Allegria di naufragi
_Una nota critica sul romanziere lucano Peppe Lomonaco e sul musicista Damiano D’Ambrosio, suo conterraneo e compositore di un bandistico “Canto delle pietre”.
di Marzio Pieri_tratto da Retididedalus
Montescaglioso. La Basilicata, i Sassi di Matera. Di Montescaglioso è uno scrittore senza fronzoli, Peppe Lomonaco, e un dono di CD da lui fattomi mi ha fatto conoscere musiche di Damiano D’Ambrosio, nato dalle medesime parti, che insegna da venti anni al Cherubini di Firenze. Peppe Lomonaco non dico sia stato una mia scoperta, ebbi solo ventura di conoscerlo, per caso (venne a trovare a Parma, quando vi risiedevo prigioniero, un mio vicino di pianerottolo, impegnato nella edilizia, e mi porsero una sua raccolta inedita di racconti materani, per la quale sùbito delirai scompisciandomi; Peppe ha un dono naturale, infallibile, di comicità disvelante, liberatoria) e la mia parte fu di incoraggiarlo. Ci siamo rivisti un paio di volte, non è detto che ci reincontriamo (per me un viaggio fino alla Basilicata equivale a un tragitto astrale fino al pianeta di Dune) ma lo scrittore è cresciuto in franchezza senza perdere il suo dono originario, prezioso di novellatore popolare. Non intendete il bardo d’osteria, il dialettale che trova unica forza nei suoi limiti. Peppe, nel suo parlare familiare, si serve della sua lingua, esotica ai miei orecchi come le voci di un bantu o di un cinese, ma (l’una cosa è funzione dell’altra) scrive una lingua italiana immune da mimetismi, dialettismi e solecisterie. Absit iniuria nomine, potrebb’essere un deamicis. Ah, però, quella istoria, forse una leggenda ipometropolitana, del re Vittoriemmanuele il terzio che arriva in visita e unica preoccupazione dei Beatificati è preparargli un micidiale cesso comodo che alla fin delle fini sbatte la merda sull’augusta e mostacciuta faccia. La si legge come il Tamburino sardo (il re, anche quello che sabaudescamente venne prima, ma il re è sempre il re, rimedia anche lì, con gianfordesca solennità, una figura di merda). Al Cherubini (due passi dalla Accademia del Davidde di Michelagnelo, un tempo anche dalla università in San Marco affronte del convento del Beato Angelico) imperversò legioni di pizzettiani, vi fu deriso il Dallapiccola profeta del dodecafonismo, vi ascoltai Gavazzeni, per la prima volta, eccitante nel presentare il Verdi di Toscanini, vi ascoltai Ugo Duse, musicologo intelligente e noiosissimo, (quasi un obbligo, una camicia di forza, per chi faccia la doccia all’università, anche allora) oggi si risente (e, a mio parere, si gode) di quella libertà di poter scegliere fra le tante eredità musicali lasciateci in consegna dagli antichi. Non costringetemi alla vassallata di dire: Schoenberg è antico. Siamo tutti figliuoli, questo sì, di Strawinsky, e di Picasso, ’sti nepoti del Cavalier Marino. Prendere il proprio bene (e trasformarlo) dovunque lo si ritrovi. A un disco il D’Ambrosio consegnò il suo Canto delle pietre, mi correggo: dei Sassi, dei Sassi di Matèra, dove un recitante (in lingua materiale e in versione italiota) anticipa le successive stazioni di una orchestra compositivamente raffinata che, dopo un poco, riesci a dimenticare come tale e a consegnare alle sue forme vere: la musica per banda. Una meraviglia, le bande, sempre; in particolare quelle del sud, che davvero si trovano ad essere, spesso, le uniche occorrenze disponibili ‘in diretta’ delle voci della musica. La banda… ha anticipato questa nostra felice condizione di ascolto ‘alla pari’. Aggiungi che i sonatori della banda non lo fanno per professione, non fanno i lavativi col sindacato. Una volta (mi pare molte vite fa) ero con mio padre e un suo amico (un poco losco, catacombale; e giallo come il rigogolo) sotto il campanile di Giotto, fra il Battistero dalle belle porte, la massonicissima Misericordia (gli incappucciati neri) e la loggia del Bigallo; e fummo raggiunti dal suono, che si avvicinava dal fondo della via che mena alla Piazza dei Signori e a Palazzo Vecchio, della banda cittadina. Riconobbi (ero fresco dell’opera al Comunale, con Del Monaco e la Tebaldi) il “Dio terror della bufera, Dio sorriso della duna” della tempesta difronte a Cipro, prima che Otello vi sbarchi e lanci il suo magnetico “Esultate!”, e l’emozione fu tanta che mi misi a ridere come uno scemo. Mio padre colse l’occasione per farmi gli occhiacci alla Nino Bixio (da leggersi come tirabusciò) e darmi uno scappellotto. Ero la sua croce: sognava di aver prodotto, suo primogenito, un asso e gli era nato invece il due di briscola. Per questo ho scritto scappellotto ma avrei potuto anche scrivere mi diede una briscola. Ora, Lomonaco è come la banda: mette una matta allegria. State sicuri: non corre rischi d’esser pubblicato dagli Adelphi, che per meno di una shoha al mese non apron bottega. Mai macello riuscì più redditizio.
Questa allegria (che può farsi allegria di naufragi, che da Calabria a Giappone non mancano mai) è tanto proprietà costitutiva dell’epica prosa di Peppe che sono occorso in un buffo incidente, alla ricezione del suo ultimo libro (È stata una lunga giornata. Storia d’amore e di fabbrica Nell’autunno caldo del 1969. Romanzo). L’editore è di Montescaglioso (L’urlo del sole) e il costo è di 10 euro. Ogni pagina scritta ne vale almeno 100. Amici, ricevo libri di continuo; proprio mentre scrivo mi son dovuto interrompere per scendere dal postino che mi ha recato la più bella sorpresa: Il poeta giudice, scritti danteschi di Nino Borsellino, uno dei patriarchi ‘buoni’ della antica università, mio maestro ed amico. Aragno editore. Lo so, lo so; il solo nome di Dante vi mette in iscompiglio; e a dirvi: scritture su Dante vi piglia lo sturbo, chissà che Borsellino, questo straordinario affabulatore che ha traversato l’università senza macchiarsi le piume, non possa farvi ricredere. (Parentesi: quanto di narratore popolare c’è in Dante, tanto che entrò in proverbio presso le femminette che se lo mostravano a dito; e quanta banda c’è in quello squillare delle terzine andanti concatenate).
Buffo, dicevo, incidente: il romanzo di Peppe lo ebbi mentre ero sotto fino ai capelli in opere in scadenza, così gli diedi una prima scorsa aerea e gli mandai due righe dicendo: sempre te, sempre lieto e ridanciano.
Non l’ho più sentito e ci sarà rimasto male. Ché questa storia di fabbrica e amore è una storia, in quanto storia, tristissima. Due ragazzi, lei è malata di epilessia e si dissangua nel parto. Il marito-padre bambino muore in una settimana, in un incidente che tutto fa credere un suicidio. L’ultima pagina ci svela che a scriverne è il figlio. “Annina non c’è più. Io non ho più Annina. Annina è in una cassa di legno, sotterrata. Dopo il parto è resistita due giorni. Annina non è più con me. Io ora sono solo…” Fenesta ca lucive e mo nun luce. Ho un disco (vinile, graffiatissimo) dove il baritono Ettore Bastianini, astro degli anni Cinquanta, ammalato di cancro, canta, sul piede di partire dal Giappone dov’era in tournée, questa magnifica, luttuosa canzone. Non è esprimibile come negro suona: “mo duorme co li muerte addormentata”.