I racconti del Premio letterario Energheia

Astratta profondità_Angela Buccella, Milano

_Racconto finalista ottava edizione Premio Energheia 2002.

 

Ubriaca. Alle ore sedici. Sto con Fanja.

Cinesi. Che schifo! Non sono razzista. Un’intera bottiglia di rhum. Mi accendo una sigaretta. Entra una signora di cinquanta anni circa. “Scusi signorina… nei vagoni della metropolitana non si può fumare!”

“Che è?!” La signora mi ignora e prende posto accanto a me. Spengo la cicca con il tacco della scarpa. Longuette nera.

Gambe lunghe e pallide. Fanja sbatte leggera la testa e canta, urla le canzoni che le rimbombano nelle orecchie. Ha gli auricolari. Li toglie. Osserva per qualche minuto le due cinesi.

Sputa a terra. Torna in catalessi. Ha dei pantaloni bordeaux.

E’ alta. E’ magra. Attrae. Volto pallido. Come il mio. Siamo nichiliste. Siamo anarchiche. Siamo due angeli. Due angeli neri. Angeli della disperazione.

Scendiamo a San Babila, sono le 16.30. Probabilmente non torneremo a casa coi mezzi. Troveremo un altro modo. Spero.

Credo. Fa freddo di notte. Per strada non mi va.

Poliziotti prendono a calci la merce dei negroni: borse, anelli, collanine. Ma sono distratti. Fanja lancia occhiate agli uomini in uniforme. I loro sguardi si posano sul nostro corpo.

Bimbe viziate. Poi mi pizzica il culo e poggia la mano sulla mia vita dicendomi “Andiamo”. Poliziotti in crisi esistenziale.

Si guardano tra loro incerti. “Quanto ben di Dio sprecato!”- sento sussurrare uno di loro. Noi ridiamo.

Camminiamo come due modelle sul cemento, potrebbe essere una sfilata. I riflettori che ci illuminano potrebbero essere i lampioni posti agli angoli della strada.

Entriamo in Brera. E’ già buio, Ore 17.15. Quintali di cartomanti e maghi. La mia amica non ci crede. Mi fermo ad una bancarella. Candele. Ossessione. Mi innamoro. Totalmente nera, grande, la parte superiore è bianca con sfumature rosse, la compro. La amo. Quindicimila lire. Resto attratta da una scolpita a forma di teschio. Ma mi sa molto di “Amleto”, così resta sul ripiano di legno. Andiamo avanti. Credo nella magia, nella cartomanzia, nella veggenza, nei sensitivi. Non credo in Dio. Atea. Non è il termine giusto. Sono una strana cattolica praticante. Non credo in Satana. Credo nel male, nella cattiveria, nell’ignoranza. Credo nel destino, nella fatalità, nel caso, nell’eventualità. Niente è programmato. Forse. Certezza.

Dubbio.

Niade. Sensitiva. Vestita di nero. Mazzo di carte in mano.

Capelli neri e lucidi come seta. Mi avvicino. Mi sorride. “La morte sia con te!”, sussurra.

Proietto la lingua fuori dalla bocca e rispondo “Grazie sorella”.

Vado avanti.

Banchetti pieni di megere che strillano “Diecimila lire!

Ragazze mie!! Diecimila lire! Vi leggo il futuro!! Carte portafortuna!”

Guardo Fanja. Mi sibila tra i denti un “Fanculo. Scordatelo.”

Sembra il personaggio di un fumetto. Di un cartone animato.

I suoi gesti. I suoi atteggiamenti. Come si muove. Come parla. Tutto ciò che la caratterizza è estremamente dolce. Come un biscotto ripieno di miele.

Tra tutta la cagnara delle veggenti che cercano di attirare a sé clienti, noto una donna in silenzio, in tutta tranquillità. Due candele bianche la fronteggiano. Indossa un cappellino nero e una volgare mantella rossa. Forse è per le candele. Non lo so. Ma mi avvicino. Si chiama Noella.

“Quanto vuoi?”, domando.

Una richiesta che sa molto di cliente di una prostituta.

“Perché me lo chiedi? Tanto non vuoi fare veramente le carte”.

Mi siedo. Parliamo: “Scrivi racconti, vero?” – “Come fai a saperlo?” – “Sei pallida”, sospira.

Tutto il resto della passeggiata resto in silenzio.

Non rifletto. Non penso. Alcool. Quello in corpo mi ha dato alla testa. Ma non taccio del tutto. Grugnisco.

La mia compagna ride di gusto.

L’insegna rossa del pub si riflette sulla punta dei miei stivali.

Fanja rimane a guardarmi, poi mi chiama piano…

“Astra?”. Non la calcolo. Sto male. Tutto il pranzo lo sento piazzato sullo stomaco. Mi gira la testa.

“Astra?” Ripete. La mia reazione non cambia.

Le lancio un’occhiata, ha un’espressione stronza nello sguardo.

Si inginocchia a terra e piangendo prega.

“Mi dispiace”, urla.

Nel bagno di Mc Donald tiro fuori dalla borsa il mio rossetto nero e scrivo sullo specchio “TI AMO… AMAMI ANCHE TU!”

Poi lo bacio. Il vetro diventa opaco per il mio respiro.

Compro un cono gelato, ne prendo un po’ con le dita e lo distribuisco omogeneamente sul collo di Fanja. Ridiamo.

Poi si pulisce, leccandosi i polpastrelli che lo hanno rimosso dalla sua candida pelle. Siamo due bambine. Giochiamo.

Bimbe viziate alte 1,72, bianche, magre, angeli della disperazione.

Mi sveglio. Ho la testa pesante. La posiziono sotto il cuscino.

Poi prendo un libro tra le mani e provo a leggere. Mi va in fusione la vista. Ci rinuncio. Passo le sette ore più rilassanti di tutta la mia intera vita. Sotto le coperte. Abbioccata.

Trasalgo solo allo squillo del telefono. Non conosco la vera personalità di coloro con cui parlo. Non mi interessa. Gli racconto la mia vita. La mia paura. La mia angoscia. La mia ossessione. Le mie abilità. Le mie paranoie. La disperazione che traspare dal mio ossuto corpo.

Sul cemento posavo i miei piedi. Mi misi seduta sul marciapiede ed osservavo le stranezze delle persone che mi passavano davanti. Notai una giovane bionda con atteggiamenti seducenti, indossava una maglia lilla, dei pantaloni neri e gesticolava vistosamente con un ragazzo, che non faceva nulla per nascondere il suo eccitamento.

Fine del discorso. Cambiamento improvviso. La tizia si allontana sola, dopo aver civettato un: “ciaooo bellooo! ” e la vedo proiettarsi in una panetteria, lì vicino, per poi rivederla uscire addentando, allargando le fauci imbrattate di rossetto, della focaccia col pomodoro. Mastica. A bocca aperta. Affamata. Sugli angoli delle labbra bruscoli di pane che audacemente con un veloce movimento della lingua ritira all’interno della sua cavità orale. Allibita. Trasformazione. Cambiamento.

La sto perdendo di vista. Faccio in tempo solo a notare una mano che si infila nei pantaloni, nel tentativo di aggiustarsi il probabile tanga che aveva sotto.

Vomito.

Sono in macchina a fianco di mia madre. Sta guidando.

Semaforo. Mi sta parlando. Ma sono distratta da tutto ciò che mi passa davanti allo sguardo. Occhi proiettati fuori dal finestrino.

Ponte di Corsico. Gli occhi mi fanno male. Forse il dolore è dovuto al mio troppo guardare. Ma i miei occhi si cibano di colori, di facce etc… Albanese. Poco più che ragazzo. Basso. Elemosina. Gambe troppo sottili per tenerlo in piedi. Occhi chiari. Riccio.

Sporco. Apro la portiera. Mia madre strilla un “Che cosa stai facendo?” Scendo. Correndo. Gli vado incontro. Gli dico

“Ciao”. Il suo sguardo si illumina. Non noto tristezza. Ci scambiamo delle occhiate. Poi ci stringiamo forte. Lui piange.

Diventerò cieca. Gli occhi mi fanno male da troppo tempo.

Se diventassi cieca morirei. Io non posso non guardare.

Vivo per le immagini. Io non posso non scrivere. Ma non avrei più nulla da scrivere. Io morirò. Lo so. Ma perché ho anche la certezza che diventerò cieca.

Litigo con la donna che mi ha messo al mondo. Non può torturarmi con le sue parole. Scardina la porta, “Non puoi tenerla chiusa” – “E perché?” Non ha spiegazioni. Sono. Sono.

Non so cosa sono. Lei se ne va. Mi lascia sola.

Posiziono il mio corpo davanti allo specchio in camera mia e mi graffio il volto. Non sento dolore. Pena e basta. Sanguino. Fanja è innamorata. Io non credo. Provo attrazione per qualche ragazzo. Ma anche per alcune ragazze. Non sono lesbica.

E’ solo attrazione. Non è fisica. Non è sentimentale.

E’. E’. E’ e basta. Basta.

Mi sento grassa. Ho fame. Non sto bene nel mio corpo. Lo so. Lo so. Mangio tantissimo. Poi rimetto con un dito infilato in gola.

Sto bene.

Devo stare bene.

Sì, sì. Mai stata meglio.

Mi manca la placenta.

Voglio tornare bambina,

No.

Non voglio più nascere.

Dovrei ripercorrere le tappe.

Da gioioso e puro essere a quello che invece sono ora.

Fatemi rimanere un angelo.

Un angelo nero.

Angelo della disperazione.

Mad. Questo è il nome del tipo di Fanja. E’ uno strano. Ha un orecchino al labbro. E’ pazzo. E credo, sia per questo che le piace. Ha un taglio di capelli un po’ femminile. Sono neri. Sparati in aria. Con lunghe ciocche che gli coprono il viso.

Non gli ho mai visto gli occhi. Penso faccia di proposito a nasconderli. E’ bianco. Pallido. Forse è anche per questo che a lei piace. Si veste sempre con delle magliette troppo strette ed aderenti per lui, con scritte quali: “GRUNGE IS DEAD” e dei pantaloni quasi sempre neri. Stretti anche questi. Sembra uno spicchio di luna. Se fosse un fiore, sarebbe una splendida magnolia. Mi piace quando per salutarmi mi stringe e gli sento tutte le ossa. Mi piace sentirlo così poco “in salute”. E’ uno splendido esemplare. Ma non so di cosa. E’ da un po’ che parlo senza sapere. Ma è un esemplare. Un raro esemplare.

Alle 22.30 ormai avevo un appuntamento. In camera mia.

Davanti al quadro della Madonna. Accendevo tre bastoncini d’incenso. Guida spirituale. All’oppio. Al the verde. La cenere cadeva e bruciava la scrivania. Tre candele accese. Nera. Viola. Bianca. Consacrata. Presa in Chiesa. Tutto benedetto. Atmosfera pesante. Cupa. Ma solo così riuscivo ad addormentarmi.

Era un sonno dogmatico. Niente avrebbe potuto svegliarmi. Mi vedevo seduta in Chiesa. Stavo bene. Potevo piangere in silenzio, nessuno sarebbe venuto a domandarmi il perché. Lì potevo astrarmi, nessuno avrebbe appositamente richiamato la mia attenzione. Il mio abbigliamento aveva quasi placato il mio animo oscuro, la mia esagerata profondità. I capelli li tenevo legati con una piccola molla nera, avevo un maglioncino colore azzurro cielo, dei jeans strappati e le scarpe da tennis bianche. Tipica immagine di una brava ragazzina tutta casa e Chiesa. Alle mie spalle una ragazza. Agitata, nervosa, nevrotica; il “Padre Nostro” pronunciato dalle sue labbra era recitato a ritmo di musica disco. Al mio lato una donna altissima, dai lineamenti morbidi che donavano eleganza al suo maestoso aspetto; un foulard girato intorno al capo, come un turbante copriva la sua calvizie, causata, forse, dalla chemioterapia. Inconsciamente avevo donato un nome alle due insolite figure femminili: la ragazza nevrotica aveva così assunto il nome “Debby”, la donna con il turbante “Stella”.

La mia attenzione si spostava velocemente prima sull’immagine dell’una e poi sull’altra. Intorno a me sembrava fosse calato il buio, le due donne, al contrario, erano immerse in una strana luce, o, meglio ancora, era un bagliore, un pallido bagliore.

Mi inginocchiavo ai piedi della panca su cui ero seduta e pregavo, a modo mio: le uniche parole che mentalmente pronunciavo in maniera quasi ossessiva erano “ Sono qui!! Sono qui!! Sono qui!!”: Un processo mentale fortissimo. Poi mi voltai alla ricerca di Debby, non c’era. Era andata via. Anche la donna col turbante si alzò e si avviò verso l’uscita sostando per un lento ed addolorato segno della croce.

Erano le 22.30, più o meno ed io camminavo nel buio invernale della notte, stretta nel mio cappotto nero, che per la sua inconsistenza mi faceva comunque tremare per il freddo.

Vicino ad una gelateria mi fermai. Era una zona riparata dal vento. Rabbrividii. Sarei tornata volentieri in Chiesa, ma il parroco aveva chiuso le porte ed io non avevo avuto il coraggio di domandargli un posto dove passare la notte, mi ero vergognata. Affondai le mani nelle tasche, le dita frugarono e trovai seicento lire, neanche un bicchiere d’acqua da Mc. Donald, mi sarei potuta permettere. Avrei voluto la mamma, che con una sola stretta mi avrebbe inflitto calore, la mamma che mi avrebbe riempito di coccole e baci. Mi tolsi il cappotto.

Posai il mio corpo sul cemento e mi coprii con quello.

Domani sarei tornata in Chiesa. Dio di giorno non mi abbandonava, mi lasciava sola soltanto durante la notte, anche Lui chiudeva, come i negozi, meno male non dovevo comprare nulla, al contrario, non avrei potuto andare, nemmeno lì. Posi il mio corpo su un lato, strinsi a me il cappotto, fregavo spasmodicamente le cosce tra loro, mi donava un leggero bruciore che presto si trasformò in sensazione di calore. La strada era buia. Non passava nessuno, solo io, il cemento e la notte. Davanti ai miei occhi sfilavano negozi costosi e lussuosi con la saracinesca tirata giù. Anch’io avrei voluto avere una famiglia, un lavoro, poter andare almeno ogni tanto dal parrucchiere, che le donne più sofisticate, chiamano “coiffeur”, avrei voluto portare al dito un anello bellissimo, ricevuto in dono da colui che avrebbe potuto essere il mio fidanzato e futuro sposo.

Con queste fantasticherie in testa mi addormentai, stavolta senza sognare.

Mi mangio le unghie. Lo smalto salta. Un tempo mi piaceva averle lunghe. Ora non più. Sono la causa delle mie ferite.

E quelle visibili nascondono quelle più profonde. Incise nella mia anima.

Avevo trovato il metodo per urlare quello che pensavo. Le mie idee ribelli. La musica ska. La musica punk. Non la facevo.

La ascoltavo. Ma mi bastava. Non pretendevo altro. Mi piaceva scaricarmi così. Non avere tensione. Il problema perciò non rimaneva più solo mio, ma degli altri. In quei pochi minuti io lo risolvevo.

“Portate sedicenni dagli strizzacervelli soltanto perché fumano spinelli… non si tagliano i capelli… sarete belli voi…”

Il mondo intero piange. Il mondo intero sanguina. In noi non c’è divieto. Un banale vietato vietare. Si stacca la crosta terrestre. Minerali tra le mie mani. Ore a guardarli, a studiarli.

Le loro caratteristiche fisiche e chimiche. Di che famiglia sono? Professoressa della mia non di certo. Ok. Foglio riconsegnato nelle mie mani. 5+ .

Azione morale. Le mie azioni sono tutte morali. Quelle degli altri no. Io vivo senza nascondere i miei “credo”. Le mie debolezze. Ciò che sono traspare da me, sempre, in qualsiasi circostanza. Faccio ciò che dovrei fare. Per questo sono strana. Per questo mi dicono “Non sei normale”. Per questo le mie azioni sono morali. Per questo loro non capiscono. Per questo io sono, ero e resterò un’incarnazione di un’azione morale. In fondo sono un angelo. Un angelo nero. L’angelo della disperazione.

Perché lui non era più il mio compagno? Perché lui non condivideva più con me le cose belle e brutte? Perché non mi aveva più voluto aiutare quando avevo bisogno? Perché continuavo a pensarlo nonostante avessi la coscienza di doverlo, di poterlo scordare? Perché?

… Ciack…

Certe affermazioni mi ferivano. Erano abrasive per la carne del mio cuore. Rosicchiavano la mia anima. Soffermavano in gola per crearmi difficoltà nell’intento di respirare.

“Ti amo” – “Anche io”.

Il giorno dopo mi lasciava.

“Perché allora mi hai detto ti amo?”

“Non ti ho mai detto ti amo, ho solo risposto – anch’io -”.

Il freddo vento mi bruciava la pelle.

“Ormai il – ti amo – fa parte del nostro passato”.

“Non è colpa tua, sono solo io che sono troppo complicato”.

“Hai ragione, sei troppo complicato”.

Mi aveva uccisa. Aveva acceso, come una sigaretta, con quel cazzo di accendino, il mio cuore e poi, dopo averlo lasciato ardere e bruciacchiare per bene, mi aveva spento in un posacenere.

Mi aveva usata. Fa male dirlo. Mi provoca una sensazione sgradevole. Ma mi aveva usata. Questo è vero. Lo dovevo ammettere. Ne ero cosciente.

Lacrime. Ustionavano le mie guance.

Lacrime. Scavavano il mio volto.

Lui era il tizio che mi sbatteva contro il muro e mi diceva:

“Astra, ti amo davvero!”

“Astra come sei bella”

“Astra mi vuoi sposare?”

“Astra mi vuoi sposare?”

“Astra mi vuoi sposare?”

Durante la storia con lui non vedevo altro che lui, il suo naso, la prima cosa che appariva, la sua panda, rossa, le musicassette di merda che mi dava da ascoltare, cassette con incisa la sua voce. Di cosa parlavano i testi? Di tutte le tipe con cui se l’era fatta! Di tutte le tipe con cui aveva avuto rapporti!

“Canti proprio bene. Bella la cassetta, amore! Mi sorge però il dubbio che tu possa essere uno schifoso pezzo di merda!”

Non si può ammirare chi è crudele.

Non si può ammirare chi gioca con i sentimenti altrui.

Non si può ammirare un doppiogiochista.

Non si può ammirare un egoista.

Non si può ammirare uno squallore umano.

Non si può ammirare un falso.

Non si può.

Non si può.

La fama, eventuale, i soldi, eventuali, non lo renderanno un uomo.

Matteo. Teo. Teo. Teo. Teo. Teo. Teo.

E’ diventata un’ossessione, un tormento.

Ma è passato!! Non è più presente ed ora non voglio neanche che diventi mai futuro!

Non sono falsa, ma ho sofferto troppo, sono stata umiliata e pugnalata, senza neanche aver mai ricevuto una scusa per certi comportamenti, per certi atteggiamenti, per certe parole.

Mai una scusa.

Questo è sadismo.

Come fregare le unghie sul vetro.

Come causarsi profondi tagli sul corpo.

Come mangiarsi affamati pezzi della propria carne.

Come friggere le proprie interiora in olio bollente.

Come.

Lui sa che scrivo e mi aveva chiesto di non raccontare di noi, dopo la nostra rottura.

Ho disubbidito.

Mi sono ribellata.

Questa è la mia vendetta. La mia vendetta. Aver scritto tutto e poterlo rileggere.

La mia vendetta è il disprezzo di cui la mia anima è impregnata a causa sua.

Il mio disprezzo è dovuto al fatto che io, quando avrò e se avrò un’altra storia, più o meno seria, non riuscirò a credere alle parole, anche se sincere di quel mio nuovo compagno.

Un – ti amo – non è eterno, ma non è passeggero. Un bacio per me significa molto, per altri è un gioco.

Sconvolgente. E’ sconvolgente come le cose brutte s’insinuino dentro di te e rimangono talmente a lungo da sembrare eterne, al contrario le cose belle volano. Come queste parole…

Tranquillanti. La valeriana è a base naturale. Mi imbottisco.

Nessun effetto.

Mi capita di accarezzarmi la pancia. Penso a come starei avendo una vita dentro di me. Penso a quanto sarebbe bella mia figlia. Voglio una bambina. La immagino alla mia età.

Sarà alta. Lo so. Pallidissima anche lei. Lo so. Una bellezza cupa. Lo so. Occhi grandissimi e scuri. Lo so. Capelli lunghi.

Lo so. Neri. Lo so. Magra. Lo so. Scheletrica. Lo so. Sarà l’incarnazione del romanticismo. Sarà solo mia figlia. Sarà Benedetta. La amerò. Sarà quello che io non sono mai riuscita ad essere. Amerà l’alterazione mentale. Ma non avrà in eredità da sua madre gli scompensi. Quelli no. Soffrirebbe.

Io sono stata magrissima. Un tempo. D’estate.

Sentivo che il mio scheletro era coperto da sola pelle. Ero così. Avevo le gambe lunghissime e candide. Ho sempre avuto la pelle bianca. Odio il mare. Ma ci sono sempre voluta andare. Quando al sole mi scottavo, ridevo della sensibilità del mio corpo.

Poi sono ingrassata. Ho messo un po’ di carne. Mia madre è felice. Io inizio ad avere fame. Non trovo più me stessa.

Gargamella ha mai mangiato un puffo?

Gatto Silvestro ha mai catturato Titti?

Astra è mai morta?

In un certo senso, sì.

Vorrei riempirmi la faccia di piercing. Un piercing lo si fa perché si hanno paranoie. Così dice la gente. Io un piercing lo farei solo perché mi va. Per questo non ne ho. Sarebbe doloroso.

E il mio corpo è già troppo impregnato di dolore.

Avrei bisogno di rincontrare Noella ed avere delle conferme da lei.

Avrei bisogno di un tipo come Mad al mio fianco.

Avrei bisogno di guardare Benedetta e di sentirmi realizzata.

E così per l’ennesima volta, mi armai di luce e la mia soluzione fu un semplice gesto: accendere una candela.