Requiem per la lettura
di Giacomo Sartori
La lettura è un’occupazione oltremodo faticosa, oltre che di comprovata inutilità sociale. Insomma, molto più faticosa di guardare per esempio nel vuoto, o di dormire, o di essere morti. Invece di oziare gli occhi devono mangiarsi interminabili file di parole e sputarle nel cervello. Deglutire parole e sputarle nel cervello, inghiottire frasi e spararle nel cervello, masticare paragrafi e vomitarli nella scatola cranica: è estenuante. Lo stesso cervello ha difficoltà a starci dietro e a non congestionarsi. Ma quel che è peggio sono i danni agli occhi e alla salute in generale. Io fin quasi a diciassette anni ero semianalfabeta, e ero perfettamente in forma. Poi a diciassette anni mi sono messo a leggere e a studiare, e subito sono diventato miope, sempre più miope: più mi alfabetizzavo e peggio ci vedevo. Adesso sono quasi cieco. E sono apparse anche tante altre infermità che sarebbe lungo elencare. Pure l’umore s’è degradato: mi s’è appiccicata addosso una semidepressione dalla quale a stare a quelli che mi frequentano non mi sono mai ben ripreso.
Molti ci sono rimasti, e tuttora ci rimangono, a forza di leggere. Non per niente alcuni testi sono assurti nel guinness dei primati proprio per la cifra impressionante di suicidi che hanno provocato. C’è da rimpiangere i bei tempi andati: per due milioni di anni gli uomini non hanno letto nemmeno una riga: non sapevano leggere, e anche se avessero imparato non avrebbero avuto modo di esercitarsi: niente indicazioni stradali, niente pervasive pubblicità, niente libri e libretti, niente enigmatiche istruzioni in diciannove lingue del videoregistratore. Gli esseri umani guardavano nel vuoto, o cacciavano, o dormivano, o chiacchieravano, o morivano, e stavano benone così. È molto dopo che a qualcuno è saltato il ticchio di notare sull’argilla quante capre aveva, e in men che non si dica è diventata una moda: chi non andava in giro con una tavolettina di argilla era considerato un mezzo imbecille. I mercanti di tavolette di mota hanno fatto i soldoni, i vasai che le miglioravano tecnicamente erano considerati struggenti eroi. Quasi subito sono arrivate anche le argomentazioni, perché era importante per esempio non mischiare le capre con le pecore, o con gli dei, o anche solo con i cavoli, e non fare confusione tra le pecore del tizio e del caio, o insomma mettere i puntini sugli i su questo o quel problema. Poi un tipo un po’ fuori di testa invece di contabilizzare gli ovini sulla sua tavoletta ha inciso alcune frasi balorde (sempre sulle pecore), e così è nata anche la poesia. Dalle prime odi ovine ai poemi omerici e alle fanfaluche bibliche, una volta sciolto il freno alla fantasia, il passo è stato breve. Le civilizzazioni successive hanno insomma utilizzato le tavolette di argilla e i papiri e le pergamene per contabilizzare pecore e bighe e automobili, o i loro equivalenti valutari e finanziari, o appunto per propalare cantici e liriche e sonetti.
O anche romanzi, che sono poesie più prosaiche e meno stucchevoli, con pecore e eroine più somiglianti a quelle in carne e ossa. Come anche per teorizzare, filosofare, divagare, delirare, indottrinare, conoscere, fantasticare, sfidare, relazionare esperimenti scientifici, dichiarare guerre e stipulare paci, confessarsi. Per qualche millennio le cose sono state sotto però controllo, e anzi in certi periodi più fiacchi si dilettavano quasi solo i preti e i frati. La stessa invenzione della stampa ha fatto molti meno danni, di per sé, di quanto si dia comunemente per scontato. È solo negli ultimi due secoli che il fenomeno ha preso dimensioni preoccupanti, fino a diventare una vera e propria addizione universale: tutti volevano imparare a leggere, tutti volevano leggere. Gli stessi governanti pensavano che i governati dovessero cimentarsi a tutti i costi nell’esercizio insano della lettura (in qualche caso l’hanno pagata cara). Di qui la banalizzazione degli istituti concentrazionari chiamati scuole, con la conseguente diffusione di parassiti e infermità di ogni tipo. E l’apparizione a ogni angolo di strada di chioschi che smerciavano fogli di carta rigurgitanti di frasi, e di empori stipati di quelle orde irreggimentate di parole chiamati libri. E di qui la foga prometeica degli scriventi, assetati di gloria, di immortalità, di proventi, o anche solo – quando prevaleva l’ingenuità – di verità e bellezza. Inutile dilungarsi sugli episodi depressivi di vario genere e gravità ascrivibili a tale collettivo invasamento. Molti individui della mia generazione e di quelle che l’hanno preceduta ne sanno qualcosa, sono stati i più masochisti e beoti: i più irrimediabilmente marcati.
Tramite la lettura volevano a tutti i costi imparare, emanciparsi, peregrinare nel tempo e nello spazio, gongolare, sperimentare, struggersi, conoscere, cambiare il mondo, elevarsi, degradarsi, migliorarsi, sfidare la morte, amare, odiare, spiegare l’inspiegabile. Cercavano la verità e la bellezza nelle parole allineate le une dopo le altre, come i cinghiali grufolano lungo i sentieri per raccogliere le ghiande, come gli eroinomani si piantano gli aghi nelle vene. Inghiottivano giornali e riviste, opuscoli, manifesti politici e letterari, dizionari, volantini, enciclopedie, bigliettini nei cioccolatini, poesie d’amore e civili, romanzi epici, sociologici, sentimentali, epistolari, inamidati o sperimentali, magretti o imponenti, apocalittici o spiritosini, romanzi di ogni sorta, tonnellate di romanzi. Si sdilinquivano, si inorgoglivano, lacrimavano, andavano in estasi, si crogiolavano nell’illusione di edificarsi, di capirci finalmente qualcosa. Erano dei pericolosi drogati. La storia ha provato in modo inconfutabile che in quello stesso lasso di tempo l’umanità invece di perfezionarsi si è fatta più cinica e più scaltra, sfoderando inedite nefandezze. Per fortuna adesso i giovani si sono resi conto che era una follia. Stanno ben attenti a tenersi lontani da qualsiasi stringa troppo lunga di parole, girano alla larghissima dai libri cartacei e dai loro surrogati elettronici. Se ne stanno incollati agli schermi dei telefoni e dei computer, dove si rimpallano frasette più corte possibili, bocconcini che non danneggino gli occhi e il cervello. Giocano con le parole con la stessa grazia e maestria con la quale si giocava un tempo a ping pong. Si capisce subito che non vogliono rimetterci la salute mentale e fisica. Se proprio devono smazzarsi un romanzo lo scelgono in modo che non provochi troppi sommovimenti nella materia cerebrale, come una barca che decida di uscire col mare piatto, o anche in un burrascoso oceano confezionato con il polietilene e gli effetti di luce. Del resto non è lontana un’interfaccia che legga al posto nostro, risparmiandoci fatica e crucci. I poeti e i romanzieri si riciclano allora nell’arte di riscaldare pappette arcinote e di raccontare bugie, e per certi versi non li si può biasimare. Hanno anche loro poco tempo, come tutti. Viviamo un soprassalto agonico, gli ultissimi rantoli che precedono il silenzio stampa. In men che non si dica quelli come me spariranno, un po’ alla volta gli abitanti della terra guarderanno nel vuoto, dormiranno, moriranno ancora di morte naturale o violenta, senza farsi martirizzare dalle parole e senza martirizzarle, proprio come nei primi due milioni di anni. Tutto scorre, tutto finisce.