Il crollo
di Nicola Lagioia_ tratto da “Il fatto quotidiano”
_Chi si stupisce che il laboratorio di confezioni a Barletta sepolto dal crollo di via Roma fosse totalmente sconosciuto all’Inps, ha come unica scusante quella di essere un inquilino del Palazzo. Solo l’ignoranza della nostra classe politica su ciò che accade nel Paese reale è così colpevole e arrogante da strapparsi le vesti davanti al ’sommerso’ che ha fatto poco o nulla per arginare. Le fiorenti aziende tessili o calzaturiere del sud Italia sono diventate nel tempo sempre più un ricordo. Si trattava di maglifici, ricamifici, oasi del corredo spuntate tra fine anni Settanta e inizio Ottanta in piccoli centri che iniziarono la propria corsa verso una modernità che non li aveva toccati durante il boom.
I titolari erano spesso figli del sottoproletariato: ex magliari e ambulanti che si erano fatti le ossa risalendo infinite volte in treno entrambe le dorsali col campionario sbattuto in grossi sacchi di tela, giungendo fino a Lione, Stoccarda, Francoforte, dove, con l’esperanto della necessità, persuadevano i propri cugini tedeschi e francesi ad acquistare un set da tavola, una trapunta, uno stock di pantaloni per i quasi-colleghi del dettaglio. Se la forza della disperazione li aveva fatti sopravvivere, la voglia di scommessa li rendeva ora capaci di metter su la propria azienda.
Non erano padroncini o aspiranti capitani d’industria ma coraggiose, improvvisate, non raramente geniali teste d’ariete di imprese famigliari che iniziavano a moltiplicarsi. I meno capaci o fortunati chiusero presto bottega tornando a viaggiare per l’Italia con la merce al seguito. La maggior parte, però, fece la propria (e altrui) fortuna. Le aziende crebbero. I dipendenti pure. E, con loro, regolarissimi contratti di lavoro, e commercialisti pagati per non evadere. Se nel periodo delle vacche grasse non mancarono i furbetti della microfinanza creativa, la maggior parte di questi imprenditori ritenne di onorare il tacito patto che sentiva di aver stretto col Paese. Non si trattava solo di una piccola rivoluzione economica, ma culturale. Uno Stato che era stato sempre percepito come neoborbonico (nemico, parassitario, profondamente ingiusto) per la prima volta diventò una sia pur instabile culla delle possibilità, uno Stato moderno (o quasi) da trattare come tale.
Peccato che presto l’idillio iniziò a rompersi. Il mercato, certo, tirava meno di prima. Ma una pressione fiscale come al solito asfissiante (a fronte di servizi carenti o inesistenti) e lo spettacolo sempre più osceno offerto dal potere davano la sensazione che si stesse tornando indietro. Iniziò il periodo della contrazione. Molte aziende furono costrette a ridurre il personale. Altre, per non ridurre personale e produzione, cominciarono a evadere o a non pagare i contributi. Per altre ancora ci fu la chiusura o la cassa integrazione. A quel punto non fu raro che molti cassaintegrati chiedessero alle aziende ancora in piedi di lavorare in nero per non perdere il sussidio con il quale, da solo, non sarebbero riusciti a sopravvivere. Tra piccoli imprenditori e dipendenti si creò insomma una nuova antichissima solidarietà anti statale. Cosa veniva, in fondo, dallo Stato? Venivano le leggi a tutela della casta, gli scudi fiscali per i grandi evasori, le forche caudine dell’Agenzia delle Entrate sotto le quali far passare solo chi non poteva permettersi di farlo. Ancora una volta, insomma, i neoborboni. Ed è solo per un’atroce ironia che la controrivoluzione mostri, istituzionalmente, lo stesso volto di chi aveva promesso modernità e liberalismo. Provate a chiedere a uno di questi imprenditori (la maggior parte, berlusconiani della prim’ora) cosa ne pensa oggi del premier.
Intervistati in questi giorni, i dipendenti di ciò che resta di alcune micro aziende del barlettano (la maggior parte donne, pagate pochi euro all’ora, senza alcuna tutela assicurativa o previdenziale) hanno difeso i propri datori di lavoro. Da destra a sinistra, non pochi dei nostri politici ne rimarranno stupefatti, o peggio indignati. Prima di cercare di comprendere, o giudicare, si guardino l’un l’altro (e allo specchio) per scoprire sui propri stessi volti – nel disagio degli operai, e in quello appena meno grave dei loro datori di lavoro – il segno del nemico pubblico.