Acqua bene comune
fotoracconto vincitore Premio Kaleidos Africa’s Pictures 2012_di Stefania Lamorte
sezione 18-19 anni
Racconterò di una ninfa e dei suoi sguardi, di come mi ha gelato il sangue, di come ha fatto a pezzi la realtà ed i suoi massi. Conobbi Maisha per la prima volta quando ero piccolo, nelle idiosincrasie infantili, nei giochi e nelle bambine, nei sogni a cui non sai dare senso, nei desideri senza spiegazioni che ti fanno scoppiare in lacrime.
La conobbi senza averla mai vista. La seconda volta che la sentii in me è stato quando ero un pò più grande, nel tumulto turbinoso dell’adolescenza, nel miraggio di un sorriso sconosciuto a cui ambisci, nell’anelito di far l’amore con un angelo. La sentivo senza averla mai accarezzata, vista, abbracciata. Nel passaggio alla giovinezza fantasticavo sulla personificazione dei miei desideri.
Fu un viaggio in Africa, finiti i miei studi in medicina, che mi permise di incontrarla, era lì, la guardavo, soave ed eterea come una dea, e lì l’implosione, il deserto, il sole, la tentazione di essere liberi ed eterni, poter dare un nome ai propri pensieri: Maisha. Vera, di carne e sangue, l’aurora che ha spazzato via i ricordi del passato e le speranze del futuro, l’immediato congelamento dell’attimo: istantaneo ed elegante in movimento, senza leggi, senza tempo.
Maisha: la vicenda interminabile di una vita, il desiderio costante di libertà, il sapore esplosivo di una notte d’estate, la tormenta di neve che non mi dà mai pace…
La conobbi e ne ero già innamorato. In grembo portava il frutto di un matrimonio combinato, e lei ancora così giovane e indifesa era già vedova e quasi madre.
Il mio diventò un viaggio senza ritorno, la forza magnetica del suo sguardo mi spinse a rimanere nel lontano villaggio africano, dove iniziai a lavorare come volontario presso un piccolo ambulatorio; le condizioni di vita erano davvero difficili, acqua e cibo scarseggiavano e la maggior parte dei bambini erano denutriti e malati per infezioni dovute alla scarsa igiene.
Migliaia e migliaia erano i chilometri che si dovevano percorrere per arrivare al pozzo di acqua potabile più vicino.
Qui conobbi nuove culture e nuove tradizioni, osservavo tutto con interesse, ma soprattutto cercavo lei, in ogni cosa, nelle lune piene, nei volti della gente che incontravo sulle strade del destino, in mezzo a mille persone indifferenti e un pò qualunque…
Mentre pensavo di averla già incontrata da qualche parte nella Babilonia dei miei sogni, di essere vissuto al suo fianco in epoche svariate, di averla salvata da incendi ed incursioni, un’anziana signora urlava correndomi incontro, mi prese per il braccio e mi condusse in una capanna. Stesa sul letto la vidi. Era malata, scuoteva le sue membra compulsivamente, accanto a lei una ciotola d’acqua scura e malsana. Reale. Una sordida e tremenda parola, sorella del mondo infame e violento. Sogno. Paradigma dell’essere e del desiderio, proiezione arcana dello stare dei fatti. Porto via con me la distruzione e la miseria di una realtà che è guerra, sono un giustiziere della fame, sono il boia di tutto ciò che appesta le strade della verità, sono colui che ha l’arroganza di voler uccidere la morte, mentre dentro mi si scatenava la più grande apocalisse per causa sua. Sentivo l’impotenza sulle mie spalle, le bastò guardarmi per farsi capire cosa voleva che facessi. Eccola Maisha tra le mie braccia, piccola ed indifesa, come sua madre, che ora volteggia inebriata di libertà in un mondo sicuramente migliore di questo.