A proposito dell’Afganistan… di Cristina Obber (Solagna-VI)
Sono morti in due, e due sono feriti gravemente.
Quattro soldati, quattro italiani.
Ne sono morti ieri, e l’altro ieri, e l’altro ieri ancora, ma erano inglesi, afgani, americani, iracheni, africani.
E allora la notizia passava tra le altre, tra il bollettino del meteo e i dati della disoccupazione.
Oggi invece vado su google, per sentire se ci sono dei nomi, dei volti, delle speranze.
E mi chiedo perché degli altri non ci preoccupiamo. Perché soltanto se sono italiani riusciamo ad immedesimarci in due occhi che si spengono, in un padre che cambia espressione al di là di un telefono, a degli amici disorientati.
Perché sono italiani. Come noi.
Perché in queste occasioni ci sentiamo fratelli. A nessuno viene in mente di chiedersi se questi soldati sono pugliesi o valdostani, se sono lombardi e molisani.
Sentiamo la parola italiani e abbiamo un fremito.
Italiani come noi, quelli di Mazzini, di Garibaldi, di mille soldati con le giubbe rosse.
Io mi sento cittadina del mondo. Sono globalizzata.
Però quel fremito l’ho sentito. Ha un senso, e voglio che continui ad averlo, per i miei figli, per le persone che mi stanno intorno. Per chi arriva in questo paese con il ghigno sulle labbra, perché all’estero ci chiamano il paese dei burattini.
Siamo il paese dei balocchi, o il paese all’incontrario, come dicono i bambini in un gioco che li diverte tanto, dove chi ruba non va in prigione, dove un parrucchiere si occupa degli Uffizi, ma per davvero, mica per finta. Il paese dove la responsabilità non è che l’eco di qualcosa che aveva un significato di cui si stenta a ricordare la definizione.
E allora giochiamo, balliamo, in questo paese dei balocchi, continuiamo a fare festa, continuiamo a pensare che tutto sommato non siamo
la Grecia , non siamo
la Spagna e neppure l’Albania. E digeriamo tutto. Mastichiamo cose che vent’anni fa avremmo vomitato solo a sentirne l’odore. Oggi siamo in grado di deglutirle, dando inizio ad una digestione che anche se lenta compie comunque il suo corso, fino alla cacca.
Espelliamo tutto, capaci di ritrovare l’unità d’Italia ad ogni parata degli alpini, pronti a rianimarci per una partita di pallone o per un oscar al cinema.
Il nostro ottimismo, genetico e creativo, ci distingue e ci salva.
Vacilla se in Afganistan muoiono due dei nostri.
Perché in fondo ci siamo tutti, anche in guerra, a fare il tifo.
Anche se finiti i tg speciali tutto riprende a scorrere nell’apparato digerente. Le bare, le bandiere, la guerra.
Che parola “guerra”. Ne hanno sfumato i contorni. Allora la g puoi leggerla come c, le r si possono scambiare per p, e se ne tolgo una ecco che posso scorgere la parola “pace”.
Ci parlano di missioni umanitarie. ma com’è possibile utilizzare la parola umanità parlando di guerra.
Guerra vuol dire ragazzi di vent’anni che si sparano togliendosi il respiro l’un l’altro.
Vuol dire uomini acerbi che violentano e tradiscono prima di tutto se stessi.
La Guerra c’è ogni giorno, ma è lontana. Non mi sconvolge, non cambia le mie giornate, a volte ci penso e me ne rattristo, ma più spesso non influisce sul mio umore. Quei civili che muoiono ogni giorno non sono la mia famiglia, i miei paesani. Di tutti quei bambini non so niente, né delle loro madri. Quel sangue che scorre, quegli arti amputati, non mi appartengono. Non sento le loro grida. Non vedo i loro occhi.
Certo, se me li sbattessero in faccia mi turberebbero profondamente, proverei orrore. Ma se nessuno mi sollecita e mi lasciano tranquilla, se mi mostrano la guerra dall’alto di un panorama notturno, dove le esplosioni si riflettono come le luci di un luna park visto da lontano, allora di quegli arti e di quel sangue, non mi curo, e la mia vita scorre facendomi pensare che le parole hanno un significato più morbido.
Vogliono dare loro un significato più morbido.
Guerra, pace, mina antiuomo, Afganistan, Iraq, Darfur, Italia, unità, identità, umanità. Le vedo tutte insieme, con i contorni sempre più sfocati.
Potere della propaganda, potere dei palinsesti, degli ospiti, degli opinionisti. Paese dei balocchi, dei burattinai e delle marionette.
Ma oggi è sangue italiano. E’ respiro italiano quello che si è fermato, sono lacrime italiane quelle nei filmati.
E allora di fronte a un battito italiano il mio cuore ha un fremito, i miei pensieri si mettono in stand by, e mi immedesimo in un dolore. Non voglio sfumare anche questa parola.
Voglio ripartire da qui.
Voglio condividere questo dolore. Me ne voglio appropriare.
Non voglio restare indifferente, voglio che rimanga dentro di me per più di dieci minuti, per più di un giorno, anche domani.
E voglio riappropriarmi delle parole che mi sono state scippate, affinché io non possa nemmeno controbattere, alzare la mano. Se le parole sono sbiadite allora lo sono anche i loro contrari.
Lo sono gli striscioni che aprono i cortei, lo sono i titoli sui giornali, lo è
la E di Emergency.
Rivoglio le mie parole. Che guerra sia guerra, e pace sia pace. Che guerra sia Avatar, onnipotenza, delirio, carneficina, morte.
E da questa parola voglio rimanere turbata, per più di dieci minuti.
Che pace sia silenzio, senza deflagrazioni, senza mitragliatori, senza il pianto degli orfani né i gemiti delle donne stuprate.
Senza missioni, senza soldati.
Oggi voglio fermare questo fremito.
E voglio guardare bene a fuoco la parola guerra e la parola pace, e ricordarmene la differenza.
Per più di dieci minuti.