L'angolo dello scrittore

Melancholia

di Helena Janeczek_

Sono giorni che mi vedo così. Sono la donna bruna che cerca di catturare il pianeta malefico dentro un cerchio di fildiferro per vedere se si allontana o si avvicina. Nel film di Lars von Trier, il finale sarà l’impatto apocalittico. Non qui. Qui c’è solo lo sguardo ripetuto attraverso il cerchio, lo spread che sale e scende, l’astro che non capisci se sia più lontano o più vicino. Non si chiama Melanchòlia, ma Depressione. Temo non sia casuale che gli economisti stiano ben attenti a usare il termine. Parlano di crisi, recessione, inflazione. Al minimo accenno alla Grande Depressione sembrano spaventarsi. Divenuti auruspici di meccanismi talmente fuori controllo da apparire eventi catastrofici, temono le profezie che si autoavverano.

Anche per questo siamo già in depressione. La depressione è un stato della mente collettiva che coincide con una congiuntura economica. E’ il risultato del senso di impotenza con cui ci affacciamo alle aspettative negative, memori anche solo sottopelle di quanta perdita abbiamo già subito. Mandiamo i figli a studiare in scuole sempre più fatiscenti, compilando bollettini postali per consentire l’acquisto di materiali tra i quali c’è la carta ma anche la carta igienica. Paghiamo ticket sempre più alti per le cure mediche, ma se è necessario un esame urgente, raggranelliamo i soldi per la visita privata. Nelle stazioni ferroviarie funzionano spesso solo gli schermi che trasmettono non-stop spot pubblicitari. Le città si allagano con ogni pioggia forte, i tombini non ripuliti si intasano, nel manto stradale malripezzato le pozzanghere si ingrossano a laghi che continuano ad allargare le buche.

Il lavoro è sempre più scarso, sempre meno tutelato, sempre peggio retribuito. La classe operaia, prima di quasi dissolversi, ha fatto sacrifici senza andare in paradiso. E’ stata raggiunta nel limbo quaresimale dalla classe media. I lavoratori atipici stanno sulla soglia, sempre più numerosi. Non hanno voltato le spalle agli operai della Fiat nel braccio di ferro con Marchionne, ma quando uno di loro si trova faccia a faccia con l’impiegato pubblico troppo lento o scazzato, l’insofferenza verso il tutelato brucia, tutto a vantaggio di chi divide e impera. L’umiliazione resta più indicibile del rancore in cui cerca uno sfogo, è il fondo depressivo che atomizza, che entra in casa, che intossica i rapporti più privati. Se hai uno straccio di lavoro, sai che ti tocca tenerlo caro quasi a qualunque costo. Sotto c’è lo strato nero del lavoro in nero, i clandestini che ne abbassano il costo reale, che portano voti alla Lega, perché c’è sempre chi incassa le rendite delle guerre tra poveri. Difficile resistere alle sirene depressive e alla loro capacità di incattivire, spacciando per visione esistenziale lo sguardo oscurato dal malessere subito. “Siamo soli e il mondo è cattivo”, dice alla sorella bruna in preda al panico, la bionda che trae una forza terminale dalla sua natura melancholica o saturnina.

L’esito del voto in Spagna indica che la delusione è soprattutto un problema delle sinistre governative. Lo stesso dice, a modo suo, l’altissima fiducia degli elettori del Pd nel governo Monti. Il sollievo e la speranza per la ritirata di Berlusconi sono stati, sin da subito, mescolati al desiderio di affidarsi a un’autorità, come bambini spaventati da una realtà che trascende le loro capacità di comprendere e reagire. Dare la mano a chi dovrebbe guidarli nel buio, chiudendo gli occhi. Ma insieme ad ansia e paura, agisce anche una ragione se non proprio depressiva, almeno disillusa sino al fatalismo. Se l’alternativa alla catastrofe non può che essere ingoiare la minestra austera, che almeno sia preparata da un grande chef che ha imparato la ricetta nei migliori établissment del mondo, in grado – si spera – di trattare alla pari con i colleghi dell’Hotel Frankfurter Hof e Hotel Ritz. Nulla di meglio si sarebbero aspettati da un partito che da decenni ha chiesto rinunce con la promessa che si sarebbero tradotte in crescita e dunque benefici, cosa non avveratasi in cui non spera più nessuno. L’ironia del caso italiano fa si che sia stata la destra berlusconiana a imporre, con il voto dei ceti popolari e l’appoggio di Confindustria sino al limite del baratro, il dietrofront sugli slanci liberali di sinistra. Al “meno tasse per tutti” strombazzato, corrispondeva, nella pratica, il ripristino di ogni privilegio e il “niente tasse per alcuni” molto prammatico, ovvero destinato a tutti quelli in grado di evaderle. Ma quel che sembra arrivato al capolinea in tutta Europa, è il sogno di una società dove capitalismo e socialismo, alla fine di tante lotte, avessero raggiunto un equilibrio soddisfacente per gran parte dei cittadini. Sembrava un’acquisizione così salda che non solo in Italia, inebriata dal nuovo mondo unilaterale, anche la sinistra ha creduto di potersi concedere un po’ di libertinaggio liberale. I danni del New Labour si sono sommati a quelli del thatcherismo, e persino nella Germania graziata dalle casse piene dello Stato, nessuno rivorrebbe più un Gerhard Schröder a capo del Partito Socialdemocratico. Forse anche per questo – oltre all’assenza di alternative immediate per proteggere il paese dal rischio fallimento – lo stesso Partito Democratico è stato così pronto e docile nel consegnare delega al governo Monti, malgrado sembrasse certa e addirittura prossima la vittoria elettorale. Pur consapevole che potrebbe pagare carissima la resa delle armi, ha preferito affidare all’outsourcing “tecnico” l’esecuzione della politica economica, nel momento in cui non è stata più un’opzione, ma un’imposizione ineluttabile. Ora si stanno delineando scontri interni tra correnti più liberali e più “sociali”, ma sempre in una logica binaria e autoreferenziale. Nessuna riflessione dialettica sui propri percorsi che voglia in più – pare impensabile – confrontarsi con la base elettorale o con la società. Che i dettati dell’economia abbiano esautorato la politica, pare avvenuto sia per causa che come effetto della sua incapacità di mettersi in discussione e in gioco – non solo in Italia.
Il pianeta, malgrado il nuovo governo, non resta fermo. Forse il collasso europeo è ormai inevitabile, però non ci aspetta nessuna fine ultima, solo il dover andar avanti sempre più incerti, sempre più disillusi, sempre più poveri. L’apocalisse, per le anime depresse, somiglia a una favola consolatoria, almeno nella misura in cui cerca di esorcizzare il malessere, oggettivandolo in una rappresentazione esterna – cosa di cui il film di Lars von Trier è un esempio dei più trasparenti. Non sembra casuale che, in questi anni di crisi, le narrazioni apocalittiche si siano moltiplicate sino all’inflazione: libri, film, videogiochi. L’apocalisse addomestica i demoni rendendoli feroci e grandiosi – ma soprattutto esterni. Mistifica il nostro sentirci miserabili, non importa se facendoci combattere battaglie splatter contro alieni, o abbandonandoci in un castello abitato da tre privilegiate anime in pena che attendono il bang finale. Esiste però qualcosa che la narrazione apocalittica non può permettersi. Non può mostrare alcun collegamento con la condizione storica e collettiva che la incrementa o la ingenera, con quella depressione di cui gli economisti temono di fare il nome. “Siamo soli e il mondo è cattivo”, lo dice, appunto, la stessa splendida donna che nella prima parte manda a quel paese un capo stronzo, ma prodigo di elogi e promozione. Nella favola nera cinematografica è l’eroina che si licenzia perché la depressione le rende intollerabile ogni gioco e finzione sociale, nel mondo grigio della crisi cadono in depressione i licenziati. Castelli e miserie, come diceva il poeta maledetto, simboli e archetipi che mostrano un’essenza per occultare la contingenza da cui possono sgorgare.

Ma forse gli effetti distorsivi della depressione, con il suo bisogno si esternarsi fosse anche in figure di un nero monocromo, possono riflettersi persino sulle letture della realtà che ci incombe addosso. Dal basso della nostra impotenza, la crisi appare come una trama di attori impersonali spregiudicati o almeno un meccanismo perverso quanto ferreo. Non si può fare altro che cercare di disattivarlo in toto, quindi la risposta più radicale sembra l’unica o comunque la migliore. Se c’è una ragione per la quale l’idea del default pilotato come via d’uscita non mi convince, questa risiede soprattutto nel timore che possa essere una reazione opposta e speculare, quasi “euforica”, all’aut-aut di uno scenario catastrofico non messo discussione. Non escludo che in certi casi – forse già in Grecia allo stato attuale – ci sia possa far meno male saltando dalla finestra del fallimento che continuando a mangiare la minestra della miseria. Però le visioni più o meno complottistiche dello strapotere finanziario rischiano di assolvere la corsa individuale alle scialuppe di salvataggio delle nazioni imbarcate sul Titanic, soprattutto all’interno dell’Europa monetaria. Il meccanismo va analizzato e scomposto in ogni sua componente, a cominciare da quelle che appartengono alla responsabilità della politica. Le posizioni di Merkel o Sarkozy, per dire, ma anche l’incapacità dei governi dei paesi mediterranei di contrattare uniti, acquisendo un peso maggiore sul tavolo delle trattative. Lo sforzo di ragionare in maniera differenziata pur nella situazione di pericolo e ricatto, non ha forse utilità pratica, ma esprime in sé un rifiuto dell’introiezione di una subalternità subita.

La crisi è globale e globali sono le contestazioni che si levano dal basso. Oltre agli slogan che, nella loro evidenza immediata – “siamo il 99%” – possiedono un potenziale di aggregazione contagioso, forse è anche il volto stesso dei movimenti a strappare la maschera. Traslocare nei luoghi pubblici, accamparsi come zingari nelle tende, dormire nei sacchi a pelo come barboni. Sperimentare una democrazia più diretta, intervenendo nelle assemblee con un codice di gesti che ricorda il linguaggio dei sordomuti. Intervenire, come accade in America, senza amplificazioni, lasciando che le parole dell’oratore vengano trasmesse coralmente. I movimenti, soprattutto in occidente, traducono, per necessità di cose, in corpi e pratiche lo scandalo occultato: la povertà. Si avvalgono anche di strumenti tecnologici e internet, ma questo lo fanno pure i manifestanti in Egitto o in altri paesi dove la libertà era inaccessibile e il pane lo è diventato. Anche con un’antenna sul tetto di una baracca o uno smartphone in tasca si può essere poveri – sia nel primo che nel secondo e terzo mondo. Dovunque, tuttavia, la povertà non è soltanto quella materiale. E’ tutto ciò che manca o è venuto a mancare: diritti, prospettive, rappresentanza, sponde politiche, risposte alternative complessive che appaiano già formulate e percorribili. Talvolta, a vedere e sentire gli aderenti dei movimenti, capita di sentirsi sconcertati dinnanzi all’impressione che il linguaggio della protesta debba reinventarsi a partire da una sorta di grado zero. Quella povertà è anche debolezza, certo, ma occorre vederla prima per quel che è – lo specchio non falsato di una condizione vera – prima di pensare che se ne possa uscire con scorciatoie. Inutile illudersi: tra la richiesta di una patrimoniale o di una Tobin Tax, o addirittura una riscrittura mondiale delle regole di governance finanziaria e le questioni della crisi strutturale (sostenibilità della crescita, ambiente, occupazione futura ecc.) c’è di mezzo un deserto da attraversare. Un deserto non confinato alle sole democrazie del mondo avanzato, di cui alcuni paesi come il nostro stanno sperimentando per la prima volta cosa significa essere retrocessi in prossimità di quelli meno sviluppati.
Partire da proposte concrete benché già fin troppo osteggiate, non dovrebbe essere un modo per scambiare correzioni di rotta importanti per risposte esaustive. Il percorso, se vuole essere di “democrazia reale” (o qualcosa che vi somigli), sarà lungo e tutto da costruire.

Eppure ci sono nodi e luoghi da cui conviene cominciare. L’Europa può essere un perno. Se in questo continente cominciassero a cambiare alcune regole, questo potrebbe avere un impatto assai più esteso. Probabilmente, causa di forza maggiore, i summit della politica EU troveranno qualche accordo palliativo che consenta una tregua utile per guadagnare tempo. Bisognerebbe sfruttarla anche dal basso per mettere in piedi quel che finora è stato fatto troppo poco. Creare reti – avere più scambi, informazioni, coordinamento. Giustapporre un’altra politica a quella che impongono le istituzioni monetarie e i governi con il coltello dalla parte del manico. L’Europa è anche quella in cui per secoli uomini e donne hanno lottato per i loro diritti. L’Europa, ancora prima che intorno agli ideali socialisti, comunisti e anarchici si organizzassero partiti e sindacati, è stata il luogo dove si è combattuto insieme perché i singoli paesi potessero diventare nazioni autonome, pari a quella che nel nome di libertà, fraternità e uguaglianza aveva decapitato la monarchia assoluta. Oggi pare di assistere a un processo inverso. Non lasciamo che la moneta diventata immagine e somiglianza di un pianeta minaccioso la disintegri- e noi con essa.