A due passi da lui – Daniela De Cecchi, Montegrotto Terme (PD)
Racconto finalista diciassettesima edizione Premio Energheia 2011
Sorseggiavo un caffè in compagnia di me stessa, quando ad un tratto il mio sguardo fu colpito da una presenza che si distingueva tra tutte.
Sono una donna in carriera di trentadue anni, lavoro come avvocato presso lo studio Anselmi di Milano. La mia giornata è ormai la stessa da molto tempo, solo casa e lavoro. Al mattino mi alzo alle sette e trenta puntuali e comincio a vestirmi: camicia bianca, gonna e giacca nere, collant color carne e un paio di scarpe fatte appositamente per le vecchiette doloranti e martoriate dai molteplici e forti dolori… io sono più che a mio agio calzandole e non mi creano problemi. Scendo di casa e mi avvio alla metro, per andare al lavoro. Non mi reputo una donna affascinante, tutt’al più talentuosa e perspicace, dedita al lavoro.
Passeggio lungo i binari, uno sguardo all’ora e ogni tanto una sigaretta, mentre aspetto la metro.
A volte, mi fermo e rifletto e giungo sempre allo stesso pensiero: non ho una vita sociale. Da quando Lara, la mia migliore amica, è partita per la Germania insieme al suo grande amore, ho iniziato a crogiolarmi, triste nella mia solitudine, inebetita dal fatto che il lavoro fosse il mio più grande successo e convinta di poter vivere soltanto di questo.
Non sono sposata, né fidanzata e fino ad oggi ho creduto di poter essere felice anche solo così; ma mi sbagliavo. Non ho mai avuto una particolare attenzione per l’amore, l’amore in tutti i suoi aspetti, le sue molteplici facce, ai suoi effetti, ai suoi benefici, ai pro e ai contro; l’ ho sempre creduto una perdita di tempo, e soprattutto, una distrazione. Ma il motivo c’è ed è un altro. Ho solo paura. Non mi sento all’altezza di tutto ciò, mi sento oppressa dalla poca stima che ho di me stessa, mi sento come schiacciata dal timore che provo davanti ad un’altra persona che vuole conoscere chi sono io realmente, che desideri entrare nel mio intimo.
Un giorno come un altro, mentre salivo sulla metro, incontrai un uomo che mi chiese un’informazione.
Risposi con tono tranquillo, fino a che non mi ringraziò guardandomi negli occhi e se ne andò.
Non mi ero mai sentita così. Ero smarrita, disorientata e una fitta allo stomaco mi sorprese. Ero come spinta da una forza interiore di sublime piacere che mi diceva di raggiungere quell’uomo e abbracciarlo. «Che scherzi strani saranno mai questi». I suoi occhi erano come una calamita, un’immagine costante nella mia mente e un pensiero morboso mi tormentava: dovevo rivederlo, lo volevo con tutta me stessa.
Per tutta la notte non feci altro che rivoltarmi nel letto. Era una figura nitida quella che avevo in testa e non accennava ad andarsene. Attesi con ansia l’indomani, gli occhi sbarrati mentre stringevo le coperte nella speranza di reincontrarlo e il cuore che batteva frenetico. Una notte da non augurare a nessuno. Salita sulla metro il mio sguardo si faceva spazio tra tutti gli altri solo per poter incrociare il suo, quello che avevo sognato per tutta la notte. Ma lui non c’era. Cercavo di dare risposte a quesiti che non avrei mai pensato la mia mente potesse concepire, quesiti a me nuovi e a cui era impossibile dare risposta. Era forse amore? «Non so nemmeno cosa sia l’amore», pensavo, come potevo essere certa che lo fosse realmente? Ero decisamente attratta dalla sua immagine, non potevo proteggermi in alcun modo. Battevo i piedi cercando di rimettermi in carreggiata, questo mi ordinava il cervello.
Ma il cuore palpitava e autoritario mi induceva a pensare a quell’uomo sconosciuto. Cuore e cervello non vanno d’accordo e nel mio caso non sono nemmeno “amici”. Pensavo a voce alta, ripetendo continuamente una sola parola “TU”.
Ma come fare per averti? Temevo che il mio animo avesse deciso proprio lui. Ogni cosa mi appariva molto più bella da allora. Sorridevo anche senza un motivo e un controllo non esisteva più. Stavo iniziando ad impazzire… impazzire per lui.
Era davanti a me, all’interno di un negozio e l’unica cosa che mi separava da lui era una vetrina che non avevo il coraggio di invadere, per rivivere il piacere di incontrare i suoi occhi.
Giurai a me stessa che, se l’avessi rivisto, gli avrei almeno offerto un caffè. Mi sentivo una bambina, una di quelle che vivono solo di storie fantastiche, bambole e dolci; mi sentivo vulnerabile a qualsiasi istinto, a qualsiasi emozione. Ma di colpo lui sparì. Ero innamorata, volevo esserlo perché questa sensazione mi faceva sentire realmente viva. Mi sentivo come la sabbia stretta forte, trattenuta nella mano: la sabbia paradossalmente scivola più velocemente tra le dita… tutto questo avveniva per merito del mio amore per lui. Scappavo da tutto ciò che mi impediva di correre da lui, fuggivo da me stessa.
Una parte di me lo desiderava e un’altra non sapeva che farsene di lui. Questo disordine interiore significava guerra. Più lo amavo, più litigavo con me stessa. Volevo provare questo amore senza diventare vulnerabile… ma era come voler volare senza staccarsi da terra, fantasticavo. Rifiutavo con tutta me stessa la domanda: «Che cosa ci ricaverò?». Mi accorgevo, sempre più, che quell’uomo era irraggiungibile, tremavo al solo pensiero di rivederlo e contemporaneamente concretizzavo, d’un tratto, che non sarebbe mai stato mio. Passavano giorni in cui mi ripetevo che non sarebbe mai esistito per me, che non avrebbe mai fatto parte della mia vita.
Ora ho trentacinque anni e cinica più che mai, ho perseguito la mia carriera di buon avvocato; ho uno studio mio e un’amica che viene a trovarmi, di tanto in tanto, dalla Germania.
Quel giorno sorseggiavo un caffè in compagnia di me stessa, quando ad un tratto il mio sguardo fu colpito da una presenza che si distingueva tra tutte. Era lui che si avvicinava con passo veloce.
Il vero amore non ha un lieto fine, perché una fine non ce l’ha.