A proposito di futuro remoto_Marco Palladini
Si diceva un tempo che il futuro ha un cuore antico. Quando nel 2008 sono stato a Matera, ospite del Premio Energheia, si parlava del ’68 e della sua eredità politica, culturale, filosofica, teatrale. Quell’orizzonte utopico degli anni Sessanta del ’900 sembra essersi definitivamente richiuso nel secolo XXI. Oggi lo slancio verso il domani, la spinta a progettare il futuro nella chiave di un cambiamento radicale e profondo del mondo si sono affievoliti e pressocché spenti. Si vive e si ansima in un eterno presente che pare rendere tutto effimero e inconcludente. La mutazione antropologica che ne discende è più evidente nei giovani che vivono stabilmente connessi alla rete e paiono incapaci di immaginare un futuro diverso da quello polverizzato e sussultante negli innumeri microframmenti comunicativi dei social network. Però, poetava Hölderlin “là dove cresce il deserto, cresce anche ciò che salva”. Nella vuotitudine del cyberworld cresce anche una intelligenza collettiva e connettiva che mi richiama l’idea del ‘general intellect’ di Marx. Il futuro oggi appare remoto, ma forse è la nostra vista che è corta, esso è, comunque, sempre in atto. Quello che ci serve è un cambio di visione.
A Matera mi aggiravo ammirando, quasi stordito, i Sassi ancestrali che stanno lì, nel cuore cittadino, con la loro scontraffatta bellezza, a testimoniare un passato anche terribile, a rilanciare un perenne monito di memoria. Una memoria da ascoltare e da rimeditare sempre, pur dinamicamente desiderosi di andare avanti, di non rimanere fermi nella semplice contemplazione del tempo trascorso. Le radici antiche non si possono recidere, senza di esse non c’è futuro possibile. D’altro canto, ciò che è stato può essere una gabbia, una ipoteca che castra ogni futuribile cambiamento. È nella dialettica complessa, sempre da ricalibrare tra queste due dimensioni che si gioca la scommessa del futuro (da remoto a prossimo o, finanche, anteriore).
Epperò che cos’è il futuro? Come chiosava in versi il poeta Gianni Toti: “il futuro è sfuturato… il futuro non c’è mai stato”. Sì, il futuro, invero, non esiste, è una proiezione, un’astrazione cronotemporale. È una percezione psico-soggettiva che nel nocciolo del tempo presente ci siano i semi di un tempo futuro, che ovviamente s’immagina migliore. L’oggidiana questione, forse, allora non è che non si percepisce più il futuro, ma che lo si percepisce peggiore del presente. I segnali molteplici certo non mancano, la precarizzazione economica e l’insicurezza globale dominano le nostre vite. I focolai dei conflitti etnici, religiosi, neo-nazionalistici, inter-imperialistici continuano a riprodursi e a minacciare la pace mondiale. Ma il futuro, se c’è, non è mai scontato, esso va costruito anche sul rischio, come un atto vitale che è pure un coraggioso e necessario salto nel buio.
È il meglio già alle nostre spalle?
Il meglio, si sa, è sempre
sebbene evanescente alle nostre spalle
anche quando, a ben valutare,
si ha poco o niente da rimpiangere.
La primazìa del passato mi inchioda al vissuto
e sento in me un flusso esistenziale che si autonega
che liquida la previsione del futuro secondo futile scienza
come il titillare i ludi d’una mera sopravvivenza.
Sì, c’è un misoneista in me
che è dei giorni a venire
il vero terrorista, ma se mi volto
e pur riconosco lo struggimento andato
e la nostalgia canaglia e il pathos retrodatato,
vedo anche delle ombre di memoria, della ricerca
del tempo perduto e ritrovato, l’insidia strisciante
l’effetto entropico, alla lunga paralizzante.
Allora mi sottraggo, resisto, sto fermo, mi apro,
attendo che i fantasmi vadano via via a svanire
che l’esserci dischiuda un varco al divenire.
Il domani entra incerto, nervoso, pieno di dubbi,
ma so che sono vivo, salvo e reattivo
fin quando dura questa partita doppia.
Il peggio è arrendersi alla certezza di sé fasulla
il meglio è ricominciare sulla sponda del nulla.