuori la biro dal borsellino e scrive
qualcosa sulla cartella.
“Amami per quella che sono” leggo e completo la frase mentalmente “se di
me hai un’altra idea, non è giusto che continui ad amarmi”.