I racconti del Premio letterario Energheia

Un fiore a lungo atteso_Alessandro Vittori, Roma

_Racconto finalista decima edizione Premio Energheia 2004.

 

Dopo ore di una pioggia fitta e leggera, quasi insolente, la finestra era tempestata di minute goccioline d’acqua. Le osservò annoiato, tentando di unirle in un qualche disegno, ma nemmeno quel gioco infantile allentò la tensione che gli montava dentro. Si avvicinò al vetro e saggiò con l’indice il freddo marmo del davanzale. Vi era un velo di polvere, come del resto in quasi tutta la casa. Nessuno la visitava, nessun’altra voce echeggiava tra quelle mura, solo il suo passo lento e metodico risuonava nel grande attico veneziano. Studiò quel salotto accogliente eppure non suo, e si chiese se lui avrebbe mai acquistato mobili del genere. Nulla in quella casa rispecchiava il suo gusto, e la cosa che più gli appariva strana era che nonostante ciò, nulla era manifestamente contro il suo gusto. Erano mobili, libri, quadri che chiunque non avrebbe faticato a tenere in casa, ma non erano personali, vissuti. Era come l’esprimere un giudizio che nessuno può controbattere, ma che al tempo stesso non porta nulla di proficuo ad una discussione. Due sole cose in quella stanza, in quella casa, forse in lui stesso erano sue, erano intime, inviolabili. La prima era accanto al caminetto, mai utilizzato, in piedi su di uno sgabello. Era vecchia oramai, ammaccata e ossidata, ma il tono squillante che sapeva far udire sarebbe stato ancora capace di emozionare. Quanto tempo era passato da quel giorno di marzo in cui suo padre gliela aveva regalata. E come brillavano gli occhi dell’anziano, dietro i piccoli occhiali portati con fare scherzoso, mentre il figlio cercava di far uscire qualche suono dallo strumento. Per anni aveva scaricato tutte le sue ansie, tutte le paure col suono fiero e bellicoso della tromba. Per anni aveva lottato contro la madre, che si lamentava di quel frastuono assordante, ma ogni volta quella battaglia lo rendeva soddisfatto di combattere per una cosa sua, per una cosa che fosse un modo di esprimersi di Felice Matteucci.

E ora era lì. Impolverata anche lei. Erano dieci anni che non la suonava, che di colpo, senza motivo, aveva deciso di non usarla più. Ma ogni volta che doveva fare le valigie, che doveva partire, lei era con lui, come un talismano, come un prolungamento del suo corpo. Forse era solo un ricordo, forse solo un’abitudine, ma quella tromba doveva essere con lui. Quell’oggetto davvero poteva essere una parte di Felice, testimonianza tangibile di una scelta, di una decisione che aveva seriamente cambiato il suo presente, in un certo senso annullato il suo futuro. Così come sua era quella giacca, di velluto marrone, vecchia anch’essa, con i gomiti, consumati e lisi. Ormai la indossava solo in privato, quando nessuno poteva vederlo, e in un certo senso lo faceva sentire a casa. Era sì una giacca come tante, come quelle che in Italia andavano di moda a metà degli anni ’70, ma era il modo con cui Felice la portava che la contraddistingueva dalle altre, che la faceva diventare un sintomo chiaro ed evidente dei suoi natali. Il velluto era, infatti, tratto comune della cultura contadina dell’Italia centro-meridionale, ma i lucani – quei tipi scontrosi e burberi – indossavano gli stessi capi rendendoli quasi sciatti, trasandati.

Non era solo un fatto di accostamenti cromatici, o di cravatte mal annodate, era qualcosa di più intimo, di più sottile. Così era possibile distinguere un lucano, da un salentino, piuttosto che da un abitante della Tuscia, oppure da un sabino. Perché vi era quella giacca indossata come uno scudo nei confronti del tempo capriccioso, i pantaloni bene stretti in vita e corti sulle scarpe, la camicia a quadrettini, con i bottoni malsicuri.

E a Felice tutto questo piaceva, come se fosse un legame inscindibile con i suoi antenati, come se fosse un omaggio a quanti erano vissuti prima di lui. Era manifestare apertamente, a tutti, quanto aveva dentro, la ricchezza e la storia di una terra difficile quanto generosa.

Ma anche quella giacca, così come la tromba, faceva parte di un passato che non sarebbe tornato. Era un uomo in grisaglia ora, con giacche grigie e cravatte regimental. L’orologio che aveva al polso era piatto, tondo, con il fondo bianco. Il tipico orologio da professionista, si sarebbe detto, con movimento svizzero e cinturino in coccodrillo. Quanto avrebbe desiderato un orologio grande, d’acciaio, sportivo, di quelli che pesano al polso. Aveva sempre avuto una grande passione per quelle macchine, per i “metri del tempo” come li chiamava lui. Era una cosa misteriosa e affascinante, come quei meccanismi riuscissero a descrivere una entità così effimera, eppure così importante come il tempo. E non era solo la sua mente matematica da ingegnere che lo faceva riflettere così, era qualcosa di più sfuggente, come il bisogno di dominare quella forma dell’essere, che in un certo senso non poteva controllare. Certo non era il primo a rendersi conto di come fosse soggettiva l’idea di tempo, ma finché non si era trovato a non doverlo più considerare una funzione matematica, non aveva apprezzato le noiose lezioni di filosofia del liceo.

Guardò di nuovo l’orologio che gli avevano regalato tanti anni fa vedendo che era giunta l’ora di uscire, e rimirò con una smorfia fuori dalla finestra, perché ancora pioveva. Si tolse la giacca, e ne infilò un’altra, più elegante certo, ma di sicuro meno calda in quelle giornata umida. Controllò che in una tasca ci fosse la busta che la sera prima aveva preparato, e uscì di casa.

Da dove abitava alla stazione, il tragitto era breve, e lungo tutto il percorso c’erano i luoghi della sua quotidianità: la vecchia libreria, il negozio di stoffe in cui comprava i tessuti per la moglie e la figlia, e appena sotto casa il caffè, in cui trascorreva le mattinate libere. Stavolta non si fermò in nessuno di questi luoghi ma tirò diritto fino alla stazione, fino a quella scalinata larga e sgraziata che stonava con il carattere indolente e narciso della città. Salì i gradini con circospezione, guardandosi attorno e prima di avvicinarsi al suo binario comprò un mazzo di fi ori.

Lo fissò a lungo mentre era sul treno, interrogandosi di come un gesto che agli occhi di un’altra persona poteva sembrare normale, galante, forse anche gentile, per lui invece nascondeva il sapore di una sconfitta, di una vita gettata. Erano delle banali rose rosse, perché non avrebbe avuto senso scegliere un altro tipo di fiore, perché nessun altro era più adatto al suo scopo. Un tempo forse avrebbe dovuto pensare a quel dettaglio, ma ora la scelta di certi particolari faceva talmente parte di lui, che gli veniva naturale, e questo lo spaventava.

Così tutti gli altri passeggeri notarono le rose ma nessuno fece domande indiscrete perché tutti, sbagliando, avevano chiaro il motivo di quei fiori. E lui, da par suo, tenne la conversazione ad un livello per cui lasciava intendere senza dire nulla, senza scoprirsi, senza far affiorare inflessioni dialettali, ma lanciando qua e là qualche termine tipicamente veneziano.

Finalmente era giunto in quel piccolo paesino che non visitava da anni e con sollievo notò che nessuno dello scompartimento scendeva con lui. Con calma attraversò la stazione e notò che ogni cosa era esattamente come l’aveva lasciata l’ultima volta. Quanti anni erano passati? Forse quattro, ma questo aveva davvero poca importanza.

Appena uscito dalla stazione, come per un colpo di fortuna trovò proprio quello di cui aveva bisogno. Vi si avvicinò con naturalezza, noncurante delle altre persone. È strano come a volte nulla sia più studiato ed innaturale della naturalezza, di come un’azione illecita sembri a tutti invece una cosa normale.

Così quella moto appoggiata al muro faceva davvero al caso suo, rossa e potente. Di certo non poteva andare a piedi fino alla sua meta, o peggio prendere di nuovo un mezzo pubblico, col rischio di incontrare qualcuno. E poi le moto erano sempre state la sua passione, il vento nei capelli, il mal di schiena la sera, e la pelle d’oca ad ogni curva azzardata. Ma sua moglie Anna prima, e poi il lavoro gli avevano sottratto questa gioia.

Ora poteva soddisfare un’esigenza con anche una piccola soddisfazione, e questo lo rallegrò un poco. Con disinvoltura si mise in sella, e come se fosse sua da una vita, fece cantare il motore italiano.

Un attimo dopo era già sulla strada che portava fuori dell’abitato, e il mazzo di fiori era andato a finire in un prato sul lato della strada.

Non aveva dimenticato come ci si potesse sentire liberi su due ruote, di come il mondo assumesse una diversa prospettiva, più allegra, più solare. E si ripromise, convinto stavolta, che sarebbe tornato a correre in motocicletta, che non si sarebbe più fatto mancare questa gioia nella vita.

Ma anche quel lampo di felicità era destinato a scomparire, visto che la costruzione antica e un po’ diroccata si stagliava già in fondo alla strada.

Vi arrivò con indolenza, senza dare ad intendere che avesse fretta, o che dovesse fare qualcosa di importante. In un attimo decise che era meglio camuffare il suo modo di parlare, di nascondersi dietro un forte accento, perché anche in un posto così isolato e silenzioso, le voci correvano, eccome. E allora Felice pensò, che era meglio rispolverare quel dialetto schietto e sanguigno che una parte della sua famiglia aveva parlato, e che suo padre, ad ogni festa comandata, esibiva per rallegrare le grandi tavolate. Erano ricordi felici ma lontani, di quando a casa Matteucci tornavano i parenti da Piacenza, e lui e i suoi fratelli erano ancora piccoli.

Tossì per schiarirsi la voce – e col pensiero del padre – suonò al portone tetro e monumentale. Come per contrasto un piccolo, gobbo e malfermo frate, dal saio consumato, aprì l’imposta osservandolo con fare minaccioso, per quanto potesse esserlo. Parlava nel più puro veneto che Felice avesse mai sentito, vicentino indovinò. E lui rispose in piacentino che cercava Frate Gabriele, facendogli capire che era un amico.

Quello lo guardò di nuovo, ma stavolta senza espressione, e lo fece entrare. Sempre senza parlare lo condusse in fondo al chiostro, e girò a destra inerpicandosi su una teoria di scale ripide e malsicure. In cima sbucarono su un piccolo corridoio, stretto e male illuminato. Alla terza porta sulla sinistra, contando dalle scale, il padre guardiano bussò, e di nuovo senza dir nulla scomparve come se non fosse mai esistito.

Si chiese se sarebbe mai arrivato a quella veneranda età, e già sapeva che era una vana speranza. Ma stavolta, anche lui che dissimulava le emozioni, fece una smorfia, tanto che il frate che stava giustappunto aprendo l’uscio se ne accorse.

Si guardarono a lungo i due, negli occhi, come erano soliti fare. Di certo Felice era ancora un uomo attraente, con il naso all’insù, gli occhi teneramente a mandorla, e le labbra femminili e pronunciate. I capelli ora li portava corti, perché da una pezzo aveva rinunciato a pettinarli dal momento che erano crespi e ribelli, e un filo di barba gli dava un’aria di sufficienza. Quella forse l’avrebbe eliminata, ma come per l’orologio, la giacca, la cravatta, doveva assumere quel tono anonimo e senza personalità, che ora sembrava soffocarlo.

L’altro invece era invecchiato, quasi trasfigurato. Due lunghe e profonde rughe gli segnavano il volto, solcandogli le gote. Le labbra, un tempo carnose, si erano ormai ridotte a due segni senza una forma. Il naso poi, già grande in gioventù, si era fatto ricurvo e stanco. Ma gli occhi, quegli occhi taglienti e glaciali, d’un colore quasi irreale, quelli non erano cambiati.

Erano ancora quegli occhi intensi e spietati che Felice in un certo senso temeva. E per lungo tempo gli occhi del frate lo scrutarono, cercando di carpire se l’amico avesse un tormento nell’anima, un male oscuro e profondo che gli divorasse lo spirito. E alla fine, percepito il marasma di neri sentimenti e opache visioni che aleggiavano in Felice, accennò un sorriso e lo fece accomodare nella piccola cella. Uno sgabello, un tavolo, uno scomodo letto, e libri, libri, impilati in ogni angolo della stanza erano gli unici arredi. Leggeva, leggeva ogni cosa, di ogni cosa era curioso, di ogni cosa amava indagare il perché e il percome.

Felice gli fece capire che aveva poco tempo, ed estrasse dalla giacca la busta, che aveva preparato il giorno prima.

– Fra qualche giorno, non so dirti quando, succederà qualcosa, e tu comprenderai che è giunto il momento di farmi il favore che ora ti chiedo. È semplice, devi solo inviare questa busta a Napoli, da Anna. Vedrai che saprai da solo quando sarà l’esatto momento in cui dovrai farlo.

– Non capisco, perché tanta attenzione per una busta? Mi sembra un gesto normale…

– Vedi, nella mia vita ciò che agli altri può sembrare normale assume un altro significato. Un uomo normale non vorrebbe mai fare una cosa come questa. Non chiedermi cosa c’è dentro la busta che ti ho dato, e so che non l’aprirai.

– Vorrei solo intendere di più di questa faccenda. Non mi sembra una buona idea tutto questo mistero, una volta ci dicevamo ogni cosa, non esistevano segreti tra noi.

– Lo so, ma ora tutto è cambiato, nulla ha più lo stesso senso. Ti chiedo un favore da fratello, quale ti ho sempre considerato. E non rendere più penosa questa scelta – e dicendolo si avviò verso la porta.

– Felice… -, e lo fissò con umana pietà, come una bestia ferita e spaventata – sto morendo.

E lui, freddo, asciutto: “Anche io”. E non aggiunse altro.

Non era tipo da tanti convenevoli, da discorsi importanti e ricchi d’immagini. Lasciò cadere quelle due parole con estrema freddezza, come se lo scandirle meccanicamente, senza nemmeno unirle nella pronuncia, fosse una mossa di distacco, studiata e ragionata.

Quella sera l’unica compagnia di cui avesse bisogno era una bottiglia di brandy, di quelle che sua moglie Anna non voleva entrassero mai in casa. Come erano diversi lui e sua moglie.

Se ora pensava che l’amava, che avevano vissuto tanti anni insieme, che avevano generato una figlia, tutto gli sembrava impossibile, lontano.

L’aveva conosciuta durante una lezione di Analisi, all’Università.

Lei era iscritta alla facoltà di Matematica, e lui era uno studente di Ingegneria chimica. La prima volta che la vide era come se la poteva ricordare ora, chiudendo gli occhi: una donna dal viso tondo e gentile, di un’età indefinita, con lunghi capelli, castano chiaro, i fianchi un po’ larghi ma senza rovinare la linea di quel corpo. Notò subito che aveva

una piccola imperfezione sul labbro superiore, e si chiese quanto avrebbe dovuto aspettare prima di baciarla. Tre anni.

Tre lunghissimi anni di corteggiamenti estenuanti, nottate passate a parlare dei massimi sistemi. E lui, che era stato un gran maestro delle compagnie goliardiche, aveva dovuto abbandonare questo mondo. Allora si disse che per lei valeva la pena rinunciare a fumare, rinunciare al ballo, condurre una vita impegnata. Perché era questo in fondo che li divideva da sempre. Sorrise di quel pensiero sciocco, ma non poteva non riflettere che Anna rappresentava alla perfezione il militante di quel partito che vedeva in un sardo triste ma sereno la stella polare, il punto di riferimento più alto. Di loro due si sarebbe detto che erano persone perbene. Ma quella vita lo aveva stancato, in un certo senso nauseato, perché non era fatto per tavole rotonde, manifestazioni, cortei.

Questo non voleva dire che avesse rimproverato alla moglie le sue passioni politiche, e anzi l’aveva incoraggiata ad intraprendere la carriera da quadro, ma in fondo anche questo rientrava in una strategia, che ora Felice non poteva più nascondere, nemmeno a se stesso. Un giorno, il partito avrebbe pensato a lei, alla piccola Chiara e lui sarebbe stato tranquillo.

Bevve un altro bicchiere di brandy e guardò di sopra al tavolo, dove aveva appoggiato una ingombrante valigetta, socchiudendo gli occhi. Era tardi, e i pochi avventori del caffè stavano per rincasare. Ma lei no, lei sarebbe rimasta fino al mattino. Le lanciò un’occhiata e lei sorrise, mostrando gaie le fossette che si formavano sulle gote.

Da quando abitava a Venezia non era passato giorno che non fosse andato al caffè, e ogni volta c’era lei. Ogni giorno lui ordinava un caffè al mattino e un brandy alla sera. E ogni giorno lei aggiungeva alle ordinazioni uno di quei sorrisi sensuali e sbarazzini. E lo faceva sentire bene, come alleggerito dai suoi pensieri foschi. Sapeva che si chiamava Luisa, che era veneziana e poi ogni altra cosa sembrava inutile, perché Luisa pareva essere uscita da una commedia di Goldoni, una Mirandolina in carne ed ossa.

Ora si accorse veramente di quanto fosse bella, di come fosse così straordinariamente uguale a tutti i suoi sogni di gioventù. I capelli d’oro lisci e soffi ci che le cingevano il viso dolce e un poco infantile, il naso piccolo e delicato, quasi da sembrare di porcellana, il seno florido e tondo, a contrasto con le braccia lunghe e magrissime. La vita sottile, come di una vespa, accentuata, con diabolica femminilità, dal grembiule corto da lavoro.

Che dire poi di quegli occhi? Verdi, come il mare di Venezia, ma non con la stessa luce di morte, con invece il fulgore della vita che scorre, che non sa cosa sia la paura.

E lui quella sera vinse la sua di paura, e fece una cosa che mai aveva fatto in quegli anni: si avvicinò al banco e le sorrise. In un attimo quegli anni silenziosi ma significativi avevano tutti dato appieno il loro frutto, e Felice si accorse di come avesse sbagliato tante cose nella vita. Si accorse che amava Anna, ma che la stima, l’affetto, non possono prendere il posto della passione, che per amare una persona non si può soffocare se stessi. Si era forzato ad essere un altro, perché da sempre era abituato a sacrifici, a tenere ogni cosa dentro, ad essere forte.

E questo per cosa? Per una donna che amava, forse, ma che non lo faceva emozionare, non lo rendeva migliore.

Luisa invece era lì, splendida e provocante, che lo guardava, e Felice non ebbe dubbi. Non ebbe dubbi perché quella mattina presto, quando su tutta Venezia c’era una fi tta nebbiolina, lei gli sorrise fino ad arrivare in Giudecca, dove aveva una piccola casa.

E l’ultimo, insulso dubbio che stesse compiendo qualcosa di illecito, fu fugato quando sentì il respiro di Luisa contro il suo. Fu nuovo, diverso da quanto accadeva con Anna. Non c’era solo la dolcezza e il sentimento che lo aveva legato a sua moglie, ma una forza dirompente e sconosciuta, una forza che lo faceva sentire vivo. Era come affermare al mondo intero che Felice era ancora vivo, che era invulnerabile, lì tra le braccia di una bellissima donna veneziana, nel buio di quella piccola stanza. È come se quella notte lui avesse restituito un po’ di bene a se stesso, alla sua anima. E più guardava Luisa e più si convinceva che il punto di non ritorno lo aveva ormai superato e aveva fatto bene.

Come sembrava tutto lontano lì, nella penombra della stanza, con l’odore di Luisa che si confondeva col suo, mentre giocava con i capelli della donna. Tutto sembrava di secondaria importanza, evanescente. C’era forse qualcosa di più bello e più importante di quella creatura che era rannicchiata su di lui?

Smise di respirare e ascoltò il respiro di Luisa e si concentrò sul piccolo fiotto d’aria che lei soffi ava sul suo petto. Fra poco avrebbe dovuto lasciarla, ma questi minuti sarebbero durati una vita per lui, per la nuova concezione della vita che aveva.

Non avrebbe lasciato tracce dietro di sé, e l’acqua che premurosamente le aveva portato al suo risveglio, non era semplice acqua. Ora lei dormiva nuovamente d’un sonno profondo, e avrebbe avuto un gran mal di testa in regalo, insieme a quella valigetta che Felice aveva anche nel caffè.

Era giusto che la tenesse lei, era giusto che le donasse una parte di sé, almeno quella, sperando che quella tromba ammaccata sapesse ricordarle il nome di Felice.

Il molo era deserto, e la nave blu ed ocra era lì che lo aspettava, sudicia e incrostata. Si strinse nell’eskimo perché l’aria si era fatta tagliente, e si decise a salire a bordo. Allungò alcune banconote verdi all’uomo che lo guardava con fare scortese, e quello grugnì. Aveva pagato il suo Caronte, pensò, ma non gli venne da ridere.

Si portò sul ponte e guardò per l’ultima volta Venezia, che da dieci anni era diventata la sua città. Incredibile come l’adorasse e odiasse allo stesso tempo. Forse era il sogno di tutti gli ingegneri chimici lavorare in quella città, ma quel sogno si era tramutato in un tremendo incubo.

Estrasse dalla capiente tasca dell’eskimo un pacchetto di sigarette. Rosso e bianco, come al liceo, la sua marca preferita.

Si portò la sigaretta alla bocca, al suo modo, prendendola per la punta opposta al filtro e lasciandola penzoloni sulle labbra carnose. La accese, e di nuovo quella magnifica e malsana sensazione nella bocca, quel pugno diretto e fragoroso ai polmoni.

Ne fece una boccata più profonda e socchiuse gli occhi.

Da quando aveva baciato Anna, questa era la prima sigaretta che fumava, perché lei gli aveva imposto di smettere, perché fumare fa male, diceva. Ma un uomo che non ha futuro, può preoccuparsi della sua salute? Ora non aveva davvero più senso pensare a questo. Anche perché Felice Matteucci, mentre fumava quella sigaretta era già morto. O forse era meglio dire che Agave 73 era morto. Sì, questo era il nome che il servizio segreto per cui lavorava gli aveva assegnato.

Singolare che un uomo spartano e scontroso avesse un nome in codice che gli si addicesse tanto. Cosa avesse voluto dire quel numero non lo sapeva, e forse non se lo era mai nemmeno chiesto.

Se ripensava a quando gli avevano proposto di entrare nello spionaggio, provava una fitta, un dolore lancinante e insopportabile.

Era stato facile con la sua laurea e la sua competenza diventare un agente segreto. Non una semplice spia, ma un tecnico che metteva le sue conoscenze a disposizione di fini che a volte nemmeno immaginava. Così non solo era stato addestrato a sopportare prove fisiche inumane, o a parlare fluentemente svariate lingue, ma aveva anche affinato le sue competenze d’ingegnere chimico.

E tutto ciò perché? Forse solo perché non si fidava di se stesso, dell’avere in tasca la chiave del successo, di avere la consapevolezza che era in grado di realizzare i suoi sogni.

Sogni, che parola estranea per lui che si era sempre sacrificato, che aveva sempre anteposto il bene degli altri al suo. E così si era fatto allettare dall’idea di guadagnare cifre inimmaginabili e fare una vita avventurosa. Ma visitare paesi esotici, facendo finta di non allontanarsi mai da Venezia non era poi così bello.

Così come avere tutti quei soldi e non poterli spendere era come non averli, si era poi accorto. Se non poteva suonare la tromba per non attirare l’attenzione di nessuno, se non poteva vestirsi da meridionale perché si doveva confondere con gli altri, figurarsi se si poteva permettere un’automobile sportiva.

Certo a Venezia questa privazione era meno ingombrante, ma era sintomatica di tutta una vita sprecata. Avrebbe avuto abbastanza denaro per comprare tutte le auto che voleva, ma non poteva. E d’un tratto gli venne in mente un personaggio popolare, che diceva che non c’è gusto ad andare con una bella donna, se poi la mattina seguente non si può raccontarlo agli amici. Rise, in quel modo convulso che lo coglieva sempre di sorpresa, e per poco non gli andò il fumo di traverso.

Tossì a lungo, e smise di fantasticare e iniziò a pensare cosa sarebbe accaduto. Di lì a pochi giorni quando la Compagnia si fosse accorta della sua defezione, ci sarebbe stata una breve indagine, e si sarebbe inscenata la sua morte. Da quel momento, quando la cosa fosse stata ufficiale, la caccia ad Agave 73 si sarebbe aperta. Perché Agave 73 non solo conosceva troppe cose, ma sapeva anche fare troppe cose. E se era stato in grado di mettere a punto nuovi e terrificanti armi chimiche per una parte dello scacchiere, di certo poteva farlo anche per l’opposta. E senza dubbio non gli avrebbero creduto, se gli avesse detto che voleva solo una vita normale, ora.

Quante vite erano state spezzate dalla sua intelligenza, e pensare che si era laureato, con una tesi sui dissalatori, e voleva trasferirsi in Persia per contribuire al miglioramento del Regno del Pavone. È strano il destino di un uomo, ci si aspetta di rendere rigogliosa una terra arida e ci si ritrova a disseminare la morte tra le genti.

E ora la sua di morte stava per essere inscenata, era la prassi in casi del genere. Un incidente in una fabbrica chimica è cosa che può accadere, e i vertici dell’azienda, che faceva da copertura, erano particolarmente abili in necrologi. Chissà quanto avrebbe pianto Anna, quanto si sarebbe disperata. Era il tipo di donna che non si sarebbe ripresa, ne era certo. Almeno, fino all’arrivo della busta gialla.

Nessuno avrebbe avuto una idea come quella, e quasi si complimentò con se stesso. Un suo amico, che aveva il vizio di bere, anche lui nei servizi, gli aveva confidato sotto i fumi dell’alcool che ogni agente veniva fotografato con persone del sesso opposto, per poterlo ricattare. E fu semplice arrivare all’archivio, prendere delle sue foto con belle donne, in situazioni equivoche, ma che non provavano nulla. Così Anna si sarebbe sincerata che Felice non era l’uomo che credeva, e non avrebbe passato il resto della vita a piangerlo. Lui non l’aveva mai tradita, ma quel gesto di scorrettezza era necessario, quasi doveroso.

E Luisa? Luisa non poteva essere un tradimento, perché dal momento che lui aveva consegnato la busta a Frate Gabriele aveva firmato la sua condanna, ed era soltanto un fantasma che non era morto. E un pensiero lineare e coerente, direi da ingegnere, lo convinse di aver fatto la cosa giusta. In buona sostanza se aveva fatto credere a sua moglie di averla tradita, tanto valeva farlo sul serio, con la coscienza a posto. Almeno quel particolare in tutta quella faccenda lo tirava su di morale, lo rendeva quasi euforico.

Rifletté che non tanto quando aveva consegnato la busta, ma quella notte tra le braccia di Luisa per lui si era aperta una nuova epoca, forse breve, anzi brevissima, ma vera e libera.

Finalmente avrebbe rifatto tutto ciò che lo realizzava: correre in moto, suonare una nuova tromba, vestirsi nel modo che preferiva. Lo pensò guardando la terza sigaretta che accendeva quella mattina, ricordandosi di come odiasse fumare col vento, perché le sigarette durano di meno.

È come se per anni avesse cercato il coraggio di ritrovare se stesso, se avesse a lungo atteso di ritrovare se stesso. Un po’ come l’agave, quella pianta spartana e discreta, che dopo lunghissimi anni, fiorisce con un fiore imponente che fa dimenticare tanti anni di mediocrità, per poi morire. Un fiore a lungo atteso.