Il politeismo come politica aperta, sempre esposta al conflitto
_Pubblichiamo un estratto dal libro “Tumulti – Scene dal nuovo disordine planetario” (DeriveApprodi, 2011) che cerca di dare una lettura filosofica alta dell’attuale fase mondiale contrassegnata da sommosse, sedizioni e rivolte di massa, che vanno però sottratte ad interpretazioni ispirate al vecchio dio ‘monoteistico’ della rivoluzione. Vanno semmai considerate nel quadro di una narrazione costituente alternativa all’odierna crisi della sovranità.
di Augusto Illuminati e Tania Rispoli
Prendiamola alla lontana, è un metodo efficace. Il politeismo declina con la scomparsa di ogni residuo equilibrio, con la dinastia degli Antonini, fra imperatore e ceto senatorio e l’emergere di un’ideologia autocratica dell’Uno (Mitra poi Cristo), riacquista forza, in teologia politica, con il declino del monoteismo nell’ultima epifania: la marcia hegeliana di Dio sulla terra. Nietzsche, con la svalutazione dello storicismo e della verità neutra, istruisce una teologia binaria di Dioniso e Apollo (ternaria, mantenendoci Cristo); privilegia comunque, nel suo elogio del polimorfismo, la pratica della soggettivazione. Max Weber pone il politeismo di valori inconciliabili a cornice dell’agire politico appassionato, poliarchia che smista etica dell’intenzione e della responsabilità. Con toni meno enfatici, Foucault e Althusser hanno inserito una zeppa nel flusso facendo saltare la linearità unitaria del Dio-storia. Al divino incarnato succede una politica profana. Pro-fano, davanti e fuori dal tempio, dal fanum, non da sinagoga, chiesa o moschea. Vocabolo in origine pagano e che tale dovrebbe conservarsi, perché l’irradiazione del tempio monoteistico non concede reale estraneità ma solo laicizzazione, trascrizione degli effetti soprannaturali sulla condotta civile, trasferimento dall’Uno divino all’Uno del potere. Una pseudo-immanenza peggiore della trascendenza, nel tragitto scalare che va dal sacerdozio alla sovranità alla polizia.
La secolarizzazione della storia sacra non comprende soltanto lo spostamento degli attributi divini su Origine, Senso e Fine, necessità del corso storico, coincidenza hegeliana di razionale e reale, ma anche la mistica dell’interruzione messianica e dello svuotamento: per quanto perversa, un’identica logica monoteistica allignava, per deriva neoplatonica, nella Gnosi e nella Kabbalah. Il blochiano spirito dell’utopia, la discontinuità storica e il profano benjaminiano si sporgono sul Telos senza toccarlo: il Regno di Dio, nel Frammento teologico-politico, non è suo scopo (Ziel = Telos) bensì termine, limite (Ende), il Profano è approssimazione al Regno messianico, aspirazione a tramontare nella felicità, restitutio in integrum mediante caducità e nichilismo.
Siamo qui agli estremi del monoteismo (come da ultimo in Agamben e Nancy), nondimeno ancora nel suo cerchio ipnotico. La seduzione del tramonto sconta un ethos cristiano, chiude con nostalgia un decorso unificato. D’accordo, partiamo di lì, ma ormai ne siamo fuori. Machiavelli, Nietzsche e Weber sono i convitati assenti dal convito teologico-politico schmittiano allestito intorno alla decisione e allo stato d’eccezione. Schmitt si muove fra due poli, quello teologico-liberale della potestas ordinata (in seguito stabilizzato e corretto con una ripresa dell’istituzionalismo) e quello decisionista della potestas absoluta, precipitato attraverso Duns Scoto e Ockham in Hobbes. Il suo partito preso è trovare un decisore precostituito, esattamente il problema opposto a quello machiavelliano, perché per il Fiorentino il decisore (il principe nuovo) si staglia sullo sfondo di nessi ancora indeterminati che precedono qualsiasi occasione e dalla sua gestione sono risolti, non è metafora di Dio creatore ex nihilo. La definizione spinoziana della potentia come intransitiva e la sua indifferenza alla personalizzazione del comando ereditano quella postura machiavelliana e anti-teologica. O, meglio, teologicopoliteista, che fa fuori in cielo e in terra esclusività e trascendenza del potere.
Riprendiamo qui un passo di Max Weber a lungo preso per metaforico. Egli, dopo aver messo al primo posto fra le virtù dell’uomo politico la passione come Sachlichkeit, dedizione appassionata a una causa, Dio o diavolo che sia, passione in cui si intrecciano etica dei principi e della responsabilità, e aver richiamato giustappunto Machiavelli, che dichiarava preferibile la salvezza della patria a quella dell’anima, insiste sul fatto che noi apparteniamo contemporaneamente a diversi ordini di vita, soggetti a leggi diverse fra loro e cui dobbiamo sacrificare come i Greci ai loro dèi, pur sapendo che spesso erano reciprocamente incompatibili. In tal senso non esiste un monopolio della decisione nello stato d’eccezione, piuttosto un conflitto ricorsivo in cui l’apparato statale può di volta in volta schierarsi o arbitrare, un insopprimibile Polytheismus der Werte. Qui, come nella descrizione della democrazia comunale come potere in sostanza «illegittimo», eccedente dal basso per coniuratio ogni ordinamento, Weber apre a una dimensione più problematica del suo pensiero. Dal disincanto del mondo e dalla neutralizzazione burocratica rispunta il carisma in conflittuale pluralità. La chiamata (Beruf) si fa parte contro la totalità, spartisce i chiamati in un dissidio infondabile.
Chi vive nel mondo (ricordiamo dell’esergo nietzschiano la distanza fra uomo mobile e animale istintualmente infisso nella nicchia dell’eterno) deve scegliere quali di questi dèi vuole o deve servire e si allontana sempre più dal Dio unico. Nel saggio Due vie del 1916 il politeismo sta sotto il segno occasionale dell’infatuazione bellica di potenza, l’onnipotente Macht-Pragma, ma a sconfitta avvenuta riemerge una dialettica più cumulativa della responsabilità e dell’onore del politico vs la fedeltà esecutiva del burocrate sine ira et studio, pertanto gli si addice il possedere spirito di parte, ira et studium. Ciò che è trasferibile alla lotta di classe, come dimostrò il suo allievo Lukács in Storia e coscienza di classe, tanto influente sul primo operaismo italiano.
È quel politeismo dei valori, ispirato a Machiavelli e Nietzsche, a indurre per contraccolpo l’enfasi schmittiana sulla teologia politica, la piegatura in senso reazionario di un’aporia già esistente in Weber, ispiratore dell’art. 48 della Costituzione di Weimar sui poteri presidenziali. L’autonomia del politico è l’estremo sganciamento dal polimorfismo biopolitico: la proiezione teologica ne è l’ultima de-naturalizzazione.
A conferma dell’iscrizione schmittiana nella filiera monoteista sta il peso del peccato originario a giustificazione della labilità creaturale che impone il ricorso all’arbitraria decisione sovrana. Una corrente carsica che va da Agostino a Hobbes ed esce in superficie con Donoso Cortés, tanto caro al giurista di Plettenberg. La triade perfetta invalidante la legge di natura è: creazione, caduta peccaminosa, distruttibilità del creato. Basti mettere accanto – per tornare all’epitome metafisica del politico – la ferma convinzione machiavelliana nell’eternità del mondo, che insomma nullam rem e nilo gigni divinitus umquam (Lucrezio, De rerum natura I, 150), con il diktat hobbesiano nell’appendice latina al Leviathan, secondo cui Dio ha creato l’universo ex nihilo, non ut Aristoteles, ex materia praesistente e alla fine butterà all’aria tutto, per cui caelum et terra renovabuntur qua forma et specie vult Deus, dunque potrà distruggerlo in ogni momento, invalidando la legge naturale e facendone malleabile argilla nel processo di autorizzazione e delega pattizia al sovrano. Credenti in una religione dell’ordine (Cortés), atei devoti (Hobbes) e cinici cultori della decisione (Schmitt) vogliono trattenere il caos con totale indifferenza alla natura del katechon (nessuno è meno legittimista di loro), pongono un problema reale (il rattrappirsi della dinamica conflittuale moltitudinaria in regole provvisorie), tendono a risolverlo con una gigantesca riduzione di complessità dai tratti a volte datati, passibile però di riciclo in governance coercitiva del comune, in contenimento elastico della democrazia. Il potere pastorale è una tecnologia interna alla sovranità monocratica adattabile alla flessibilità autoritaria postfordista: ordine e pensiero unico foggiato dal mercato svelano la complementarità di sovranismo e liberalismo, disciplina e controllo. Ben prima di Foucault, il giovane Leo Strauss aveva intuito che il politico schmittiano era un liberalismo di segno rovesciato.
La Rivoluzione come Idealtypus – altra cosa sono quelle effettive – si trascina dietro una traccia della Redenzione in cui culminava il primo segmento della storia. La sua idea nasce sul terreno della sovranità che le offre il bersaglio della rivolta, il luogo da occupare per il ricambio di potere, il modello di strutturazione interna simmetrico e antagonista. […]
Sul piano concettuale, il discredito dei modelli rivoluzionari (di come sono state idealizzate le rivoluzioni concrete) comporta una decostruzione dell’apparato interpretativo filosofico: Origine, Senso, Fine. Non stiamo qui a rivangare le critiche althusseriane miranti a suggerire il dispositivo dell’incontro contingente che si fa necessario (fino a revoca del fatto compiuto) solo dopo aver fatto presa. Una svolta epistemologica del genere costringe a riposizionare altri assunti che pure contestavano la modellistica rivoluzionaria classica. Non ne esce indenne neppure l’opposizione fra storia dei vincitori e dei vinti, perché entrambe condividenti un medesimo itinerario (rispettivamente liscio o increspato), l’una il concavo dell’altro convesso […]
Stiamo entrando in una nuova Età dei Tumulti, degli Umori irriducibili e irrappresentabili. Come interpretarla? Con intelligenza Badiou distingue fasi rivoluzionarie e «intervallari», in cui le sommosse tengono aperto il discorso, testimoniano le contraddizioni e preparano gli elementi della rivoluzione, in primo luogo il partito e una strategia di cambiamento. Esempio: la fase che va dal 1815 al 1905-1917. Saremmo propensi piuttosto a studiare la forma-tumulto in sé, non quale preparazione e deviazione rispetto a un ulteriore (la rivoluzione), sostituendo quindi all’alternanza metafisica fra periodi rivoluzionari e intervallari quella storica tra fasi di potere illegittimo e di legittimazione sovrana. Le prime riconoscono la legittimità del tumulto, le seconde lo esorcizzano. Le prime si fondano e si consolidano sullo scatenarsi dei tumulti, le seconde sulla loro soppressione.
Più complesso è anche il meccanismo di scambio delle parti fra dominatori e dominati, poiché ne va della stessa definizione del ruolo-dominio e del posto del nemico. La turbolenta vita comunale e la teorizzazione machiavelliana del conflitto pongono fine all’assetto feudale e alla dottrina scolastica (tomista) del summum bonum in un ordinamento plurale gerarchico. Sgombrano la strada allo Stato moderno e alla sovranità, ma ancora non ne partecipano, sono un interludio illegittimo che non aspira al riconoscimento, per esempio alla Ragion di Stato e alle sue fantasmagorie.
La teoria antimoderna del conflitto in Machiavelli potrebbe suggerire delle indicazioni utili per la filosofia contemporanea, proprio laddove quest’ultima si misura con il problema della crisi della sovranità. Crisi che non è fine, quanto piuttosto nuova snodatura del comando politico – governance – e della produzione giuridica – frammentazione giuridica e pluralità degli ordinamenti. La sovranità entra in crisi, quando i processi di globalizzazione diventano diffusi e radicali dilatando, attraverso la generalizzazione dei processi economici e comunicativi, i confini territoriali. Ciò non significa che si abbattano in modo immediato le frontiere, piuttosto gli spazi del divieto e le forme di chiusura territoriali si articolano in modo differente. Le tradizionali fonti giuridiche di autorità vengono modificate e moltiplicate, dal momento che la produzione di diritto non è più affidata esclusivamente all’apparato legislativo in riferimento alla fonte costituzionale, ma è piuttosto regolata da una serie di micro o macro-realtà che eccedono la dimensione statuale (regioni, multinazionali, web). Abbiamo una trasformazione della forma-Stato ovvero una modificazione strutturale del rapporto interno ai poteri statuali. Il rapporto tra individuo e autorità o tra società e Stato si trasmuta e le forme tradizionali della rappresentanza subiscono la stessa crisi cui è soggetta la sovranità. Globalizzazione indica sia lo spazio unico e comune del mondo, sottoposto a dilatazione dei confini economico-culturali, che la riproduzione delle differenze, soprattutto temporali, tra storie locali, spesso distanti l’una dall’altra.
Le tematiche machiavelliane rivelerebbero allora la loro proficuità, non tanto perché nell’epoca post-statuale si tornerebbe a una sorta di Medioevo sul piano delle strutture politiche e giuridiche – ipotesi suggestiva, soprattutto per quanto riguarda il versante economico-capitalistico, in cui elementi di nuova accumulazione originaria sono commisti a forme più antiche di gestione del potere e dell’economia (rifeudalizzazione) – ma proprio per la prospettiva metodologica e l’indicazione politica di massima che sollevano. Il Segretario fiorentino invitava da un lato a pensare la concretezza e la materialità del reale, dall’altro a rivalutare la storia, in un’ottica in cui la memoria deve sopportare un certo grado di oblio. In secondo luogo la storia, se l’eternità riguarda la perpetuità del movimento e non del mondo – corpo come gli altri sottoposto a corruzione –, comporta sempre una pluralità di narrazioni diverse tra loro. Infine, dal punto di vista del progetto politico e della strategia discorsiva, l’orizzonte tracciabile a partire da Machiavelli abbraccia il problema della democrazia in quanto pratica di una molteplicità, che non ne garantisce una volta per tutte la stabilità e la chiusura, essendo continuamente consegnata al rischio (o all’opportunità) del tumulto. Una politica aperta, esposta costantemente al conflitto. Un autentico politeismo, mentre la governamentalità offre pluralità e polimorfismo, dentro però un dispositivo esclusivo di veridizione, quello del mercato finanziarizzato. […]
Non meraviglia perciò che la crisi odierna della sovranità e il costituirsi di un assetto mondiale insieme multipolare e multilivello, per un verso, rilanci nella governance elementi supplementari di mediazione che ricordano il Medioevo (o almeno il bonum commune nella versione della seconda Scolastica di Suárez, adattata già agli Stati moderni e alla fondazione soggettiva della proprietà), per l’altro sperimenti il ritorno di un ciclo insorgente e l’emergenza di pratiche di potere illegittimo che della fluida governance costituiscono il rovescio e svolgono un loro discorso sul comune. In tal caso i tumulti non possono passare per embrioni di rivoluzioni, ma vanno valutati nella loro specifica capacità di definire una fase storica di esito imprevedibile non destinata tuttavia a ripercorrere la consueta trafila: lotta spontanea, rappresentanza, partito, conquista legittima(bile) dello Stato esistente.
In primo piano balza non il perfezionamento rivoluzionario dell’Uno (con conseguente servitù volontaria), ma la sua frattura che può declinarsi tanto come esodo quanto nella versione comunarda, della rottura della macchina statale. Al centro si colloca l’insorgenza opposta all’obbedienza, quindi pratiche (arcaicamente recuperate come diritto) di resistenza versus l’irresistibilità della legge, slittata da macchina disciplinare ad apparato di controllo, normatività frammentata e incistata nel bios.
Contro le virtù della rassegnata obbedienza per hobbesiana obbligazione o in cambio dei vantaggi dello Stato sociale si leva non solo la constatazione che obbedienza e rassegnazione non sono più virtù (ultimo eco dell’antitesi neo-aristotelica medievale magnanimitashumilitas), ma la determinazione delle virtù della disobbedienza insorgente. Virtù moltitudinarie, non più del Principe o della Nazione. Dovremmo, in luogo di rinnegare, rileggere la tematica della rivoluzione otto-novecentesca come Machiavelli e i giacobini facevano con Roma. Tramandandola nell’imitazione-citazione e tradendola nella sostanza. Non ci guidino Mnemósune, la musa della memoria, né Prometeo, colui che calcola in anticipo – i donatori di senso (immaginario) proveniente dal passato o dal futuro, origine e fine – piuttosto ci traini l’immaginazione del e nel presente, la capacità di narrazione costituente alternativa a ogni shock economy dello stato d’eccezione, pretestuosa ricomposizione delle categorie sovrane in via di dissoluzione, Leviatano clownesco e occasionale. […]
Riferisce Aristotele (De part. anim. A; 5, 645a 17) che alcuni stranieri vollero visitare Eraclito. Avvicinandosi, essi lo videro mentre si riscaldava a un forno. Si arrestarono sorpresi, soprattutto perché, scorgendoli esitanti, egli li incoraggiò, invitandoli a entrare con queste parole: «anche qui sono presenti gli dèi». Nei tumulti dei precari, il cui soggiorno nell’indigenza è alquanto diverso da quello heideggeriano, si affollano gli dèi, non il dio unico della Rivoluzione.