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Alle conchiglie del tuo nome, Ajda Strmčnik

Racconto vincitore Premio Energheia Slovenia 2024

Traduzione a cura di Laura Renesto, Università degli Studi di Padova / POLONA LIBERŠAR

Il velluto nero si stende nel cielo e su di esso, lentamente, si accendono le stelle, il cui bagliore in congiunzione con l’aureola della luna svela anche le nuvole incoronate di bruma che incorniciano gli ultimi frammenti del giorno. E quando l’oscurità si congiunge così profondamente con la terra in cui sono radicata, quando i pensieri tessono una rete di illusione e realtà e non riesco a distinguere la linea che definisce il bordo dell’oceano da ciò che si trova sopra di esso, mi adagio su questa intersezione mistica. Così si insinua lieve in me l’impressione che forse, dopotutto, non sto tenendo i piedi per terra, che forse, da qualche parte nel profondo, sto di nuovo risvegliando l’Io che fugge dalla frenesia, quello alla base del buon senso e, anche se solo per un momento, mi trascina via dal mio essere e lascia respirare di nuovo l’anima.

In questa quiete, sono solo le silenziose onde a dettare il battito del mio cuore e a darmi vita a ogni schizzo, mentre affondo le mani nella sabbia e lascio che stilli tra le dita. Da qualche parte in lontananza sento il rumore dei gabbiani. “Quanto è libera questa esistenza? Quanto è meraviglioso questo senso di unità con la natura che fa da promemoria di tutto ciò che io, figlia ignorante del cosmo, avevo più a cuore?”. E poi il flusso della retrospettiva crea un film che raffigura un tempo in cui passavo le giornate in riva al mare a cercare conchiglie, riponendole con cura in una scatola che rappresentava il mio piccolo oceano. E prima che me ne accorga, queste mani si spostano da sotto la sabbia alla superficie, attraverso la quale viaggiano zelanti per appagare la malinconia momentanea del ricordo. Non so quanto tempo sia passato. Da quando, dopo un anno di lavoro nella frenesia della città, decisi di fuggire dai bordi di luci al neon, dal rumore e dal grigiore del cemento, assimilati a tal punto dai miei coni che anch’essi dipingevano la vita in quel modo, il significato delle lancette svanì. E con consapevolezza mi lascio ancora una volta pervadere dalla gratitudine, sapendo che ho avuto l’opportunità di fare questo per me stessa. Andare con uno zaino e una penna nei luoghi dove gli artisti vanno a morire in solitudine… per abbandonarsi alle onde dell’essere.

Raccolgo le conchiglie in un fazzoletto. Liscio il mio vestito bianco per farlo aderire di nuovo su di me e mi raccolgo i capelli con una penna. Le strade sono già vuote quando i passi si strofinano sul lastricato di questa antica città senza nome. Solo il bagliore delle lampade la riporta di nuovo in vita, per illuminare la strada alle anime erranti come la mia. Mi perdo nella poesia, nel momento bohémien e passo le dita sulle superfici ruvide delle case sulla strada, mentre mi invita ad andare avanti una luce più forte, quella a cui sono abituati gli occhi affamati di vita. Questa volta, la fantasticheria è interrotta dalla sorpresa, quando vedo davanti a me non una proiezione della città o una composizione orizzontale della strada deserta illuminata dalle lampade, ma la sagoma di una figura che guarda oltre le mura, verso la riva. Sebbene non si accorga di me, la constatazione che forse non sono più sola mi sveglia dalle mie illusioni ed è un segno sufficientemente eclatante, vestito di quell’insopportabile voce interiore che, abituata a sussurrare, ha la funzione di ricordarmi che sono sola in un luogo sconosciuto. Prima ancora che possa rendermene conto, allontanarmi, sparire, il fazzoletto con le conchiglie mi cade dalle mani ed esse si frantumano a terra. Un suono che forse durante il giorno è del tutto impercettibile si trasforma ora in un rumoroso tradimento, che riecheggia accanto alla consapevolezza di essere ancora sotto la luce, mentre la paura si fa strada in me in modo così insaziabile da incollarmi al suolo e impedirmi di scappare.

Probabilmente l’improvvisa consapevolezza di non essere sola ha toccato non solo me, ma anche la figura, che si è animata all’istante e il cui sguardo, che non riuscivo a vedere bene, si è posato sul fondo della mia anima con un’intensità tale da far fremere tutta la pelle del mio corpo, anche se già prima ero convinta che non fosse la mia. Intorpidì il senso di ogni meccanismo di difesa, tradendomi, cosicché non potei far altro che fissare muta come la figura si avvicinasse sempre di più a me. Anche se la mia natura testarda mi convinceva di non avere paura, l’attivazione del simpatico si rifletteva sempre più rumorosamente nel sussulto a tradimento del mio cuore, che pompava sempre più forte, tanto che mi sembrava stesse cadendo dall’abbraccio dell’ala polmonare sinistra direttamente nella cavità addominale, dove lo sentivo. “Questa è una notte meravigliosa per raccogliere stelle dal cielo. È un peccato che ce ne siano troppo poche perché tu le possa mettere in una composizione e regalare la galassia a coloro che vorrebbero far tornare ad essa le proprie stelle”, disse in tono basso e profondo. Solo allora cominciai a rendermi conto che mi stavo ancora aggrappando alle conchiglie che ero riuscita a salvare e, anche se le mie gambe erano troppo deboli per scappare, c’era qualcosa di così familiare in questo sconosciuto che da qualche parte, nel profondo, volevo inspiegabilmente restare ancora un po’. E quando il buon senso riprende il sopravvento, esce con un sospiro l’unica cosa che sembra essermi rimasta: “Dannazione”. “Dannazione, quando per la seconda volta si rivolge a te un eroe eccessivamente erudito uscito da un libro, puoi almeno fare un piccolo sforzo per seguire il suo poetico momento di debolezza, ragazza delle conchiglie”, la sua voce emerge ironicamente dall’oscurità, e anche se non riesco a distinguerlo dallo spazio, giuro che riesco a percepire quel sorriso laterale che accompagna l’ironia di questo imbarazzante incontro. “Abel, piacere di conoscerti”, sono le parole che ancora colgo prima di trovare finalmente la forza nelle gambe, che improvvisamente tornano a essere mie, per potermi voltare e scappare via.

Solo quando mi chiudo la porta alle spalle e accendo una lampada che raggiungo a tentoni, scivolo sul pavimento accanto ad essa e cerco di calmare il respiro. Quando finalmente riesco ad arrivare al letto e a sciogliermi i capelli, che come una tenda ricadono sulle spalle, a liberarmi dal fiocco, a togliermi i vestiti e a coprirmi con la coperta, mi rendo conto che più che la paura per quello che ho appena vissuto, provo vergogna per il fatto di essere scappata da un uomo che a quanto pare parla di stelle nel tempo libero e che si è presentato a me come… “Com’era? Abel?” Mi copro anche la testa e riesco solo a pensare a come avrei potuto scappare, a come avrei potuto nascondermi, evaporare, cancellarmi dal senso dell’esistenza tra le onde e diventare… niente. “Come vorrei non vederlo mai più!”. Se solo fosse stato possibile su quel puntino sulla mappa. “Ahh, se solo fosse possibile”.

I raggi del sole riempiono anche gli angoli più bui della mia piccola camera, quando finalmente mi convinco ad alzarmi. A quest’ora le strade della città sono di nuovo vive, mentre i cittadini si dedicano ai loro affari quotidiani. Trascorro molto tempo in solitudine, solo la magia della sera mi fa andare avanti e mi dà un po’ di ispirazione per la scrittura, quindi non c’è da stupirsi se dopo tutto questo tempo per gli altri sono ancora una degli estranei che passano di qui per sbaglio e se ne vanno al mattino. Al mercato compro pane e fiori per rendere la mia casa più accogliente e portare un po’ di allegria tra le quattro mura e, per quanto posso vedere, non sono l’unica che è riuscita a svuotare in buona parte gli scaffali durante il periodo delle bancherelle. Anche se sono una solitaria per natura, mi sorprende come l’incontro con tante persone mi riempia di qualcosa di cui non pensavo di aver bisogno prima e mi si alzano gli angoli della bocca ogni volta che qualcuno mi rivolge la parola.

E proprio mentre mi sto accomiatando da una delle fruttivendole, noto una tela in un angolo del ponte da cui stavo scappando ieri sera. “Forse qualcuno l’ha dimenticata, o forse i commercianti l’hanno persa”. Tuttavia, questa sorta di sfortunata coincidenza mi sembra strana, perché anche se sono in città così poco durante il giorno non riesco a vincere la mia curiosità, che ha già passato al setaccio tutte le banche e grazie al quale so che le tele non sono esposte da nessuna parte. La gente è così presa dai propri affari che passa di fretta e nessuno sembra cercare quel taccuino da pittori. Nessuno ci fa nemmeno caso, e io sono improvvisamente sopraffatta dalla vergogna per la consapevolezza della mia curiosità, ma il suo impulso è troppo forte per confondermi con la folla e tornare a casa. Mi accorgo che non si tratta di una tela bianca, perché in modo abbastanza evidente qualcuno aveva lasciato su di essa la propria ispirazione. La giro e vengo nuovamente sopraffatta dall’impotenza, dalla pietrificazione che mi ha ostacolato fino a poche ore fa, e mi si blocca il respiro. Su di essa, dipinte con colori a olio, ci sono infatti le mie conchiglie rotte e non ho bisogno di pensare molto per capire che è il quadro più bello che abbia mai avuto l’opportunità di vedere. Ma più che dal desiderio di portarlo a casa e appenderlo alla parete, che volevo ravvivare con dei fiori, sono sopraffatta dal senso di colpa che provo al pensiero che qualcuno mi noti. Dopo aver appena sistemato la mia immagine conversando, avrei potuto essere trasformata nella matta del villaggio, il che era l’ultima cosa che volevo in quel momento, quindi la rimetto a posto e, sola, torno a casa.

“Perché?” La tela dimenticata ha ovviamente raggiunto il suo obiettivo e si è impressa sulla linea rossa della mia giornata, quando inizio a odiarmi per averla percepita come un regalo. Un regalo di qualcuno che non conosco, qualcuno da cui stavo scappando solo ieri. Anche se il corso di questo incontro ha preso una direzione che inizialmente non mi aspettavo, sono ancora sopraffatta da una gioia inspiegabile al pensiero che per qualcuno il contatto con una perfetta sconosciuta non sia stato solo una coincidenza. Che forse era qualcosa meritevole di tempo per vivere o sopravvivere da qualche altra parte, all’interno della sua collezione di pensieri mai espressi ad alta voce. Eppure, un’altra parte di me vuole convincersi che non sia stato fatto per me, o che serva a prendere in giro quella codarda che scappa quando vede un altro essere umano… e che ha delle conchiglie. “Accidenti, davvero, conchiglie?!”. La vergogna del pensiero sostituisce rapidamente ogni residuo di insicurezza, ma non supera il mio desiderio che le nostre strade si incrocino di nuovo.

Appena inizia a fare buio, mi lego i capelli in uno chignon con la penna ed esco sulla veranda. Anche se soffia il maestrale; mi viene la pelle d’oca come promemoria della tarda estate. Mi lego sulle spalle il foulard che avevo lasciato sulla poltrona e mi incammino lungo lo stesso percorso della sera precedente, solo che questa volta supero la riva e vado dritta verso il luogo in cui, ancora oggi, il bagliore delle lampade accese mi conduce, dettando un ritmo sempre più veloce al mio cuore. Quando arrivo a destinazione, è la delusione che sento nel profondo del mio essere, e allo stesso tempo la sorpresa per la mia reazione. “Davvero, cosa mi aspettavo ancora? Altri quadri? Altri segreti? Lui?”. “Stai attenta che non ti cadano anche oggi”, è la voce che mi ferma prima che possa rispondere alla mia stessa domanda. All’inizio rimango immobile, ma quando di riflesso mi volto, vedo di nuovo quella figura, questa volta appoggiata a una delle case dove ieri mi trovavo io. “Temo che finirò i colori se dovrò disegnare tutte le conchiglie che frantumerai sprezzante su questa strada consumata”. Inizialmente non sento il commento perché lo osservo, e questa volta sono in grado di distinguerlo dall’oscurità grazie ai frammenti di luce che brillano sopra di noi. I suoi jeans larghi sono imbrattati di colore, ad essi si sovrappone una camicia bianca con le maniche arrotolate, che accentua le proporzioni della sua figura. La linea forte del viso si interseca con i capelli biondi, tra i quali passa le dita quando gli coprono gli occhi azzurri. La parte in ombra copre il mio rossore in modo da non esserne tradita. “È una provocazione, signor So-tutto-io?”, sento la mia voce rispondere. Invece di una risposta veloce, lui spazia con lo sguardo sulla natura morta della città e fa un passo verso di me: “Sarebbe provocatorio, allora, chiederle il nome della mia ispirazione di stasera?”. L’improvvisa domanda confonde il mio discorso preparato in precedenza, poiché non ricordo più la risposta successiva alla domanda “Perché le conchiglie, perché oggi?”. Anche se avevo così tanto da dire, così tanto da chiedere, mi limitai ad annuire muta prima di seguire le istruzioni mentre mi conduceva ai resti delle mura che separavano la città dalla riva, illuminate dall’ultima lampada che ancora irradiava questa parte della città. Mi sedetti sulle mura, i lembi del mio vestito mi coprivano le ginocchia. “Posso?”, chiese. Annuii di nuovo, mentre lui mi toglieva la penna dai capelli per farli ricadere sulle spalle.

Si sedette su un vecchio sgabello dall’altra parte della luce e appoggiò un pennello dietro l’orecchio. Il suo sguardo viaggiò ancora una volta dalla città al cielo, mentre il grande carro si disegnava sopra di me, poi prese il pennello e lo intinse nei colori a olio. Non so quanto tempo passò, ma quando l’ultima linea era stata disegnata, diresse di nuovo lo sguardo su di me, confrontandomi con il quadro, poi fece cenno con le dita di avvicinarmi. Prima che potessi vedere la mia immagine appesa al cavalletto, mi fermò con un gesto. “Ti ho chiesto di dare un nome a questo quadro”. Fece un cenno verso di me con il pennello. Lo presi e camminai attorno al cavalletto. Sulla tela, disegnata con linee così pulite, c’era una ragazza sulle mura, che rappresentavano la linea di separazione tra la città dove mi ero cercata a lungo, la notte sopra di me con una costellazione luminosa e le mie mani piene di conchiglie. E se non fossi stata io, avrei giurato che questa combinazione di colori si stava trasformando nella dea di platino di cui avevo scritto. Qualcosa che avrei voluto essere da qualche parte sulla carta. Poi ho rivolto lo sguardo agli occhi che nonostante l’oscurità non nascondevano la loro profondità. Intinsi il pennello nel colore restante e sul margine scrissi lentamente il mio nome in lettere colorate.

“Bella?”, mi guardò con aria interrogativa. In risposta, sorrisi. “Piacere”, rispose, facendo un mezzo inchino che mi costrinse a ridere per il gesto. “Lascerai anche questo alla mercè di tutti i passanti domani mattina, così, senza permesso?”, chiesi nel suo stile. “Solo se ci sarà un affollamento tale che tutti lo vedranno”, rispose. Sorrisi prima che continuasse: “È difficile indossare la maschera di uno del posto in questa città, è difficile confondersi con la folla, dove anche sotto questo sole potremmo nascondere i nostri peccati, cosa che invece, forse, possiamo fare solo di notte”. Allungò la mano verso la tela e fece un cenno verso di me. “Prego, Bella”. La presi e prima che potessi dire qualcosa, mi salutò e si incamminò lungo una strada che non avevo mai percorso da sola. Spostai lo sguardo dall’angolo in cui si confondeva con l’oscurità al quadro. Sorrisi alla riflessione momentanea su ciò che avevo appena vissuto e lo strinsi a me. Non potevo ancora andarmene.

Non ricordo quando mi addormentai. Fui svegliata dalle voci della folla prima ancora di rendermi conto di dove mi trovavo. Stringevo ancora il quadro a me. Quello non era il giorno di apertura del mercato, quindi non ero abituata a un tale numero di persone in un’ora in cui la città si trasforma in un essere morto. La gente si riversava da tutte le parti come un fiume in piena. Qualcuno mi calpestò il vestito, altri gridarono qualcosa, ma non riuscii a capire le parole. La fruttivendola con cui avevo parlato il giorno prima mi passò davanti. La afferrai per la manica e si girò velocemente verso di me. “È successo qualcosa?” Le chiesi. Alzò le sopracciglia sul suo viso, rosso per la fretta, rendendosi conto che ero solo una di quelle persone che vanno e vengono. Solo una di quelle che non sanno. “Ci stiamo preparando per la processione, oggi impiccheranno i bestemmiatori sovversivi”. E prima che potessi interpretare quello che avevo a malapena udito a causa delle grida troppo forti della folla che mi arrivavano alle orecchie, attraverso le voci da cui era abbastanza facile capire che fossero divise in due poli, lo vidi. Stava tra i boia spinti in avanti, con la testa penzoloni, come se in fondo avesse già detto addio a una vita che odia la giustizia, che odia la verità di coloro che sono come me, dietro quattro mura, quando affondo la penna sulla carta nella credenza che un giorno non avrò bisogno di nascondere ciò che scrivo, che sarò abbastanza forte da esporre i miei pensieri, desiderando di poter “salvare il mondo” dal declino, sebbene come eroina tragica. Persone come lui, che non cercano di nascondere il bianco e il nero della loro tela. Ed è allora che si volta. Gli occhi che ieri erano così luminosi, così pieni di gioia, di mistero, sono scuri, come il cielo che si prepara a una tempesta sul suo volto smunto. Lo guardo desiderando che tornino come prima, che ritorni la speranza che mi ha dato con il suo dipinto. E poi i nostri occhi si incontrano. Gli angoli delle sue labbra si curvano verso l’alto e così, anche se solo per un momento, rivedo la scintilla che brillava in lui quando parlava con tanta passione delle meraviglie della natura, del cosmo di cui eravamo fatti dono. Sento le lacrime inondare lentamente il mio viso, mentre vorrei che fosse come ieri. Solo io sulle mura e lui dietro una tela che non sarebbe confluita nella sua condanna a morte. Poi il boia lo colpisce alla schiena con un paletto di legno, facendolo urlare di dolore e riversandolo nel mio cuore mentre lo spinge in avanti. Mi sfugge un urlo mentre corro dietro al corteo, ma inciampo e cado sul pavimento di pietra tra persone che non sanno perché sono qui, che si nascondono dietro la maschera di persone rette, che è solo una facciata davanti al riconoscimento del loro errore, incapaci di proteggere coloro che danno la vita per loro, per la società. Sono vuota, tutta la mia forza è sparita, e lascio che mi camminino e che mi sputino addosso. Sono muta. Mi perdo nelle urla, ma in qualche modo riesco ad arrampicarmi fino al punto in cui posso vederlo per l’ultima volta, quando gli legano un cappio al collo e quando grido, quando perdo le ultime parti di me che hanno ancora forza, vengo trascinata via. Non posso picchiare con le braccia, non posso difendermi.

Tutti si sono già dispersi, come se non fosse successo nulla. Come se non avessero appena strappato la vita a tre innocenti in un mondo in cui non c’è mai stato spazio per l’espressione del libero pensiero. Sono nera di terra, rossa di sangue. Salgo sulle mura, perché almeno io, sola, possa scrivere l’ultimo capitolo del mio testamento. Nessuno può portarmelo via. E poi vedo lei, una tela su cui quella mattina aveva posto il dono più bello. Anche se pensavo di aver pianto tutte le mie lacrime, le sento affiorare e rotolare lungo le guance mentre sorrido dolcemente. Lo sfondo cattura la mia immagine in una sera d’estate con linee sottilissime. Il vestito bianco con fiocco che indossavo quel giorno mi arriva fino alle caviglie mentre mi chino per raccogliere tutte le conchiglie rotte nel fazzoletto. La mia immagine nella sezione dorata è riempita dal contrasto tra le pareti illuminate e la notte. La luce della luna brilla sui miei capelli ondulati che coprono la schiena. Non posso fare a meno di chiedermi come e quando abbia potuto imprimere i colori a questo ricordo, ma quello che so per certo è che non riuscirò mai a liberarlo dall’abbraccio del mio cuore, in cui si è inscritto assieme lui.

Poi, da dietro la cornice di legno, un foglio di carta piegato cade davanti ai miei piedi nudi. Lo raccolgo e vedo il mio nome scritto a lettere dorate sul davanti.

Cara Bella,

Ragazza delle conchiglie, come ti ho chiamata il giorno in cui il tuo nome non mi era ancora stato detto. Probabilmente ora ti starai chiedendo: “Perché?”. Probabilmente stai leggendo queste righe in un giorno in cui c’è solo silenzio, in un giorno in cui tra noi due riecheggiano capitoli di parole non dette. E sì, evidentemente è così che doveva andare.

Anche se mi sono chiuso in me stesso, non sono riuscito a bruciare i miei pensieri non detti, a farli diventare cenere e a disperderli nel vento. Credo che questa sia anche la tua debolezza, non puoi. Così ho spostato tutto sulla tela, sulla carta, sulle conchiglie, insomma, su tutto ciò su cui potevo mettere le mani, e sì… ora vedo il tuo stupore… anche per le conchiglie. Non sono mai riuscito a sopportare il peso di sapere come in una società avvengano le ingiustizie, come noi glorifichiamo senza motivo coloro che vogliono sottilmente trasformarci in marionette per farci ballare al loro ritmo. Purtroppo questo gioco si è spinto troppo oltre, troppe persone si piegano alla loro pressione e non riescono a distinguere il nero dal bianco, ma anche se mi è stato concesso di passare così poco tempo con te, so che lo sai, che sei fedele al tuo pensiero, radicata nel tuo amore per queste persone, per la giustizia, per l’uguaglianza. Anche se ho perso il mio ultimo respiro per questo lavoro, è stato un sacrificio di cui vado fiero, per qualcosa che so che continuerai. Perché puoi sfidare la vita, perché questa non è la tua fine.

Io stesso ho dipinto conchiglie molte volte, perché mi sembrava che contenessero tanti segreti non detti di anime che confidavano all’oceano le proprie sofferenze, i desideri silenziosi, e io le restituivo come tali. Quando ti vedevo raccoglierle, quando dipingevo sulla riva e tu non mi vedevi, a volte mi chiedevo cosa rappresentassero per te. Anche per te queste conchiglie sono molto più che detriti saccheggiati dai commercianti e venduti come “souvenir”? Mi sono spesso trovato a desiderare di poterti dipingere e quando quella sera hai girato l’angolo, ho capito che non potevo perdere l’occasione. L’espressione del tuo viso mentre raccoglievi ciò che era rimasto di loro mi ha fatto capire che eri esattamente ciò che avevo visto in te per la prima volta, ciò che ti distingueva da tanti altri prima di te e da tanti altri dopo di te. Non so perché quella mattina ho lasciato la tela sul muro, ma una parte di me sperava che tu potessi vederla. Sono grato che tu l’abbia fatto, che tu sia tornata e che io sia stato in grado di ritrarre la bellezza di ciò che non eri in grado di vedere.

Così come vorrei che la vita ci avesse dato più tempo, vorrei ancora di più poter far germogliare girasoli dal tuo potenziale. Che il tuo nome risuonasse su tante copertine, che la tua forza brillasse nelle notti in cui tutti vanno a dormire, che la tua voce echeggiasse quando tutti tacciono. Che la luce dei tuoi occhi possa brillare quando negli altri si spegne. Che questi quadri siano la tua acqua, la tua aria, il tuo fuoco, quando ne avrai bisogno. Che ti ricordino ciò che vedo in te, mentre ti do la mia forza affinché tu possa dare a questi gusci rotti la vita che vogliono, la vita che non ho potuto dare loro.

Bella, cammina a testa alta, cammina e basta.

Con fede in te,

Abel

Chiudo la lettera e cammino fino al limite della riva. Prendo dalla tasca il fazzoletto di conchiglie rotte e lascio che il vento le restituisca all’oceano. Chiudo gli occhi, il mio sussurro si diffonde con le onde: “Lo farò. Ti restituirò le conchiglie del tuo nome”.