La rivolta necessaria
La violenza politica sembra una maledizione africana: per ottenere il cambiamento il costo umano è altissimo
Amani – 17 giugno 2011 di Pietro Veronese_
Nei primi tre mesi del 2011 il mondo ha seguito allarmato alcune terribili crisi. Una ha avuto origine da una catastrofe naturale: il terremoto che ha colpito il Giappone, trasformando la centrale nucleare di Fukushima in una potenziale bomba atomica che minaccia la vita dei sopravvissuti. Le altre sono crisi politiche: rivolte popolari contro regimi antidemocratici, tentativi di colpo di Stato, avvii di guerre civili. E sono tutte africane.
Tunisia, Egitto, Libia, Costa d’Avorio: storie molto diverse tra loro, per cause, dinamiche, sviluppi, esiti. Poco accomuna la fuga del presidente –padrone tunisino Ben Ali, il 14 gennaio, con l’arresto dell’ex capo di Stato ivoriano Laurent Gbagbo nel suo bunker di Abidjan, l’11 aprile. Se non il fatto di essersi compiuti in uno stesso continente, il più vicino geograficamente a noi europei del sud, ma apparentemente il più lontano dalla nostra consolidata (anche se recente) tradizione di alternanza democratica.
È come se ci fosse una maledizione africana. Una sventura collettiva che consiste nell’incapacità di ottenere il cambiamento politico senza crisi, senza violenza e lutti. Un potere in essenza antidemocratico, che mira solo ad autoriprodursi, a trasformare maggioranze parlamentari in sistemi di sopraffazione e presidenze elettive in dinastie.
Bisogna guardarsi dalle generalizzazioni. La “primavera” che ha fatto cadere come birilli i regimi di Tunisia ed Egitto e scatenato la guerra civile in Libia è tanto africana quanto araba e musulmana. È cioè espressione di grandi insiemi umani che solo in parte hanno a che vedere con le vicende dell’Africa. Non a caso l’esempio dei ragazzi di piazza Tahrir è stato seguito in Yemen, in Bahrein, in Oman, in Siria, paesi che africani non sono.
Ogni vicenda nazionale, poi, ha proprie scintille, proprie dinamiche, elementi unici che la contraddistinguono da ogni altra. Il caso libico ad esempio, ancora sanguinosamente irrisolto, è segnato dalla spaccatura clanica tra le due metà occidentale e orientale del Paese; dal temperamento lunatico del suo dittatore Gheddafi; dall’abbondante presenza di petrolio nel sottosuolo. E tuttavia, così come la speranza democratica si è espansa contagiosamente in senso orizzontale fuori dai confini del continente, dalla sponda atlantica dell’Africa alla Penisola arabica e alla costa mediorientale del Mediterraneo, essa è penetrata anche verso sud, oltre il Sahara, ha raggiunto gli studenti di Khartoum, gli oppositori di Biya in Camerun o quelli della famiglia Bongo in Gabon. Ovunque incontrando una repressione feroce.
Dobbiamo anche ricordare gli esempi di democrazia che l’Africa ha dato nei cinquant’anni trascorsi dalle indipendenze. La lunga, pacifica presidenza di Julius Nyerere in Tanzania (1964-1985), conclusasi a suo tempo con un sereno avvicendamento al potere. Il generale sudanese Suwar al Dahab, che nel 1985 depose il dittatore Nimeiri promettendo libere elezioni entro sei mesi e così fece, consegnando il Paese ai partiti e scomparendo dalla scena politica e perfino dalla memoria dei contemporanei. Ai giorni nostri brilla la democrazia sudafricana, macchiata da abusi e da corruzione, ma radicata e robusta. L’Africa, è però anche il continente dei colpi di stato, di cui detiene il record, dai generali – presidenti e dei presidenti inamovibili. Oggi, insieme alle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale, è forse la parte di mondo dove il cambiamento politico appare più difficile.
Molto spesso questo cambiamento è assente: i regimi riescono ad auto-perpetuarsi, e basta. Oppure, quando c’è, avviene immancabilmente nel sangue. Alla fine del 2010 la Guinea è riuscita ad eleggere un nuovo presidente; ma soltanto dopo un colpo di stato fallito, lunghi mesi di instabilità, ripetuti scontri di piazza con morti e feriti, la pressante presenza dei donatori occidentali. E ricordiamo che Uhruru Kenyatta, vice primo ministro del Kenya, Paese che ha un governo elettivo, è comparso di recente davanti al Tribunale penale internazionale dell’Aia per rispondere delle violenze politiche che hanno segnato le elezioni del 2007.
La vicenda della Costa d’Avorio è in parte analoga a quella guineana. Le elezioni di novembre 2010, rinviate di anno in anno per un lustro, dovevano segnare la fine della guerra civile e la riunificazione politica della nazione. Forse questo risultato finirà per essere raggiunto sotto la nuova presidenza di Ouattara; ma non senza che si sia passati attraverso un ulteriore bagno di sangue, nuovi massacri compiuti da una parte e dall’altra, l’intervento armato della Francia per deporre un presidente sconfitto nelle urne che rifiutava di cedere il potere.
Il semestre di transizione nel quale si trova adesso il Sud Sudan, tra il referendum di autodeterminazione del 9 gennaio e la proclamazione dell’indipendenza dal Nord, fissata per il 9 luglio, è segnato da una forte fragilità interna. Generali scontenti dei risultati elettorali hanno ripreso le armi, probabilmente sostenuti in modo occulto dal regime del Nord, e l’avvenire della repubblica nascitura appare incerto.
Il bilancio delle tre grandi rivolte nordafricane, infine, è ancora molto incerto. In Tunisia la lotta di piazza ha dato luogo, adesso, a una lotta di palazzo tra la classe dirigente legata al regime deposto e i suoi oppositori. In Egitto le forze armate si rivelano un elemento di continuità sostanziale con il passato: Mubarak è caduto ma i poteri forti, militari ed economici, sono immutati. Quanto alla Libia, essa è devastata dalla guerra civile.
Viene da chiedersi se tutto questo abbia un unico perché, una spiegazione comune. È una domanda troppo difficile, che sembra cercare una risposta precostituita: la risposta che l’Africa non è fatta per la democrazia, la stabilità, la crescita armoniosa, lo sviluppo. Questo punto di vista può essere facilmente ribaltato. Come afferma il grande politologo americano Adam Przeworski, intervistato da Afronline, le rivolte africane testimoniano un anelito democratico tanto vasto quanto radicato. Esse si sono opposte a dittatori con i quali la democratica Europa non aveva nulla da eccepire, intrattenendo con essi eccellenti relazioni d’affari. Nessuno può dare lezioni; e non esistono Paesi, o continenti, o culture, più o meno pronti per la democrazia: “la democrazia è un metodo per gestire pacificamente i conflitti e mantenere al contempo un certo grado di libertà politica – un metodo ovviamente migliore della guerra civile”.