Costruire mondi comuni. Crisi finanziaria e democrazia_I parte
di Andrea Inglese
Consensus versus canea
C’era una volta la brutta bestia del “pensiero unico”, del “Washington consensus”, oggi c’è la canea. Gli esperti sono usciti dai ranghi e la loro proverbiale discrezione è venuta meno: da mesi, calcano le scene mediatiche, mandano messaggi febbrili e definitivi, sulle prime pagine dei giornali, incluse le sacre colonne degli editoriali. Non c’è giorno che un quotidiano europeo non ospiti i consigli di qualche addetto ai lavori economici e finanziari.
Il cittadino ordinario, sprovvisto di cattedra in economia, finisce con il concludere che i decisori e i loro consulenti sono nel pieno disorientamento strategico. Da qui, l’esigenza di andare a vedere che cosa sta succedendo. Ma oltre alla certezza che i monotoni giorni del pensiero unico sono andati e che probabilmente di più terribili se ne preparano, è alquanto difficile mettere a fuoco l’argomento in questione, e non solo per via dei pronostici contrastanti. Il problema è: a chi stanno parlando gli esperti? Sono convocati giornalmente dalla stampa generalista, ma l’impressione è che essi parlino ancora di una crisi privata. Continuano, con il loro gergo tra l’oracolare e il tecnico, a considerare la crisi cosa loro, anche se ormai ne parlano in pubblico, a noi, ai profani.
Gesticolazione e stasi
C’era una volta la politica, con le sue mancanze di volontà, ma anche con i suoi conflitti da mediare, il confronto ideologico, lo scontro sociale, le alleanze e le lotte tra i partiti, i negoziati tra le parti sociali. C’erano i decisori (eletti) che dovevano comporre con difficoltà i contrastanti interessi del popolo sovrano. Poi c’erano gli esperti, i tecnici, gli specialisti, svincolati da ideologie e partiti, che studiavano i fatti, e soprattutto le tendenze profonde, delineando i confini del possibile, di ciò che si può o non si può fare. E costoro, con gran sollievo dei decisori, servivano a conciliare d’un colpo il dibattito, tacitarlo con la forza indiscutibile della perizia. Oggi, però, questa ordinata concatenazione di dispute e silenzi, di volontà e necessità, di desideri e destini, è stata bruscamente interrotta. I fatti sono esplosi, i decisori sono afoni, le perizie divergono. La contesa è scivolata nel campo delle leggi di natura e dei fatti evidenti. E sui politici ricade intatta la responsabilità della deliberazione senza più alibi tecnocratici. Il loro potere riacquista un carattere arbitrario e incerto. Per salvare la faccia, si danno a grandi gesticolazioni, ma il risultato è quella di una marcia sul posto. La celebre “volontà politica” torna in agenda, ma più spesso in forma di rito o sceneggiata propiziatoria.
Rappresentanza e rappresentazione
Non c’è bisogno di intervistare un politologo o di compulsare le statistiche sull’astensionismo, per avere notizie sullo stato di salute della rappresentanza. Uno sguardo a cosa accade nelle piazze sarà più eloquente. Qualcuno ancora si lamenta, per la quantità di movimenti di protesta carenti di partito, bandiere, gerarchie e burocrazie precise. Senza parlare dei saccheggiatori, che non si degnano neppure di utilizzare qualche ingenuo ma promettente slogan millenaristico. Certo, ci vorrebbero dei decisori più decisi e degli esperti meno imperiti. Nel frattempo, però, la fiducia nei gesticolanti è scarsa e la rabbia cresce.
D’altra parte, perché sia possibile immaginare una risposta democratica alla crisi, la semplice revoca delle deleghe o la volonterosa mobilitazione dei cittadini non sono sufficienti. È necessario porre anche il problema della rappresentazione, ossia di come sia possibile fare della crisi una cosa pubblica, strappandola alle cerchie che, attraverso il loro stili e vocabolari, la privatizzano. Senza la possibilità di comporre un mondo comune, di presentarlo in una forma estetica adeguata, non si dà neppure la possibilità di una disputa politica[1]. In che modo, quindi, si elabora un racconto della crisi? Attraverso quali forme, generi, tecniche artistiche, e mettendo ordine in quale materiale? Procedimenti artistici e generi narrativi svolgono funzioni cognitive indispensabili, anche per la loro capacità di ricondurre versioni sofisticate e contrastanti del mondo al “senso comune”, ossia alla sensibilità e al giudizio di un soggetto non teorico, ma pratico, inserito in forme di vita determinate.
La costruzione di un discorso appropriabile
La crisi è reale, e agisce sulla realtà: provoca sofferenze, disordini, reazioni. La crisi, inoltre, esiste nei discorsi esperti, in analisi dettagliate e discordi che cerchie ristrette di persone portano avanti. La crisi esiste infine come enigma, quesito, all’interno della sfera pubblica. Si manifesta come minaccia prossima ed evidente, e al contempo come evento spettrale, d’altri mondi. Chimera costituita da mutamenti tangibili del nostro quotidiano e da astratte profezie, essa attende di adattarsi alle nostre comuni forme narrative. La preoccupazione principale non riguarda allora la possibilità di adeguare la crisi reale a un supposto discorso vero, bensì la possibilità che esista un discorso sulla crisi in grado di essere compreso e trasmesso, di cui un ascoltatore qualsiasi si possa quindi appropriare dopo averlo ascoltato – laddove il discorso esperto rimane per il profano irripetibile e intraducibile. Un tale discorso non esiste, finché qualcuno non l’abbia costruito artificialmente. È questo il lavoro di artisti, scrittori, fotografi, cineasti, ecc. Si potranno poi istruire processi sulle inesattezze, esagerazioni, verità fattuali, congetture, ma intanto è fondamentale che un intreccio e una visione abbiano preso corpo pubblicamente, e permettano ad ognuno di formulare dubbi, giudizi, domande. La democrazia ha bisogno di un meccanismo di rappresentanza, ma anche di rappresentazione.
Suscitare interesse, muovere affetti
Una riflessione sulla divulgazione è importante, ma non sufficiente. Uscire dal discorso esperto, non vuol dire semplicemente approntare una forma di traduzione, che faciliti la circolazione tra i profani della crisi come res davvero pubblica. Semplificare non basta, bisogna suscitare interesse. Siamo in un ambito politico, non scientifico: la conoscenza qui non è disinteressata, spassionata, prodotta da un fantomatico soggetto incorporeo. Perché le persone orientino la loro attenzione su un determinato ambito, è necessario muovere in esse degli affetti. (Dire che le conseguenze della crisi riguardano tutti, oggettivamente, non equivale a dire che la crisi provochi, in tutti, l’urgenza di comprenderne natura e meccanismi. Posso essere affetto da una malattia gravissima, senza per forza avere interesse a conoscerne prognosi e eziologia.)
Frédéric Lordon, economista spinoziano, collaboratore di “Le Monde diplomatique”, ha realizzato una trasposizione teatrale della crisi in alessandrini (D’un retournement l’autre. Comédie sérieuse sur la crise financière. En quatres actes, et en alexandrins, Seuil, 2011). Il risultato estetico è poco convincente, ma i motivi di una tale esercizio sono da considerare con attenzione. Li esprime in « Surréalisation de la crise », il saggio che chiude il volume. I discorsi veri, le analisi corrette non hanno mai, per forza propria, guidato il mondo, nonostante alcuni universitari siano portati a credere il contrario. “Dovranno quindi arrendersi all’idea che, di tutti i discorsi, quello dell’astrazione è fin dall’inizio il meno capace, proprio perché si svolge in un’atmosfera povera di affetti – constatazione che non toglie nulla alla fondatezza di questi sforzi, ma chiede semplicemente di rivedere al ribasso le aspettative pratiche e politiche”. Se la verità non è portata dalla passione, essa rimane inefficace, fluttuante come un sogno, incapace di radicarsi nelle attitudini. “Il capitalismo non resiste forse all’oltraggio abnorme della crisi presente, non si mantiene in piedi nell’inverosimile sprofondamento intellettuale e morale che dovrebbe inghiottirlo? Contro i vantaggi inerziali della dominazione, tutti i mezzi sono buoni, tutto va preso in considerazione, cinema, di finzione o documentaristico, letteratura, foto, fumetti, istallazioni, tutti i procedimenti vanno considerati per poter realizzare delle macchine produttrici di affetti.”
Ragion pura finanziaria e sublime
Porre la questione estetica della crisi vuol dire chiedersi quale narrazione sarà in grado di darle consistenza e senso. Chi voglia narrare la crisi, innanzitutto, dovrà eludere le aporie della ragion pura finanziaria, dentro cui si dibattono discorsi esperti e divulgazioni. I mercati si autoregolano durante le crisi o sono rimessi in sesto da interventi esterni? La crisi nasce da una necessità economica o da una scelta politica? Va compresa come un fenomeno atmosferico o un piano ordito da una banda di criminali? Come una lotta tra paradigmi intellettuali o l’esito di puri rapporti di forza tra gruppi sociali? È un’impersonale concatenazione macchinica o una microfisica del potere, a cui ognuno contribuisce? Le risposte verranno dalle scienze dell’economia o dall’economia politica?
A questa difficoltà, se ne aggiunge un’altra, che possiamo ricondurre alla tradizionale tematica del sublime: com’è possibile manifestare in un artefatto artistico finito una realtà esorbitante, infinita, che trascende l’intendimento e la sensibilità umana? Come può una narrazione di tipo letterario o cinematografico, per articolata che sia, includere una realtà globalizzata come il capitalismo finanziario, che coinvolge miliardi di comparse e migliaia di protagonisti, istituzioni complesse come le banche d’investimento, oltreché una legione di oggetti non ben identificati come i Cdo (Obbligazioni collaterali di debito)?
In altri termini, chi vuole raccontare la crisi in modo che diventi davvero di pubblico interesse, deve innanzitutto trasporre fenomeni impersonali e entità astratte in un mondo di azioni e di agenti, che presentino a noi cittadini comuni i caratteri dell’intelligibilità e della verosimiglianza.