Le ombre di Hoover, il poliziotto più potente d’America
“J. Edgar”, l’ultimo film di Clint Eastwood, traccia in modo convincente il profilo chiaroscurale dell’uomo che rimase per 48 anni alla testa dell’Fbi, sopravvivendo a ben 8 presidenti Usa, che controllava con l’uso di dossier riservati. Feroce anticomunista, probabilmente omosessuale, abile repressore del gangsterismo, si oppose negli anni ’60 al movimento per i diritti civili dei neri guidato da Martin Luther King. Lo interpreta con grande aderenza Leonardo Di Caprio, affiancato da Naomi Watts, Armie Hammer e Judi Dench.
di Enzo Natta
L’equivoco di confonderlo con John Hoover (eletto alla presidenza USA nel 1928) è tolto di mezzo con un pizzico di ironia quando Leonardo Di Caprio si presenta in un negozio-sartoria e all’osservazione del proprietario che gli sottopone un conto in sospeso a carico di un certo John Hoover replica: “Io mi chiamo Edgar”.
Chi era John Edgar Hoover? Alla domanda, piuttosto complessa, fornisce una risposta altrettanto complessa Clint Eastwood, da qualche tempo impegnato a ritrarre il volto più segreto dell’America. Di sicuro era un uomo ammirato (non amato) e temuto nello stesso tempo (“ha più poteri di quanti ne abbia io” lamentava Richard Nixon), che con il Federal Bureau of Investigation era riuscito a creare un organismo investigativo pressoché autonomo (rispondeva soltanto al Procuratore generale), con giurisdizione estesa su tutti gli States, dotato di ingenti fondi e di un laboratorio scientifico in anticipo sui tempi, grazie al quale fu possibile, tanto per fare un esempio, risalire al responsabile del rapimento del figlio di Charles Lindbergh, il primo trasvolatore atlantico.
Le sue armi migliori erano uomini scrupolosamente selezionati e addestrati, almeno in possesso di un diploma, sorretti da un forte spirito di corpo e di appartenenza, di condotta irreprensibile anche nella vita privata, eleganti ma sobri nel vestire (ancora oggi gli agenti dell’FBI osservano questa regola indossando abiti scuri e in tinta unita, in tutto e per tutto simili a una divisa), agevolati nelle loro operazioni da un servizio informazioni efficientissimo che poteva contare su un archivio continuamente aggiornato, in grado di fornire un’esauriente e spesso compromettente radiografia di persone, associazioni, imprese di ogni tipo. Un’organizzazione che era riuscita a debellare gruppi anarchici e radicali negli anni ’20, a stroncare il fenomeno del gangsterismo nel periodo del proibizionismo e la criminalità negli anni della Grande Depressione, fino al punto di conferirgli una popolarità che cinema e fumetti avevano contribuito a pompare oltre misura. D’altra parte Hoover era un abilissimo “press-agent” di sé stesso, che aveva saputo curare la propria immagine fino a trasformarla in quella dell’eroe nazionale numero uno.
Ma, come tutti gli esseri umani, J. Edgar Hoover aveva i suoi punti deboli e qui il ritratto fornito da Clint Eastwood entra nel vivo facendosi più acuto nel tocco e nei chiaroscuri che lo delineano.
Forte in apparenza e sempre pronto a mettere in mostra un carattere aggressivo e autoritario, Hoover è invece estremamente debole nel suo intimo, del tutto fragile e insicuro quando deve confrontarsi con sentimenti che vede come insidiose trappole pronte a ghermirlo. Con un padre assente, inebetito da un grave malessere, il giovane Hoover subisce l’influenza della madre, donna energica e volitiva, che probabilmente genera in lui la paura delle donne (verso la fedele segretaria che rimarrà al suo fianco per tutta la vita tradisce soltanto inizialmente un trasporto che si manifesta in modo contraddittorio) e una latente, repressa omosessualità che lo lega in modo ambiguo e isterico al suo braccio destro Clyde Tolson. Di quest’ultimo personaggio Clint Eastwood si serve come uno specchio della verità, uno schermo che riflette la tormentata e inquieta coscienza di Hoover, che come un Grillo Parlante lo stuzzica, lo pungola, lo stimola, lo provoca, lo mette continuamente di fronte alla realtà richiamandolo alle proprie responsabilità e ai suoi doveri di fronte alle leggi, ma prima ancora di fronte al senso civico e morale che dovrebbe guidare la vita di ogni uomo.
Nella filmografia di Clint Eastwood il personaggio di Hoover è un altro tassello del mosaico che dopo Mystic River, Million Dollar Baby e Gran Torino racconta la fine del sogno americano e il brusco risveglio che ne consegue. Hoover è il duplice volto della contraddizione e dell’ambiguità di un’intera nazione, che nel corso della sua storia ha attraversato momenti altalenanti e confusi, e che con le sue ombre, più che con le sue luci, ha sollevato dubbi, incertezze, interrogativi che ancora attendono risposta.
Alla fine degli anni ’50 Hollywood aveva sfornato Sono un agente FBI di Mervyn Le Roy. Il protagonista, affidato al volto rincuorante di James Stewart, si chiamava Chip Hardesty, ma adombrava chiaramente lo spirito che animò Hoover a creare l’FBI. Film enfatico, retorico, propagandistico, che risentiva del clima di guerra fredda e dell’anticomunismo imperante. J. Edgar è la controprova, la dimostrazione “a contrariis” di quanto i tempi siano cambiati e con essi il sentimento dell’americano medio, deluso da un progetto “patriottico” non riuscito e dal tramonto del mito individualista che nel cavaliere solitario si ostinava a vedere l’alba di una rinnovata speranza.
Costruito a flash-back, con Hoover che detta le sue memorie dopo 48 anni di regno e l’alternarsi di 8 presidenti, il film diluisce l’apologo politico dello sceneggiatore Dustin L. Black (Oscar per Milk di Gus Van Sant) nella schizofrenica ossessione di una ferrea legalità torbidamente connessa a una doppia personalità che, proprio per questa natura, finisce per piegare il proprio operato a un paranoico balletto di manette facili e di intimità repressa. Al quale Leonardo Di Caprio conferisce quel gelido distacco che isola il personaggio dentro una cortina di ghiaccio, impenetrabile a sentimenti, emozioni, affetti.