La città degli impala
di Gianni Biondillo_ tratto da Nazione Indiana
_Sembra un destino, questo mio arrivare ogni volta di notte, in Africa. Intuisco il Lago Vittoria dal punteggiare delle rare luci notturne, poi finalmente sbarco. Aeroporto di Entebbe, antica capitale ugandese, dove tutt’ora risiede il presidente della repubblica. Cambio i miei euro in scellini e mi si riempie il portafogli di pacchi di cartamoneta consunta, indice di una inflazione galoppante, a due cifre. Dappertutto, nella sala d’accoglienza dell’aeroporto, campeggia una pubblicità governativa che chiede agli ugandesi, per lo sviluppo della nazione, di pagare le tasse. Tutti. Trovo la cosa sinistramente familiare.
L’autista che ci porta verso Kampala guida al contrario. Anche il voltante è dalla parte sbagliata. Basta questo, in fondo, per raccontarci di un secolo di protettorato inglese e di una influenza culturale del Regno Unito mai sopita. Arriviamo nella capitale in poco più di mezz’ora, la città è desertica. Solo le luci di alcune banche disegnano lo sfondo. Tutto pare in pace. La mattina appresso, come è ovvio, tutto verrà smentito.
Perché sono qui? Per colpa di un amico. Gianluca Migliavacca, guida e coordinatore milanese di Trekkingitalia, che da anni sperimenta nuovi modi di intendere l’escursionismo, la scoperta, il turismo sostenibile. Assieme a Fondazioni4Africa ha sviluppato un progetto di intercultura che vuole coinvolgere un paese uscito da pochi anni da una guerra intestina, l’Uganda. Da qui, dalla capitale, partiremo alla volta di Gulu, la seconda città della nazione, nel nord del paese, dove la guerra ha macinato maggiore distruzione. Conosceremo le ONG italiane che operano sul territorio e incontreremo gli abitanti dei villaggi, che raggiungeremo a piedi. Mangeremo con loro, dormiremo nelle loro capanne.
Per ora, in ogni modo, il programma prevede un trek urbano. Attraverseremo Kampala a piedi, quasi fosse una sorta di addestramento a ben più impegnativi percorsi. D’altronde sembra, ora che è mattina e la città s’è svegliata, che non ci siano alternative. Il traffico di Kampala lascia senza fiato. Il fiume di lamiere sembra invadere tutto, immobile e caotico. Gli unici che riescono a farsi spazio, spesso con manovre davvero azzardare, sono i boda-boda. Potremmo tradurlo con mototaxi: ragazzi muniti di motociclette cinesi che agli angoli delle strade aspettano, due caschi in mano, che il cliente frettoloso si accomodi sul sedile posteriore. Ammetto che la tentazione è forte, ma noi oggi si fa tutto a piedi, come da programma.
Si parte dal Museo Nazionale, che ha tutta la desolazione di certi musei del sud Italia, incapaci di valorizzare il proprio patrimonio. Solo le capanne delle varie etnie del paese, ricostruite all’esterno del museo, riescono ad affascinarmi. Poi riprendiamo il cammino, attraversiamo una grossa arteria viaria e ci inoltriamo verso la Makerere University, la più antica e prestigiosa dell’est Africa. Ha tutto l’aspetto di un campus extraurbano, tipico della tradizione anglosassone, anche se ormai la città l’ha raggiunta e inglobata. La sede della Makerere University, non ostante una manutenzione pessima, ha una sua dignitosa monumentalità, ma è una specie di murales naif ad attirare la mia attenzione. Si vede un uomo che cerca di far entrare in macchina una ragazza. “Have self worth” dice la scritta. E poi prosegue: “Care about tomorrow.” Ci pensa Lilian, che in questa università s’è laureata, a spiegarci l’arcano. “Rappresenta un Sugar daddy.” In buona sostanza sono uomini in là negli anni che irretiscono le giovani studentesse promettendo loro soldi e carriera in cambio di “attenzioni”. Cose che in Italia, ovviamente, non accadrebbero mai.
Lasciamo il campus e ci dirigiamo verso il centro, per quanto questa affermazione lascia il tempo che trova. Kampala – La collina degli impala, tradotto dal luganda, la lingua della etnia più numerosa in questa regione – non ha quel disegno urbano definito tipico delle città di fondazione italiane o francesi. Si adagia su un sistema di colline (sette, come prevede il mito) e segue l’orografia adattandosi ad essa, senza forzarla. La città è un susseguirsi di vialoni asfaltati, cantieri, banche, nuovissimi grattacieli che campeggiano al colmo di alcune colline e baraccopoli tortuose, strade in terra battuta, fogne a cielo aperto. Il censimento, vecchio di un decennio, parla di un milione e mezzo di abitanti. Ma non ci crede nessuno, saranno almeno il doppio. Se inoltre consideriamo che sul lago Vittoria esiste la massima concentrazione di popolazione rurale africana ci vuole poco a capire che Kampala sta studiando per diventare una immensa metropoli senza forma. Luigi Snozzi, l’architetto ticinese a cui è stato dato l’incarico del piano urbanistico me lo conferma: “stiamo cercando di delimitare la città, con una enorme circonvallazione che decongestioni il traffico urbano e che serva un sistema di città satellite a coronamento.”
A camminarci, in questa città, mi pare una pia illusione. Girare per Namirembe road o Luwum street, l’area commerciale di Kampala, è un’esperienza di prossemica estrema. Lo spazio pubblico, lo spazio sociale si comprimono nello spazio personale, intimo. In pratica c’è tanta di quella gente – che vende, compra, scambia, passa, discute, scarica, bighellona – che pare di stare in un gigantesco vagone metropolitano nelle ore di punta, oltrepassare la strada pare addirittura impossibile. Persone, animali e merci, dappertutto. Merci cinesi, come è ovvio. La Cina ormai s’è comprato l’intero continente. Ma anche merci indiane. Data l’influenza coloniale inglese, da sempre in Uganda ha prosperato una numerosa comunità indiana che fu cacciata ai tempi della dittatura di Amin Dada e che col governo di Museveni ha trovato di nuovo rifugio. “I cinesi comprano materie prime e ci vendono prodotti finiti” mi dice Mark, “gli indiani investono”. Il mercato di Kampala, così, mi appare come il territorio dove si stanno facendo le prove generali della prossima guerra commerciale delle due potenze economiche emergenti.
La prossimità rende osservatori di minuzie. La pletora di acconciature femminili sembra infinita, le tipologie inesauribili. Non solo capelli stirati, di foggia “occidentale”, ma anche code, tortiglioni, treccine. Spesso colorate di viola o striate di rosso. “Sono quasi tutte extensions” mi fa notare Dario, che lavora in Zambia da un po’ di anni. Capelli artificiali, estensioni sintetiche, che le donne ugandesi, e africane in genere, sfoggiano con naturalezza, vezzose. Ogni tre, quattro mesi si sottopongono ad una nuova seduta dal parrucchiere che può durare anche un intero pomeriggio. Il primo simbolo di emancipazione economica è proprio l’acconciatura; solo le donne più povere, o quelle che ho incontrato nei villaggi dell’acholiland, non le portano, lasciando la capigliatura corta (o acconciata con pettinature tradizionali).
Giriamo attorno ad una collina residenziale piena di verde, dove troneggiano lo Sheraton ad altri alberghi di lusso, superiamo uno spaventoso vuoto urbano trasformato in una bolgia di automobili parcheggiate, taxi e minibus e ci inoltriamo per Jinja road. Una donna vestita di seta bianca arringa al traffico, bibbia alla mano. Il governo ugandese si fregia di aver abbattuto considerevolmente la percentuale di cittadini che hanno contratto l’HIV dal 30 % degli anni ’90 al 4,1% attuale, grazie ad una politica dell’astinenza e della monogamia fin troppo manichea, ma Padre Tarciso Pazzaglia, incontrato nella sua missione di Kitgum, mi dice di non far troppo caso alle statistiche. Si possono piegare all’occorrenza, in funzione dell’utilità politica. I malati di AIDS sono ancora molti, insomma, troppi. Di certo la nuova campagna omofoba – portata avanti da predicatori protestanti legati a gruppi fondamentalisti nordamericani con la complicità del governo ugandese – che vuole rendere l’omosessualità reato con condanne che vanno dall’ergastolo alla pena capitale, sta facendo ricadere un paese appena uscito da una guerra interna in un nuovo baratro. A pagarne le spese sono già molti attivisti gay ugandesi. Fra questi David Kato Kisule, ucciso lo scorso anno nei pressi della sua abitazione.
Sento uno spostamento d’aria, alzo gli occhi: sulla mia testa volteggia un marabù. Sono ovunque a Kampala. Uccelli enormi, alti fino ad un metro e mezzo, con una apertura alare spaventosa. Cicogne voraci e sgraziate, preistoriche, che saltabeccano di frasca in frasca, neppure fossero graziosi passerotti. Ogni volta che si appoggiano alla chioma di un albero, la fronda si piega sotto il peso dell’animale, sembra cedere. Kampala è un po’ come quei rami cedevoli che devono sopportare un carico di vite spropositato. Bisogna essere elastici per riuscirci, e i marabù stessi, consapevoli del danno, sanno comunque quando posarsi, e dove.
Siamo ormai nel quartiere di rappresentanza istituzionale. Vediamo sfilare una dietro l’altra ambasciate, il Parlamento in marmo bianco, il Teatro Nazionale, sedi di nuove banche e cantieri di grattacieli multifunzionali. Tutto attorno baracche e mercatini improvvisati. La meta del trek è Garden City, il nuovo centro commerciale frequentato dalla borghesia kampalese. Qui non c’è ressa, ci si muove agevolmente fra i soliti ristoranti fusion, i centri di telefonia mobile o i negozi d’abbigliamento (“Luigi”, si chiama uno di questi, come se bastasse un nome italiano a rendere elegante la merce). Alcuni bambini arabi hanno sul volto i colori della bandiera dei ribelli libici. Meglio non dirlo al presidente Museveni, “caro amico” di Gheddafi. Un fuoristrada giapponese antistante al Casino Simba ha sulla ruota di scorta una scritta: “Jesus, I trust in you.” Un Gesù efebico mi benedice. Domani partiamo per Il nord.