Africa: Guerre, identità e risorse. Servono leader veri
Senza una nuova identità singola (del cittadino) e collettiva (dello stato) non si può costruire la pace e una vera democrazia
Amani – 18 Marzo 2011 – di Renato Kizito Sesana
La cronaca africana di questi ultimi anni e il film “Blood Diamond” (Diamante di sangue), ci hanno abituato a pensare che in Africa le risorse naturali siano una maledizione. Là dove si trovano diamanti, oro, petrolio, coltan, si scatenano inevitabilmente conflitti per il loro controllo. Ma le guerre africane sono originate solo da questo motivo, o vi sono anche altri fattori? Secondo Maina Kiani, capo della Commissione dei diritti umani del Kenya, il presupposto per essere veramente liberi – e quindi vivere in una democrazia reale – è l’identità. Invece nella maggioranza dei paesi africani i cittadini non hanno una vera identità nazionale. Questa è il presupposto politico e giuridico che in Europa ha accompagnato il processo di formazione degli stati-nazione, includendo indentità linguistica, religiosa, territoriale. In Kenya, per esempio, l’unico fattore che possa essere considerato determinante per la formazione dell’identità è quello storico: la battaglia comune per la conquista dell’indipendenza, al di là delle differenze tribali.
La uhuru, l’indipendenza, non è stata reale, perché è mancata la conquista di un’identità nazionale e di conseguenza non si è sviluppata una vita politica democratica. E così è successo nella maggioranza dei paesi africani. Si è cercato di rimediare a questo con tante parole e tanta retorica, ma con risultati piuttosto miseri. Un caso tipico, citato dal congolese Ernest Wamba dia Wamba, è quello della Repubblica democratica del Congo: non è mai stata né una democrazia, né una repubblica!
Non solo c’è la necessità di una nuova identità, ma anche di una nuova ricerca di stato. In Africa gli stati non sono nati da dinamiche interne, ma sono stati importati – già bell’e pronti – dalle potenze coloniali. Dopo molti anni dall’indipendenza, al di là della retorica usata quando gli atleti di un paese vincono nelle competizioni internazionali, la domanda resta: che cos’è esattamente il Kenya? O la Tanzania, o il Mozambico?.
L’identità singola (il cittadino) e l’identità collettiva (lo stato), sono i due elementi che dovrebbero esistere o essere costruiti prima che si possa parlare di soluzioni dei conflitti e di processo di pace. È quello che sta succedendo in Sudan, dove l’accordo di pace fra Nord e Sud, continua ad incontrare ostacoli, fino ad arrivare al referendum di gennaio scorso; e dove non si riesce a costruire la pace in Darfur, proprio perché non esiste un senso di identità, né nazionale, né comune, fra quelli che vengono definiti Nord, Sud e Darfur. Fare la guerra è facile, ma per fare la pace bisogna sapere chi siamo noi e chi sono i nostri nemici.
Come si può superare questa situazione? Nessuno ha una facile ricetta, ma la strada sembra nella mobilitazione della società civile, nella lotta contro la corruzione dei mezzi di informazione, nell’opposizione al malgoverno, nel controllo e superamento della violenza – istituzionale e privata – che domina la vita sociale.
Un buon esempio di quanto la violenza sia dominante nei rapporti sociali è ancora una volta il Kenya, dove il livello di violenza è altissimo ed è pronto ad esplodere in ogni momento (si pensi agli scontri del Dicembre 2007, a seguito delle elezioni politiche), attraverso linciaggi, stupri, risse per motivi banali che finiscono col morto. Si parla di un paradosso, visto che l’abbondantissima presenza di religioni, chiese e sette di ogni tipo farebbero pensare che non esista al mondo paese più religioso del Kenya: com’è possibile che prima si vada in chiesa e due ore dopo si vada a uccidere una povera donna nella baracca vicina, per rubarle un chilo di zucchero o perché si ha il sospetto che possa essere una strega?
C’è, infine – ed è determinante – il punto dolente della leadership, identificato già molti anni fa dallo scrittore nigeriano Chinua Achee. L’Africa manca di veri leader. O meglio: c’è un esempio straordinario, Nelson Mandela, e poi c’è il vuoto.
Non bisogna quindi meravigliarsi se, in questo quadro, la vocazione e il ruolo predatore di alcuni attori internazionali sia facilitato. Mancanza di identità nazionale e democrazia, e debolezza delle istituzioni, permettono alle compagnie multinazionali di mettere le mani sulle risorse africane. Se non si modifica la dinamica di sfruttamento del sud del mondo, da parte dei paesi occidentali, non si può pensare che in Africa possano emergere né la libertà, né la democrazia.
Tempo fa, dopo una conferenza organizzata per celebrare l’anniversario della firma della “Dichiarazione universale dei diritti umani”, alcuni partecipanti al convegno andarono a visitare Libera, il più grande slum in Africa, sotto l’equatore. Dopo qualche ora passata nella puzza delle fogne a cielo aperto, con negli occhi la visione di vite vissute in uno squallore materiale, difficile da immaginare, un ben conosciuto giornalista italiano mi diceva: “Ho capito che dobbiamo ribaltare i luoghi comuni; d’ora in avanti non dirò più che nel degrado e nella miseria delle baraccopoli africane puoi anche trovare coraggio e dignità, ma che la dignità e il coraggio degli africani sono capaci di superare le condizioni di vita anche più difficili. Sono rimasto toccato dalla voglia di partecipazione, di crescita, di libertà che la gente incontrata mi ha dimostrato”.
Davvero la pace non è assenza di guerra: la pace è la possibilità di tenere le redini della propria vita, nel rispetto e nella convivenza con gli altri. Sin dagli inizi degli anni Novanta, Koinonia, una comunità cristiana di laici keniani, si è proposta di creare le condizioni per permettere ai più poveri e più emarginati, di riprendere il controllo delle proprie vite, di entrare a far parte dei processi decisionali. I poveri vogliono tornare a pensare alle risorse naturali del proprio paese non come a occasioni di guerra, ma come a una benedizione di Dio.