Il riformismo di Obama si è rivelato vuoto di valori
Provando a ragionare sul bilancio dell’attuale presidenza degli States a tre quarti del suo mandato, sono evidenti le sue debolezze che risalgono all’adozione di un pragmatismo che, a un certo punto, si è scontrato con i principi riaffermati dalla destra repubblicana e, ancor più, dall’ala estrema del Tea Party, finendo per dare luogo a numerosi cedimenti. Negli ultimi mesi c’è stata però una ripresa di iniziativa legislativa, che ha coinciso con la nascita del movimento “Occupy Wall Street”, ed appare probabile che Barack possa essere rieletto, se darà forza ad un’azione politica ispirata all’idea di maggiore eguaglianza sociale.
di Marco Codebò_
Dicono gli esperti delle campagne elettorali americane che quanto accade sul terreno economico durante il quarto anno di una presidenza conta molto poco agli occhi degli elettori. I giudizi sui presidenti in cerca di rielezione maturano dopo i primi tre anni del loro mandato quando hanno lasciato sulla vita della nazione un’impronta sufficiente ad esprimere un giudizio ragionato. L’ultimo anno infatti non è altro che una lunga campagna elettorale durante la quale le decisioni importanti, se possibile, sono rinviate al quadriennio successivo. Considerando quindi la prima presidenza Obama come pressoché conclusa, provo a tracciarne un consuntivo ragionato, centrato però soltanto sul terreno economico. Questo non perché la politica estera non conti nulla, anzi, ma perché è in quella economica che Obama ha avuto più possibilità di adottare scelte originali. È in quest’area, soprattutto, che è emerso il carattere inconfondibile del suo stile di lavoro, ovvero l’irresistibile tendenza al compromesso, fatto in sé comprensibile in un uomo politico, ma deleterio nella forma che ha assunto per il presente inquilino della Casa Bianca. Mi riferisco al fatto che ogni volta che ha dovuto negoziare scelte economiche con la controparte repubblicana, Obama lo abbia sempre fatto presentando come unica sua bandiera il pragmatismo, come se né lui né il suo campo possedessero principi altrettanto solidi di quelli dell’avversario. Difetto questo ancora più grave se si pensa che dall’altra parte, invece, la difesa dei principi ha assunto caratteri via via sempre più intransigenti, riducendo così drasticamente gli spazi per ogni mediazione che non fosse un puro e semplice cedimento da parte del presidente.
Una volta chiarito questo vizio originario della presidenza Obama, credo che il senso delle sue politiche possa ormai apparire con piena chiarezza. Nel campo economico, immaginando un grafico dove il movimento verso l’alto corrisponda alle scelte progressiste e quello verso il basso a quelle conservatrici, le decisioni dell’amministrazione democratica hanno tracciato una curva sinusoide, prima ascendente, poi in precipitosa discesa e infine, negli ultimi mesi in leggera risalita. Nella primavera del 2009 Obama aveva affrontato la crisi sulla base di un moderato keynesismo. L’American Recovery and Reinvestment Actprevedeva una spesa di 787 miliardi di dollari da investire in infrastrutture, scuole, sanità, incentivi alle energie rinnovabili, sgravi fiscali, più un’espansione dei fondi per i disoccupati e un irrobustimento dello stato sociale. Questa è stata l’iniziativa più rooseveltiana dell’amministrazione Obama e in un certo senso ne rappresenta anche il più chiaro fallimento. Presentato come un piano per l’occupazione, l’AmericanRecovery and Reinvestment Act ha avuto effetti modesti sul mercato del lavoro: il tasso di disoccupazione, che era al 9, 5% nel luglio 2009, è riuscito a scendere al di sotto di quel livello solo nel gennaio 2011 ed è ancora oggi al 9 %. Il Nobel dell’economia Paul Krugman aveva giudicato il piano di Obama insoddisfacente perché troppo limitato sul lato della spesa e troppo sbilanciato su quello degli sgravi fiscali. Solo un progetto più ambizioso avrebbe prodotto risultati occupazionali significativi, ma, sempre secondo Krugman, il compromesso politico che ha partorito il programma ne ha anche fatalmente limitato l’ampiezza e l’efficacia.
Il piano anticrisi e la riforma sanitaria dell’anno dopo rappresentano le due maggiori iniziative realizzate dall’amministrazione Obama; sono in realtà i soli frammenti dell’originale programma riformatore che il presidente sia riuscito a portare a buon fine in questi tre anni. Rappresentano così, pur coi loro limiti, il punto più alto della curva di Obama, anche perché dalla primavera del 2010 inpoi il presidente si è trovato a fronteggiare il Tea Party Movement, espressione politica della protesta anti-fiscale della piccola e media borghesia, specialmente nel Sud e nel Mid West. Il problema è che il Tea Party è stato il primo movimento (di massa: alle elezioni di un anno fa ha mandato a Washington una settantina di deputati) nato sul terreno della crisi negli Stati Uniti. Giovandosi anche di una favorevole copertura mediatica (il canale Fox di Rupert Murdoch), il Tea Party ha per un anno dettato l’agenda del dibattito politico e, peggio ancora, culturale. La proposta del Tea Party, quella di un’uscita reazionaria dalla crisi basata sulla tenaglia creata dai tagli fiscali per i ceti medio-alti da una parte e da quelli allo stato sociale per quelli medio-bassi dall’altra, è stata fino a qualche mese fa l’unica che abbia circolato nei media a grande diffusione. In questo contesto, che rovesciava radicalmente lo slancio genericamente progressista che lo aveva portato alla Casa Bianca, trovandosi davanti un avversario col sangue agli occhi, Obama è immediatamente passato sulla difensiva, adottando una politica del compromesso ad ogni costo. Poteva fare diversamente? È una domanda per gli storici delle prossima generazioni. Certo però che la strategia di Obama, se da un lato gli garantiva la sopravvivenza, come figura della mediazione però e non più della decisione, dall’altra contribuiva ad accrescerne i problemi, visto che dava all’avversario la certezza che la scelta dell’intransigenza di principio fosse invece l’approccio vincente.
L’adozione di un pragmatismo fine a se stesso è al tempo stesso il momento più sgradevole della prassi di Obama e il suo più grave fattore di debolezza. Mentre l’azione politica del presidente sembrava figlia della necessità, dalla parte dei suoi avversari invece i principi erano chiari. Ideologicamente egemonizzati dalTea Party, i Repubblicani erano in grado di promuovere politiche che traducessero in pratica il principio della disuguaglianza, nelle due versioni, fondamentalista protestante (la ricchezza come riconoscimento divino della qualità dell’individuo) e ultra-liberista (il mercato come strumento per una selezione darwiniana dei migliori) che da più di trent’anni circolano nella destra americana. Dalla metà del 2010 fino a pochi mesi fa, nel confronto fra le due prassi, quella di una politica che non aveva altro fine che di prolungare se stessa come stanza di compensazione da una parte e quella di una militanza guidata da principi di ferro dall’altra, la prima, quella di Obama, ne usciva sempre schiacciata, ridotta a gestione dell’esistente ai fini di pura sopravvivenza. Sul perché di questo dislivello valoriale la mia opinione è netta: non è che il presidente i principi li possedesse però non li volesse, chissà poi perché, usare; no il fatto è che non li aveva proprio. Il riformismo di Obama ‒ non è il solo ad essere così in occidente, è evidente ‒nel suo confronto con il capitale finanziario, perché è questo l’avversario vero non certo gli ultras repubblicani, è vuoto di valori. Vuole solo rendere meno indecente il capitalismo, come se in ballo ci fosse una questione di buon gusto o di buoni sentimenti. Lo si capisce dal linguaggio. Nel discorso riformista, negli Stati Uniti come in Europa, la parola ‘deboli’ ha acquistato un corso imprevedibile anche solo dieci anni fa: ma da quando in qua la missione della sinistra è quella di “difendere i deboli” e non quella di conquistare diritti? I militanti delle generazioni che ci hanno preceduto, anarchici, socialisti, comunisti, non si vedevano certamente come dei deboli in cerca di protezione, anzi, tutto il contrario, si sentivano forti del diritto di esprimere un punto di vista autonomo sul destino delle nostre società
A dimostrazione di quanto sopra, la curva di Obama ha mostrato timidi segni di risalita solo negli ultimi mesi, proprio nei giorni in cui il principio di uguaglianza tornava a farsi vivo con inattesa vitalità nelle città del Nord America. Ai primi di settembre il presidente ha finalmente ripreso l’iniziativa sul piano legislativo, proponendo un piano di investimenti per l’occupazione, per una spesa pari all’incirca alla metà di quella prevista nel programma anti-crisi del 2009, che ha il merito di rimettere all’ordine del giorno la necessità di investire nel lavoro dopo un anno in cui si era solo parlato di tagli di bilancio. Dieci giorni dopo è partito il movimento del 99%, con l’occupazione di Zuccotti Park a due passi da Wall Street, evento che ha poi dato vita ad una serie di azioni simili in centinaia di città degli Stati Uniti. Si tratta di un movimento al momento difficile da valutare: non ha per esempio finora dato vita a grandi mobilitazioni di massa di persone, ma ha dimostrato un’inventiva, una resistenza e una capacità di iniziativa notevolissime. Ha soprattutto riportato dentro la conversazione pubblica lo scandalo inaccettabile della presente disuguaglianza di reddito. Proprio mentre sto scrivendo quest’articolo il movimento del 99% sta vivendo la sua prima vera prova, in seguito allo sgombero avvenuto stanotte di Zuccotti Park da parte della polizia di New York. Solo nei prossimi mesi sapremo se l’ondata di occupazioni che ha seguito quella di WallStreet rappresenti solo una ciclica efflorescenza dell’America alternativa o se si costituisca invece come primo radicamento sociale di una critica pratica del capitale finanziario.
La sopravvivenza politica di Obama, non tanto come presidente, visto che la sua rielezione è probabile, ma in quanto discorso, dipende dalla seconda possibilità.[1] Credo che si possa enunciare come principio generale che l’esistenza stessa di un soggetto politico riformista non è neppure pensabile senza la circolazione nel vivo della società di un punto di vista robustamente radicale sullo stato del mondo. Implicito nel New Deal di Roosevelt era il “guardate che se non date retta a me, questi qui fanno come in Russia”, dove i destinatari del messaggio era la borghesia industriale e i “questi qui” gli occupanti delle fabbriche dell’area di Detroit.[2] Spero quindi che Obama resti alla Casa Bianca e che i segni di vita che ha dato negli ultimi mesi continuino e si rafforzino. Lo faccio non tanto per i risultati che Obama potrà portare a casa, anche se sono sempre importanti visto che possono avere effetto sulla vita di milioni di persone, quanto perché una sua rinvigorita presidenza sarà il sintomo di un’irrequietezza più profonda, iniettata nelle vene della società dal ritorno in forza del principio di eguaglianza.
[1] I repubblicani non sembrano in grado di presentare un candidato valido alle prossime presidenziali. Storicamente il partito republicano è stato vincente quando ha espresso candidati in grado di rappresentare sia la propria ala estrema, sul tipo dell’attuale Tea Party, sia le componenti conservatrici tradizionali, Bossi più Casini tanto per capirci. Ma il candidato più qualificato in questo senso, il governatore del New Jersey Christie, ha rinunciato in partenza perché troppo grasso, mentre i rincalzi Perry e Cain sembrano al momento perseguitati da un’irresistibile tendenza alla gaffe.