Scrivere come se il destinatario si sedesse accanto e in silenzio ascoltasse quelle parole dette con voce scritta.
– di Annalisa De Lucia_ Associazione Energheia.
Quand’ero bambina andavo spesso verso gli alberi, amavo gli ulivi, li vedevo generosi e contorti e per questo assai fascinosi. Accarezzavo la corteccia, seguivo il perimetro dei rami, ne percepivo l’odore amaro. Traducevo nella mente la memoria di quell’esperienza che poi mi piaceva raccontare. Più tardi ho scoperto, nella solitudine della sensibilità, che c’era qualcuno che come me amava usare le parole, raccontare, fissare emozioni difficili da dire, pensieri che sentivo vicini, che traducevano quel mio andare dall’infanzia alla giovinezza in forma di scrittura. Iniziai a scoprire gli autori, i poeti prima, i romanzieri dopo e ne fui conquistata. Quel loro sentire si avvicinava al mio, trovavo in loro percezioni le cui sfumature erano le mie ancora in forma acerba e accennata. Loro le dichiaravano le sensazioni, sapevano descriverle come pittori, vedevo oggetti e mondi tradotti dall’immagine in parola. Fu così che cominciai a fermare i miei pensieri perché non svanissero troppo velocemente, ad osservare con maggiore attenzione i particolari, a trovare negli sguardi di persone sconosciute storie immaginarie e piccole esperienze fatte di particolari e dettagli insignificanti che prendevano forma. Fu così che la scrittura divenne il mio rifugio, tana e strumento di sopravvivenza. Una fotografia per fermare quello che sapevo sarebbe andato perduto, la gioia di un istante, un’esperienza quotidiana, versi che dessero voce alle mie emozioni. Poi cominciai a capire che scrivere dava un senso a quel che accadeva, che ricordare su una pagina riportava in vita persone che avevo amato e che non c’erano più, che raccontare un viaggio in un paese lontano avrebbe dato voce ed esistenza ad un popolo sconosciuto anche solo ricordandone il nome. Ho scritto di gente dimenticata nelle periferie della città, realtà che non fanno rumore, ma che respirano allo stesso ritmo della vita, ma con qualche nota stonata e scomode a guardarsi. Ho scritto storie immaginarie traendo spunto dalla mia esperienza e ritratti reali da mondi lontani, di mine antiuomo e racconti per bambini. In fondo, diceva Cechov che è nell’ordinario, nel quotidiano nell’irrilevante che accadono gli eventi più profondi, più straordinari ed emozionanti della vita di una persona e tutto ciò che è significativo della vita di una persona può risultare insignificante per gli altri. Probabilmente all’arte è affidato il compito di mostrare come ciò che è apparentemente insignificante porti con sé questioni e interrogativi a cui non necessariamente dare una risposta, ma che sono lì per essere posti in continuazione, sollevati, offerti come essenza della complessità umana. Forse sta proprio lì il compito dello scrittore. Attraversare la propria vita, rimaneggiarla, domandarla, lasciare risposte aperte per sé e per chi legge, far attraversare, con le parole, esistenze universali dettate dal quotidiano tradursi in fatti, eccezioni, semplici respiri di vita. Usiamo i sogni, inventiamo realtà desiderate, fantasiose che possano contener verità come se esse avessero bisogno di un filtro immaginario per essere credibili, ma, a volte, scopriamo che certe storie di vita sono vere e basta nella loro incredibile realtà. Ed è una voce che guida lo scrittore, un’ urgenza che spinge a dire, a tradurre in parole quel che vive attraverso quello che è, un modo per essere interessato alle cose, una forma di ribellione, un’alternativa al silenzio inerte, un dire senza esser interrotti, un proprio modo di essere al mondo, vivere la seconda volta un’ esperienza, la libertà di andare dove si vuole, di esprimere desideri proibiti, ciò che è pericoloso dire, un luogo del mondo in cui essere. Il luogo in cui sentirsi meglio.
Scrivere come se il destinatario si sedesse accanto e in silenzio ascoltasse quelle parole dette con voce scritta. Un patto segreto tra chi scrive e chi ascolta, in un luogo eletto, in una parentesi di esistenza straordinaria. Il Premio Energheia, ricrea questo luogo, dà respiro alle parole che vogliono farsi voci di esperienze, accoglie con la sua attività quasi ventennale la possibilità di dare un nome e un colore alle cose, uno sguardo su storie reali o immaginarie, il potere di essere ancora lì a dire, a comunicare, a far parlare di sé e di altri nel nostro paese e fuori da esso con i Premi Energheia Europe e Africa Teller. Raccontare significa anche confrontare mondi e modi di pensare, trovare nella differenza l’arricchimento, superare l’egoismo del piccolo recinto e guardare oltre. Battersi per difendere i luoghi dove il confronto possa essere costruttivo e libero soprattutto in questi tempi in cui la parola più che mai è ancora lo strumento più potente di affermazione e di dissenso.