Al di là dell’ora_Asher Salah
_In quell’età in cui si inizia a voler scoprire quali paesaggi e quali umanità si celino dietro le scarne annotazioni delle cartine geografiche mai, tuttavia, avrei allora pensato di cercare per la Colchide, per le vette dell’Elicona o per le fonti del Clitunno un’ubicazione terrena. Il nome di Matera, sentito pronunciare dai miei maggiori, era un altro di quei luoghi avvolti dall’aura del mito, per trovare il quale ero ingenuamente convinto che mi sarebbe stato utile, più dell’atlante, rovistare nei vetusti libri di poesia rilegati in pelle che essi talvolta estraevano dagli scaffali della biblioteca familiare per eccitare la mia immaginazione.
E anche quando, ormai sui banchi del liceo e all’università, conobbi le vicende dei briganti, dei proscritti e dei braccianti che scrissero della città, con tinte sanguigne ma ben più prosaiche, la storia recente, certo mi sarebbe parsa inconcepibile l’idea che nella terra dei Sassi, in quella Lucania primordiale di lupi e boschi sacri, mi sarei trovato anch’io un giorno con noncuranza a passeggiare. Eppure questo avvenne alcuni anni fa orsono grazie al premio letterario di cui si celebra adesso il ventennale e se da allora parte dell’enigmatico incantesimo si è rotto ho pur scoperto con felice sorpresa che persino a Matera non mancano supermercati, cinema rionali e agenzie di pompe funebri, e che un esercito di motorette sfida ogni giorno con successo l’ostica logica dei suoi irregolari gradini.
Tuttora, però, quando mi capita di parlare in Israele del mio viaggio, il dubbio di non essere capito dai miei interlocutori talvolta mi assale e con esso la domanda se sia possibile dire Matera in ebraico. Certo, ben so che i nomi propri sono intraducibili e che appunto per tal loro esclusiva virtù sono quanto di più universalmente riconoscibile v’è in una lingua. Non furono i nomi dei faraoni a consentire a Champollion di sciogliere il mistero racchiuso negli antichi geroglifici? Eppure per decifrare gli strati, i cumuli, i sedimenti su cui sorge Matera pare indispensabile fare ricorso a un sistema verbale che disponga in abbondanza di trapassati, prossimi e remoti, aoristi e imperfetti, presenti storici e assoluti, con innumerevoli possibilità combinatorie al congiuntivo, al condizionale o all’oltattivo.
E l’ebraico di tali modi è pressocché del tutto sprovvisto. Con sole due forme verbali, la lingua della Bibbia, priva di ausiliari e quindi di tempi composti, è restia a qualsiasi legge di consecutio temporum, esercizio mentale di cui sembra addirittura farsi gioco con l’espediente della vav inversiva, che tramite la semplice apposizione della lettera ‘vav’ davanti a un verbo ne capovolge il senso temporale, trasformandolo ipso facto da un passato a un futuro e viceversa. L’ebraico, peraltro, non disponendo di verbi che esprimano l’essere e l’avere, ci ricorda che si tratta di attributi propri al solo “alto fattore”, il quale trascende, per sua intrinseca natura, ogni successione dei tempi, mera illusione di chi è costretto a vivere in un prima e in un dopo, in un qui e in un là.
Eppure a più attento esame un punto di incontro tra Matera e Gerusalemme appare, non solo negli artifici dei set cinematografici, ma soprattutto in un aspetto linguistico che, se nelle grammatiche non ha riscontro, pur costituisce la base di ogni potenziale letteratura. Esso sembra trovare la sua più adeguata espressione proprio nel concetto di futuro remoto, da non confondere con quell’altro futuro, questo sì grammaticale, da alcuni chiamato anteriore. L’idea di futuro remoto ci proietta infatti in una prospettiva focalizzata in quel punto di fuga dove la fine dei tempi coincide con il momento originario. “Ursprung ist das Ziel” scriveva Karl Kraus tentando di afferrare aforisticamente il paradosso del tempo messianico, un tempo fuori dal tempo o, per riprendere l’enigmatico e inquietante verso del canto che si intona alla fine della cena pasquale ebraica, “un giorno che non è né giorno né notte”. Senza quel punto focale non c’è storia né storie possibili e quindi non c’è neanche letteratura.
Primo Levi si serve proprio di questi termini in un passaggio di Se questo è un uomo quando parla della “nebbia del futuro remoto”, intendendo che l’annullamento di tale prospettiva, in una realtà concentrazionaria ormai quasi del tutto ma non ancora completamente appiattita sul presente immediato, avrebbe significato la fine definitiva di ogni orizzonte di sopravvivenza.
Quando ritorno al lavoro, si vedono passare gli autocarri del rancio, il che vuol dire che sono le dieci, e questa è già un’ora rispettabile, tale che la pausa di mezzogiorno già si profila nella nebbia del futuro remoto e noi possiamo cominciare ad attingere energia dall’attesa…
E a un altro Levi piemontese, Carlo contemporaneo di Primo e vittima anch’egli di persecuzioni politiche e razziali, si deve un folgorante titolo, il futuro ha un cuore antico, libro in cui di certo le esperienze lucane assieme all’ebraismo gli permisero di trovare la formula giusta per andare oltre la banalità di una relazione sulla sciatta condizione sovietica ed esprimere quanto arcaica sia ogni immagine dell’avvenire.
Non è allora escluso che, percorrendo le ripide calli di Gerusalemme e di Matera, come a me è stato concesso, si possa improvvisamente intuire il tragico segreto da cui scaturisce la voce di questi due grandi testimoni del ventesimo secolo. Essi insegnano il valore di scrivere per non dimenticare, di ricordare per non morire, arcano fondamento salvifico del racconto e imperativo etico dello scrittore.