Se il capitale finanziario mette sotto sequestro interi Paesi_3^parte
di Antonino Contiliano_
In questa situazione, scrive Carlo Formenti, “partiti e sindacati socialdemocratici vedono svanire sia il proprio potere di rappresentanza degli interessi dei lavoratori, dei quali controllano sempre meno gli umori e comportamenti, sia la capacità di ottenere sicurezza in cambio di moderazione, a mano a mano che la crisi induce stato e padroni a stringere i cordoni della borsa. Così la crisi […] e l’indebolimento delle classi lavoratrici […] spianano la strada al più radicale e rapido processo di ristrutturazione che il capitalismo abbia messo in atto nel corso della propria storia, accompagnato e sostenuto dalla svolta neoliberista che i governi di tutto il mondo occidentale mettono in atto a partire dagli anni Ottanta […] catalizzatori del cambiamento sono soprattutto due fattori: il processo di deregolamentazione/globalizzazione dei mercati finanziari e la rivoluzione tecnologica innescata dal diffondersi del personal computer e della loro successiva messa in rete attraverso Internet e il Web. Decentramento produttivo, terziarizzazione e finanziarizzazione dell’economia, impresa a rete, frammentazione e individualizzazione del lavoro, smaterializzazione dei prodotti, migrazione della produzione di valore nel settore ICT, centralità della produzione di informazioni e conoscenze […] hanno provocato in tempi brevissimi quella che può essere definita senza esagerazioni una catastrofe del lavoro”.[xii]
Ora se la catastrofe del lavoro ha reso felice lo sfruttamento capitalistico ad libitum, quale “aleatorietà” potrebbe aprire una breccia mortale nel modello e nelle sue crisi ricostituenti se non quel “clinamen” dei movimenti di base che deviano la caduta dalla linea retta e si muovono come una “moltitudine” sociale transnazionale diagonale, perseguendo l’orbita acapitalistica dei beni comuni e del “comune” del comunismo di nuova generazione?
Esposta ai processi temporali e politici ad un tempo, che ne fanno venire a galla contraddizioni, antagonismi, aggiustamenti, ipotesi di soluzione e superamento, la storia odierna e la progettualità avvenire ci mette ancora davanti le profetiche analisi di K. Marx. E sono quelle analisi che coniugano politica, scienza e filosofia a partire dalle indagini che sviscerano l’economia e la critica dell’economia politica capitalistica, oggi parassita delle forme del simbolico e delle forme di vita della soggettività (non si producono solo merci-oggetti-immagini-significati, si producono anche i soggetti del consumo). Non è in gioco solo la contraddizione tra forze produttive (nuove, le “creative”) e i rapporti di produzione dislocati, come si dice oggi, sulla rendita. In gioco, infatti, come ha previsto Marx nelle sua opera matura e negli “appunti” dei “Grundrisse”, anche se ai suoi tempi non correvano le “crisi dell’indebitamento”, è sempre il “modo di produzione” capitalistico. La macchina di potere e dominio cioè che funziona interamente sullo sfruttamento delle relazioni sociali (ieri sul versante dell’industria hardware, ora su quella software e/o la coesistenza dell’una e dell’altra, a seconda del contesto in cui opera).
Ecco perché le analisi di Karl Marx, come si legge seguendo, per esempio, l’opera di Etienne Balibar o di Paolo Vinci o di Carlo Formenti o di Christian Marazzi (solo per citare alcuni fra gli altri autori del tempo presente, che se ne sono interessati).
Altri lavori consistenti e frutto di una riflessione collettiva e a più voci – Alain Badiou, Judith Balso, Bruno Bosteels, Susan Buck-Morss, Costas Douzinas, Terry Eagleton, Peter Hallward, Michael Hardt, Jean-Luc Nancy, Toni Negri, Jacques Rancière, Alessandro Russo, Gianni Vattimo, Slavoj Žižek – sono invece gli scritti raccolti nel volume “L’idea del comunismo” (2011).
Quello che emerge è che il cuore dell’analisi marxiana – la valorizzazione e lo sfruttamento in funzione del plusvalore e dei profitti – non ha finito di pompare. La sua circolazione regge piuttosto bene nonostante le profonde modifiche e innovazioni dell’assetto del capitale. Sebbene le attuali cicliche crisi economiche e finanziarie del capitalismo immateriale non hanno lo stesso iter temporale di quelle del XIX (individuate da Marx allo scadere di ogni dieci anni: 1837, 1847, 1857, 1866…), tuttavia non hanno cambiato natura. Il lupo perde il pelo, si dice, ma non il vizio.
Ancora oggi (XXI) il costo delle crisi del capitalismo finanziario e delle borse, dell’indebitamento (privato e pubblico) o dello sfascio sociale e ambientale planetario, è legato alla voracità dei saggi di profitto e di reddito e a danno dello spazio-tempo dell’esistenza sociale della maggioranza delle persone. Ma sono le crisi del capitale cognitivo e relazionale libero-scambista che, pur avendo messo a lavoro e valorizzazione persino il general intellect (sapere sociale), sottoponendone la creatività a ritmi accelerati dello sfruttamento anche dei sentimenti e delle immagini (“brand”), sono ancora leggibili alla luce della chiave dell’astrazione e del denaro (la subordinazione alla legge del “valore”) individuata da Marx. Il fatto che, rispetto a quelle precedenti, siano molto più ravvicinate, insidiose e invasive, in quanto sfruttano l’informazione e il maneggio robotizzato dell’informazione e dell’IA (intelligenza artificiale) e dei sistemi integrati, nulla toglie alla potenza esplicativa dell’analisi marxiana.
Il potere del capitale e di chi ne maneggia le leve se, grazie alla nano-scienza e alla tecnica sofisticata, incorpora la gran parte della potenza autonoma dell’attività lavorativa e della produzione di beni e servizi, non ha tuttavia smesso di piegare il lavoro, la vita e le stesse forme di vita alla logica espropriatrice della valorizzazione scambista che lo caratterizza. Anzi ibridano tempo di lavoro e tempo di vita, “plusvalore assoluto” e “plusvalore relativo”, grazie alla pervasiva informatizzazione del lavoro e alla retificazione delle relazioni individuali e sociali, è diventata più estesa e profonda rispetto all’epoca del vecchio fordismo. I suoi tentacoli si sono infatti deterritorializzati, esternalizzati, terziarizzati, fluidificati e fatti potenti fino a più che raddoppiare il feticismo delle relazioni monetizzate, in quanto ha creato anche il parallelo mondo virtuale del cyberspazio con i suoi recenti sviluppi in second life et alia (facebook, twitter, etc.); quel mondo parallelo cioè che, permettendo insieme potenza creativa e sfruttamento del lavoro libero e gratuito, l’economia del “dono”, che gira in rete e viene catturato senza essere neanche pagato, non ha disincentivato le bolle tecno-finanziario e borsistiche della new economy.
Così, per esempio, le crisi del 2000, 2005, 2008 e 2011 (XXI) potrebbero essere il rovescio di quelle del XIX e XX per il fatto che la crisi è determinata dalla finanziarizzazione esponenziale dell’economia e dal credito bancario e borsistico fluido e mobilissimo senza riguardo alcuno ai bisogni reali, lì dove, invece, la finanza dell’economia politica precedente era legata sì alla moneta ma, sebbene in ambienti concentrati e protetti per l’espansione, provvedeva pure alla produzione economica di beni d’uso, utili a tutta la comunità, e di certa durata. Non prevaleva di certo il consumismo delle immagini e dei marchi o degli stili di vita. I luoghi avevano stabilità e riconoscibilità, e una certa condivisione del controllo reciproco (tra capitale e lavoro) permetteva sia la conflittualità lavorativa tollerata, che una soglia distributiva crescente e la garanzia del profitto stesso come espropriazione e appropriazione privata, lì dove invece oggi i poteri della produzione sono organismi non statali (Fm, Bm, Wto, G8/20, etc.) e, deresponsabilizzati come la stessa tecno economia, sfuggono a qualsiasi controllo dei classici poteri rappresentativi e delle organizzazioni sociali, sebbene la ricchezza sia sempre prodotta socialmente e cooperativamente.
La causa scatenante delle crisi rimane tuttavia la stessa: i profitti, le rendite e le perdite che non combaciamo mai con le aspettative onnivore del capitale. Il pericolo globale oggi è costituito più che da fenomeni di scarsità o di offerta da un eccesso di mercato che cortocircuita produttività e creatività immateriale. Praticamente illimitato e al tempo stesso impastoiato, il mondo della nuova economia capitalistica, che non ha dismesso le vecchie forme, produce potenza e impotenza, propria e altrui. La potenza dei flussi del mercato, nonostante la pratica (attuale) dell’indebitamento dei soggetti (privati e pubblici), si blocca per saturazione e insolvenza dell’offerta. Dall’altro, poiché deve fare in modo che l’autonomo potere creativo della ricchezza – che le rimane esterno in quanto coincide con la persona stessa dei produttori (prosumers) e la loro libera cooperazione gruppale e collettiva –, non abbia il sopravvento, negando completamente il mercato liberista con l’avvio del comunismo – l’abolizione totale della proprietà individuale (come valore e merito) per la giustizia e l’eguaglianza radicale –, rimane impigliato nell’impossibilità di dominare le stesse biforcazioni conflittuali che animano la creatività polimorfa dell’economia del simbolico e dei linguaggi.
Il comunismo – che eliminerebbe la contraddizione tra produzione sociale della ricchezza e la sua appropriazione in proprietà o proprietà privata (vecchio tipo e/o quella che ora si guerreggia anche nella forma privilegiata del capitale finanziario e del diritto tutelato dalla brevettazione e dal copyright) – dal canto suo sa perfettamente però che il pensiero legge prima di tutto la realtà nel linguaggio; e che se il problema vero è poi quello di scendere dal linguaggio nella realtà, e nella realtà dell’uomo che è “l’insieme dei rapporti sociali”), è anche vero allora che la semplice eliminazione della contraddizione economico-sociale (che contraddistingue la produzione capitalistica) non è sufficiente per agire un progetto antropologico alternativo che si limiti alla presa del “palazzo d’inverno”.
Sì che le crisi, anche oggi – fase che privilegia l’espropriazione del lavoro vivo/general intellect delle soggettività sociali, l’unica sorgente immateriale della ricchezza prodotta –, si presentano in difesa e all’attacco con una potenza d’urto formidabile, specie dopo la messa fuori gioco dell’organizzazione dell’autonomia del politico e dello Stato sovrano. Fuori da ogni controllo democratico, pure nelle modalità della maggioranza rappresentativa, e di cui, una volta, erano garanti le vecchie istituzioni, il capitale e i capitali non conoscono frontiere e confini di limitazione per contratti ineguali e rapporti di forza che, sfruttando sine die la formazione e l’immateriale, continuano a privilegiare la logica dei super profitti e della valorizzazione che, racchiusa nella forma materiale del denaro, è più e meno di un equivalente generale, cui invece è stato sempre parametrato. L’equivalente generico, il denaro (cartaceo, elettromagnetico, virtuale, etc.), trasforma sì la realtà e la vita in pura rappresentazione e la pura rappresentazione in realtà vincolante, ma è anche vero che non può giocare alla stessa maniera con il tempo che attraversa e taglia la soggettività degli uomini storicamente condizionati. Il condizionamento non è meccanica deduzione però di astrattismi puramente formali, né tanto meno determinismo controllato dagli algoritmi algebrici e informatizzati della finanza creativa. “Il denaro […] è la forma che il valore assume nel rapporto tra capitale e forza-lavoro, il che tra l’altro significa che in Marx, il denaro è, nella sua essenza, forma del valore, e non equivalente generale come l’ortodossia marxista (specialmente in Francia) ha sempre sostenuto. […] Se questo stesso denaro, per ipotesi (politica), non comanda il lavoro vivo (la soggettività in actu), esso funzionerà da denaro come denaro, reddito che acquista beni salario che però riproducono una forza lavoro relativamente autonoma (autonomizzata) rispetto al capitale. […] Il tempo che intercorre tra la messa al lavoro della forza-lavoro e il versamento del salario è ciò che decide di questo divenire equivalente generale del denaro creato “dal nulla”, ossia sulla base di nessun denaro-merce pre-esistente”[xiii].
Sicché ritornare al pensiero Marx e al progetto comunista, conferma Paolo Vinci (che, ripercorrendone il cammino delle opere, riporta la “darstellung” – rappresentazione della genesi dei processi – di Marx alla “Fenomenologia dello spirito” di Hegel), come già ha invitato pure Etienne Balibar (che ricostruisce invece il pensiero e la filosofia del “revenant” di Treviri collegandone i nuclei maturati nelle diverse puntualizzazioni fatte e poi enucleate ne l’“Ideologia tedesca”, i “Manoscritti economico-filosofisici”, le “Tesi su Feuerbach”, “Il Capitale”, i “Grundrisse” o “Lineamenti fondamentali di critica di economia politica”), non può essere solo una curiosità o un fare accademia.
Il loro è piuttosto un invito politico-culturale esplicito e una necessità scientifico-politica teorica e pratica inevitabile di ripresa di analisi serie, se si vuole capire l’attuale matassa delle malefatte capitalistiche. Riprendere il percorso e gli orientamenti delle sue analisi e delle sue indicazioni profetiche, per ridare fiato a una lotta politica antagonista, è allora più che vitale per approfondire e aggiornare l’impianto sociale e singolare dello “spirito” comunista individuato dal pensatore tedesco.
La lotta, fra l’altro, vede che il numero degli sfruttati e dei poveri aumenta in ogni direzione, mentre il potere e la ricchezza del “Signore” dall’altro lato si concentrano sempre di più nelle sue mani grazie al processo di valorizzazione che non ha smesso né di oleare l’economia capitalistica (vecchia e nuova), né di controllare i servi, determinarne i “contenuti storico-sociali” e gli stessi valori dell’immaginario collettivo. A ciò plaudono infatti le politiche plebiscitarie-populistiche autoritarie e securitarie che, messe in atto per uscire dai vicoli ciechi, mirano a condizionare i comportamenti delle stesse soggettività individuali e collettive che vivono nella globalizzazione del pensiero unico, e del suo “Sorvegliare e punire” (Michael Foucault).
Il processo della valorizzazione cui è sottoposto il lavoratore, ieri come oggi, si legge ne “La forma filosofia in Marx” di Paolo Vinci – intento a individuare la consistenza della “struttura” materialistica del pensiero di Marx nel rovesciamento della “darstellung” dello “Spirito” della filosofia hegeliana –, è insieme anche un processo di autovalorizzazione del capitale. L’operaio infatti è considerato come una sua parte e una forza astratta da manipolare secondo esigenze, forme e tempi diversi. Un sistema cioè di per sé instabile e soggetto anche a cambiamenti di stato con interventi mirati (si pensi sia alla flessibilità precarietà del lavoro che all’elasticità delle politiche creditizie e monetarie e ai tassi d’interessi (al baso o al rialzo), che giocano sempre per il rilancio del capitale, e ciò sia che i prestiti interessino singoli o intere società stesse (in via di sviluppo o per uscire dalle crisi). Né neutralità, né disinteresse giocano ruolo alcuno!
In contrapposizione con la semplice economia politica l’analisi di Marx mostra “che il capitale non è semplicemente uno strumento necessario alla realizzazione del processo produttivo, ma consiste di determinati contenuti storico-sociali […] Marx insiste sulla natura del rapporto sociale di produzione che si sviluppa a partire dall’incontro fra il capitale e i possessori della forza lavoro e sul fatto che, all’interno di questa relazione, è il lavoro umano a costituire la fonte del valore e del plusvalore. […] L’ergersi del capitale a soggetto prepotente del processo di produzione, quella che Marx chiama ‘sussunzione reale’, consiste in una rivoluzione costante delle condizioni produttive che coinvolge tanto la forza lavoro, quanto i mezzi di produzione” [xiv]. È la sussunzione che, con il sistema delle “macchine”, mescolando “plusvalore assoluto” e “plusvalore relativo” (metro che mette sempre il tempo in rapporto alla produttività del sistema), arriva fino alla cattura dello stesso “general intellect” – il sapere sociale – come mezzo e “modo di produzione” sotto le direttive (sempre) della legge della valorizzazione capitalistica per estorcere pluslavoro e plusvalore. Il “general intellect”, incorporato nelle tecnologia high tech della rete integrata e controllata dalla finanza mondiale delle banche, delle borse e dei mercati finanziari del capitalismo “comunista”, non ha subito sorte diversa.
Siamo così davanti a un Marx che non può non essere riattualizzato dal momento in cui, nell’evoluzione del sistema capitalisitco, il passaggio allo sfruttamento della forza cognitiva e relazionale dei soggetti, e il permanere della legge del valore di scambio in ordine alla produzione degli oggetti e dei servizi, quanto delle soggettività, fin dalla base della loro stessa potenza di forze psicofisica unitaria, non è né naturale, né un ordine divino; e se il passaggio continua invece a vampirizzare lavoro sociale e a colonizzare menti e corpi di qualsiasi latitudine, totalizzandone il tempo di vita in tempo-denaro, allora la lotta contro il vampiro deve includere prima di tutto lo sdoganamento del tempo soggettivo del lavoro vivo autonomo dall’occupazione simulacrale dell’immaginazione temporale, che gli è propria.
Le forze intellettuali, linguistiche emotive e relazionali (“general intellect”) che ancora oggi, cioè nel tempo dell’economia capitalista immateriale, sono sempre esposte all’espropriazione del lavoro sociale e alla sua appropriazione privata, non necessariamente debbono sottostare però a vettori deterministici e meccanici di un’economia di scambio che sembra aver soppiantato lo stesso valore d’uso del lavoro e del rapporto dell’uomo con la natura, almeno di quello che rimane e sottratto ai predoni capitalisti. Contraddizioni e paradossi sociali e logici, vecchi e nuovi, sono lì a dimostrazione che nessuna naturalizzazione è in funzione.
Il paradosso che tiene la proprietà privata legata allo sfruttamento del sociale, e che coniuga transitorietà e permanenza nella contingenza delle sue forme, non elimina certo la contraddizione e le contraddizioni del capitalismo. A star fermi al teorema di Gödel sull’incoerenza e completezza di un sistema e sul suo rovescio dell’incompletezza e coerenza del sistema, rimane aperta sempre la possibilità di un “clinamen” della rivoluzione come evento dell’“Idea” di comunismo di nuova generazione. Quella che, per esempio, Alain Badiou, rileggendo la filosofia di Platone (“fin da Platone in poi, un’idea del genere è l’Idea del comunismo”[xv]), ha definito con “L’ipotesi comunista”, “comunismo della molteplicità” e idea degna di un vero filosofare.
Sotto l’idea del comunismo – ripresa e riproposta da tempo dal filosofo francese Alain Badiou nei suoi lavori di filosofia politica teorica e pratica (davanti al fallimento della depoliticizzazione del “pensiero unico” e del modello liberistico che ne ha incarnato l’azione devastatrice) –, fra l’altro, si sono confrontati diversi interventi autorevoli, che, raccolti in volume, poi sono stati pubblicati a cura di Costas Duozinas e Slavoj Žižek (Ediz. DeriveApprodi, Italia 2011. “Alfabeta2” – Mensile di intervento culturale –, per inciso, nell’estate 2011, poi, con l’apporto di altre firme, riprende pure il confronto sull’idea del comunismo).
Il confronto, promotori in prima istanza Badiou e Žižek, è avvenuto in un apposito seminario in Inghilterra. Precisamente i lavori del seminario hanno avuto luogo al Birbeck Istitute for the Humanities di Londra nel marzo del 2009. Il contesto era quello che, a seguito delle grandi crisi (specie quella del 2007/2008) del capitalismo neoliberista, da una parte vedeva la fine del trionfalismo della “fine della storia”, e dall’altra la ripresa dei movimenti di sinistra specie in America Latina, Cina e Africa con forme di antagonismo, lotte e configurazioni nuovi rispetto a quelle del Novecento. Una costellazione di fatti ed eventi cioè che vede anche l’interazione dei movimenti che mettono sul tappeto l’ideologia della democrazia moderna nel suo rapporto con l’eterogeneità e l’irriducibilità dell’“Altro” ai paradigmi della razionalità classica e della sua modernizzazione omologante.
L’Unione Europea – scrivono Costas Duozinas e Slavoj Žižek nell’introduzione al volume citato – ben lungi dalle promesse di solidarietà e giustizia sociale, è un fossato di disoccupazione, povertà, austerità e discriminazione in cui affogare la classe lavoratrice e la popolazione civile. “Nel 2008, il salvataggio delle banche per la bellezza di un trilione di dollari ha socializzato le perdite del casinò del capitalismo neoliberista, chiedendo alla moltitudine di pagare per le speculazioni degli hedge funds, per la vendita dei derivati e per un sistema economico basato sul consumo e sul debito. Il socialismo per le banche e il capitalismo per i poveri è diventato il modus vivendi degli anni Duemila. […] A questo punto di svolta cruciale, nel quale tutte le scommesse sull’uscita dalla crisi sono state lanciate e le migliori e le peggiori si trovano a stretta prossimità, l’idea di comunismo ha la potenzialità di rivitalizzare il pensiero teorico e rovesciare la tendenza alla depoliticizzazione del tardo capitalismo. […] Il comunismo aspira a portare libertà e uguaglianza. La libertà non può nascere senza uguaglianza e non esiste uguaglianza senza libertà”[xvi].
E su questa relazione di biunivocità l’autore de “Il Capitale” non aveva certo dubbi, sebbene, per ovvie ragioni di tempo e mancanza di dati, non ha potuto lavorare e argomentare sulla tipicità delle crisi che ci riguardano da vicino nel mondo interconnesso di Internet e dell’economia web. E del resto lo stesso Marx, di fronte alle richieste di Vera Zasulic circa il senso comunista della “comune rurale” nella Russia del 1881, rispondeva che la “legge tendenziale esposta nel Capitale non si applica indipendentemente dalle circostanze storiche: ‘Bisogna discendere dalla teoria pura alla realtà russa […] coloro che credono alla necessità storica della dissoluzione della proprietà comune in Russia non possono in nessun caso provare questa necessità attraverso la mia esposizione della marcia fatale delle cose in Europa occidentale”[xvii].