Amori, Giovanna Vanin_Milano
Racconto finalista Premio Energheia 2021_XXVII edizione – sezione adulti
Tititi. Apro gli occhi. Le sei e cinquanta. Ma se mi sono appena appisolata. Tititi tititi. Cambia suoneria, dice mia figlia da anni. Tititi tititi tititi. Ho capito e che cavolo! Una manata sull’aggeggio. Poi, seduta sul bordo del letto lo guardo. Nevrastenica, dice quello e ricomincia con il suo tititi. E’ Fastweb: lo sai che quando sei fuori casa hai giga illimitati gratis con wow fi? Scopri…, eccetera eccetera. A quest’ora? Penso passandomi la mano sulla nuca, i capelli incollati per il sudore. Mi tiro in piedi, la camicia da notte anche lei appiccicata tra chiappe e schiena. Me la sfilo. Incrocio le braccia davanti, afferro l’orlo dell’indumento, che poi con il caldo che c’è potrei benissimo farne a meno, e invece è come per il tititi, dunque afferro l’orlo e con ampia e articolata manovra me lo tolgo. In controluce il cotone è trasparente. Piccoli fiori blu e foglie verdi sembrano stampati ieri. Hanno resistito a quindici anni di lavaggi. Perché me lo ricordo? Ne avevo comperate due, di camicie, al mercato. Una anche per mia figlia dodicenne. Mamma, aveva brontolato lei, è identica alla tua. E’ più piccola, avevo detto. Non se ne pentirà, signora, le durerà una vita, è cotone di primissima qualità. Tatà tatà tatà. L’uomo del banco c’aveva azzeccato. Non riesco a liberarmene. Mia figlia invece l’ha fatto. Ma è intatta, avevo detto. E lei, la butto nel container. E così aveva fatto e se n’era andata. Partita. Per quale destinazione, avevo chiesto, e con chi? Non lo so, ti mando un messaggio quando arrivo. Voglio sentire la tua voce, ti pago la telefonata. Preferisco WA, fa lei, e così è stato. Sono arrivata, mi ha scritto poi dimenticandosi di dirmi dove e in quale compagnia. E’ una ragazza piena di certezze. Le ho chiesto se era sola. No, mi dice, e però, mamma, smettila ho quasi trent’anni! Sì, dico, quando io ne avrò cinquanta o giù di lì.
Ok, ammetto poi, è solo per sapere, se ti capita qualcosa, facendo le dovute corna, se per caso hai bisogno, se ti ammali. Se se se, dicevo mentre lei riempiva lo zaino di roba.
Comunque stamattina punto il miscelatore sul freddo estremo. L’acqua è scesa tiepida lo stesso. Notte d’inferno, e il sogno? Meglio non pensarci, tanto non ci capisco niente. Mica come Luca e il suo hobby. Chissà cosa vuol dire, gli domandavo. Non aspettava altro, neanche fosse stato a una conferenza. Come fai a esserne certo, dicevo, e lui, pratica quotidiana, e poi, se non mi credi, perché me li racconti? Ok, e m’azzittivo per non innervosirlo ma di fatto non si poteva dire che le sue parole mi servissero. Luca, il padre di mia figlia! Con la sua mania di sparire e non avvisare. Un po’ come fai tu, dicevo a lei, la mia bambina. Mamma, la smetti di paragonarmi a quello, neanche lo conosco.
È così.
Io diciotto anni, lui trenta passati. Eravamo in classe insieme. Lui insegnava matematica. Io ero una dei ventisei studenti infilati nei banchi. Lui scriveva formule e teoremi alla lavagna. Per prendere il cancellino s’abbassava o si torceva verso la cattedra e la camicia gli si tendeva sulla schiena. Perché lo dico? Da allora non ne ho mai vista una più bella, ma che dico, sensuale, intendo schiena. A dirla tutta non è che ne ho viste molte altre, dopo. E poi lui parlava e parlava e io ascoltavo. Non capivo quasi niente di quello che diceva e non era nemmeno necessario. Cioè ero io che non ne sentivo la necessità. Finché ci fosse stato lui, il mio ponte verso il mondo. Per i suoi amici però contavo meno di niente. Questo, il mio cervellino, come lo chiamava Luca, l’aveva capito subito. Oggi vado a basket con tizio, caio e sempronio, diceva. Posso venire anch’io? Ti annoieresti. Tutte scuse, pensavo, forse a tizio caio e sempronio non gliel’aveva mai detto della storia che aveva con me. Ma quando ci si vedeva, sempre in gran segreto, facevo salti di gioia e dimenticavo il piattume della mia esistenza. Dove sei? chiedevo quando non si faceva vivo. Ho bisogno d’aria, diceva e così mi accontentavo di vederlo a scuola, come tutti.
Non solo i suoi amici, anche i miei genitori erano all’oscuro di tutto fino al giorno in cui mi chiedono, perché non mangi? cos’è tutta questa nausea? e così via. Il dottore è stato chiarissimo e sulla strada del ritorno mia madre aveva sibilato, mai sentito parlare di anticoncezionali? Certo che ne avevo sentito parlare. Non sono così stupida. Tutte le mie compagne di classe li usavano. Per sicurezza, per igiene, per non prendere malattie, per non rimanere incinta. Io no. A Luca piacevo così, indifesa, senza pillole o diaframmi. Comunque, a proposito di mia madre, se non fossi stata più robusta di lei, m’avrebbe pestata a sangue. Alla fine con una sfilza di chissà cosa dirà la gente, chissà la scuola, chissà tuo padre, chissà di qua e chissà di là, mi dice che sono una cretina e di abortire. Lì mi sono impuntata. Me lo tengo, il bambino. Sei un’idiota, diceva lei. Meno di te, ho ribattuto. Lei verde m’ha rifilato un ceffone. Comunque è vero. E’ mia madre che a ogni piè sospinto racconta che sono il risultato di un errore.
Chi è stato? aveva chiesto poi papà, con la faccia da funerale. Io non avevo fatto la spia e Luca l’avevo difeso a spada tratta anche dopo la lettera che diceva di non chiamarlo più. Come mai ricordo il giorno esatto? Era il ventinove febbraio. Un anno bisestile, quello. O meglio, lui si era dileguato qualche giorno prima e il ventinove m’era arrivata la lettera scritta a mano. L’avevo estratta dalla cassetta della posta come un reperto fossile. Di chi sarà? mi chiedevo. Parliamo del ’92, millenovecentonovantadue. Dico, un’eternità fa. Mi aveva sorpreso. Di solito non scriveva una riga. Il ventinove è anche il giorno della nascita di mio nonno. Fino a quel momento non m’era mai capitato di ricevere una lettera. Ero corsa in casa. M’ero seduta al tavolo della cucina. Chi è, aveva chiesto mio padre seduto anche lui per il pranzo. Il mio compagno, avevo risposto. Come al solito non capivo perché papà scuotesse la testa. Comunque il ventinove febbraio del millenovecentonovantadue ero seduta al tavolo con i miei. Nel mio cervellino pensavo ne avessero il diritto e così l’avevo aperta, lì, di fronte a loro e dopo averla letta la testa m’è caduta nel piatto. Dai qua, aveva detto mio padre, e data una scorsa al foglio s’era alzato dicendo, è ora di parlargli. Non adesso, aveva detto mia madre tirandomi su dal piatto. Come al solito se uno andava a nord l’altra tirava per il sud. Ma a parte questo, m’ero scottata il naso nella zuppa bollente. Un male terribile, mi sarei buttata sotto la metropolitana. Si dice sempre così, diceva mia madre con la faccia da prugna secca. Avevo pensato, vuole che io lo faccia davvero, intendo quello di suicidarmi. Te la sei cercata, era la sua frase preferita ogni volta che le cose mi si mettevano male. Come quel ventinove febbraio del millenovecentonovantadue. Non mi perdonava d’essere viva. Se avesse potuto m’avrebbe tenuto la testa nella zuppa, a soffocare. Ma c’era papà e dunque mi aveva ripulito la faccia, medicato le scottature e intanto, sì, non la smetteva di dire che me lo meritavo quello stupido tradimento. Comunque quella lettera era stata una fucilata. A pensarci lo sento ancora il male alla bocca dello stomaco, durato tutti i giorni fino al parto, qualche mese dopo il famoso ventinove.
Sei in anticipo, aveva detto il dottore, mentre mi sfilava la figlia dall’utero. La piccola aveva deciso di cambiare aria e io avevo fatto la mia parte. Brava ragazza, aveva commentato lui strizzandomi l’occhio, più rapida di un gatto. A me tutta la faccenda era parsa lunga e molto ma ognuno ha il suo punto di vista. La bambina assomigliava a un pugile conciato per le feste ma nel giro di una settimana le si è allisciata la pelle e sparite le bozze s’è scoperta la stessa faccia del padre. Occhi grandi, naso e molto altro. Da me non ha preso niente, solo un neo qui sotto, a destra dell’ombelico. Carino vero? Lui non l’ha mai vista, intendo il padre. Luca infatti non s’era fatto vivo e sì che lo sapeva. Lo sapevano tutti che avevo partorito. In classe, a scuola, in paese, ma lui, il professore, si sarà detto che la cosa non lo riguardava e s’era pure trasferito. Meglio così. Lontano dagli occhi lontano dal cuore. Così come s’era comportata mia madre dopo la morte improvvisa di papà. Mi aveva messo ad abitare, ci aveva messe, me e la bambina, in un appartamento lontano da casa. Un bilocale al pianterreno di un condominio. E guai a chiederle dei soldi, sembrava non fossi più figlia sua. Infatti mi fa, vai a lavorare. A quel punto ho fatto un po’ di lagna per la bambina. Ci sono gli asili, le baby sitter, aveva detto, è ora che t’arrangi.
Mia madre aveva sempre fretta. Mi evitava come avesse paura di un contagio. Neppure un anno era passato e lei s’era già trovata un altro che mi chiedevo come avesse fatto. Forse in un centro commerciale dove andava per la spesa, dal medico durante una delle innumerevoli visite, perfino la messa della domenica un’occasione. Alla fine mi sono convinta che ce l’aveva da tempo, un amante, nascosto come avevo fatto io con Luca. Comunque, per la questione dei soldi che non voleva darmi, avevo trovato l’indirizzo dell’avvocato di mio padre. Seduta di fronte a lui con la bambina in braccio mi guardavo intorno e dove mi cade l’occhio? su una cazzo di foto, un selfie di loro due, intendo lui e mia madre abbracciati sull’argine di un fiume. A quel punto sapevo già cosa aspettarmi. Infatti. Tesoro, mi fa l’avvocato amante di mia madre, è tua mamma che tutela i beni lasciati da tuo padre. Ho annuito, come faccio sempre quando so d’essere in minoranza. L’ho ringraziato e salutando gli ho detto che essendo mia madre la tutrice di rivolgersi a lei per la parcella. Mi ha fulminato. Vattene, mi fa, con l’indice puntato sulla porta. Sono scappata con la bambina in braccio. Fuori ho chiamato il ginecologo, quello che m’aveva detto che ero stata brava. Appuntamento tra due settimane, mi fa la sua infermiera. E’ urgentissimo, dico io, credo che vogliano disfarsi di me. Lei tace, passano un paio di minuti e poi ecco la voce del dottore. Mi riconosce? chiedo. Lei ha bisogno di uno psichiatra, mi fa senza neanche sapere chi sono. Io insisto, sono la ragazza più rapida di una gatta. Lo dico a tutte, fa lui e poi, spinto da non so cosa, venga stasera, vediamo, Adele, a che ora abbiamo l’ultimo appuntamento? Pausa, parlottio, e poi la voce di Adele, alle diciotto e trenta, in punto, ok?
Passo il pomeriggio in biblioteca, sezione bambini e mi becco occhiatacce della bibliotecaria. Non so cosa farci, dico, alla bambina piacciono i libri come a suo padre. Li prende, succhia gli spigoli e poi se non sto attenta strappa le pagine. Ma li rovina, fa la bibliotecaria. Ha ragione, dico, a casa ho una raccolta del National Geographic da buttare. E allora? fa la bibliotecaria. Ok, me ne vado. Tiro su mia figlia, le do un bacio sulla guancia, basta leggere, ti verranno gli occhi rossi. Ce ne andiamo a piedi verso l’ambulatorio del ginecologo e mi chiedo cosa ci vado a fare, sono mesi che non faccio più l’amore, mesi che non scopo, potrebbe dare una ripulita solo alle ragnatele. Abbraccio la mia “cipolla”, me la stringo, sono la tua mamma senza arte né parte, ma non finisce qui. Tiro su la testa e raddrizzo la schiena. E adesso andiamo dal dottore.
Allora, bambine belle, cosa succede? Fa lui guardandoci lì abbracciate dentro la sua gigantesca poltrona. Già, con tutte le pance che deve contenere, penso e gli racconto di mia madre, del suo amante e lui con un sorrisetto astuto, ho chi fa per te e si mette al telefono con uno che lui chiama Alessio caro, abbiamo un quesito, e gli racconta. Racconta ad Alessio il mio cazzo di problema e quando chiude la comunicazione mi dice, eccoli sistemati, squalo contro squalo, ma che mondo terribile è questo, nevvero bimbe? E mi fornisce l’indirizzo.
Nevvero? A casa sulla Treccani, controllo. Milleseicentododici. Non proprio l’altro ieri, e comunque adeguato alla faccia da nonno del dottore.
Appuntamento da Alessio, il nipote del nonno nevvero, scopro, è anche giovane, un giunco si direbbe di una femmina tanto è elastico e sottile, gli occhi neri al contrario dei miei. Si accomodi, io obbedisco con la piccola in braccio e a domande rispondo. Nel giro di poco la vicenda con mia madre si risolve e in modo quasi indolore per me. Squalo contro squalo, aveva detto il dottor nevvero. Ha vinto Alessio, non mi ha mai spiegato come e poi, da quando ci siamo innamorati, non gliel’ho più chiesto. Un amore strepitoso per anni che, com’era cominciato, è finito. Per tutti e due, eh, mica m’ha mollato così, come uno qualunque. Lui mi aveva amato davvero e io non di meno. Poi basta, senza tanti strilli, a parte la mia “cipolla” che aveva compiuto dodici anni e si era lamentata perché lo vedeva sempre meno. Ho provato a spiegarle, a illustrarle la transitorietà delle cose ma lei mi ha tenuto il broncio fino a quando, e non so dire come né perché, le è passata.
La mia “cipolla” quasi trentenne è dunque partita, io mi concentro sul lavoro. E giusto perché si sappia, Alessio m’aveva dato una mano gigantesca con il negozio di ottica. Avrei preferito una cartoleria, m’è sempre piaciuto trafficare con matite, quaderni, colori e via discorrendo ma Alessio m’aveva fatto ragionare, gli ottici sono come i panettieri e la gente non smetterà d’invecchiare e di vederci peggio. Un negozio tutto mio! Come una pazza giorno e notte, c’ho lavorato. Mica me lo doveva regalare, gli ho restituito tutto, e comunque adesso che sono qui, nel mio bel negozio, la figlia in viaggio, ecco che qualcuno suona il campanello. Una volta non l’avevo ma poi, dopo l’incursione di un disgraziato, l’assicurazione mi ha costretto a metterlo. Schiaccio il pulsante.
Ciao mamma.
Cosa ci fai qui, non dovresti essere in treno, in macchina o che ne so, da qualche altra parte? dico.
Mamma mamma, mi abbraccia, piange, e io, che non so cosa pensare, la stringo come quand’era piccina e dico, tutto si risolve. Poi, reticente e misteriosa come mai era stata, mi fa, non so come dirtelo. La mia “cipolla” ha gli occhi lucidi, la fronte sudata, sarà il caldo. Siediti, ti porto un po’ d’acqua, dico e lei, appoggiando la mano sul mio braccio mi trattiene con un sorriso da un orecchio all’altro e mi fa, sono incinta.
Respiro a fondo.
E di nuovo lei, sai chi è il padre?
La storia si ripete, penso e però dico, un secondo fa non sapevo nemmeno che fossi incinta.
Prova a immaginare.
Un tuo collega dentista, il direttore della banca, un impiegato, il fioraio, l’edicolante, quel bel ragazzo che ti ha accompagnato sere fa, a proposito chi era? Ma “cipolla”, dico, come posso indovinare chi è tra tutti quelli che ti ronzano intorno?
Non è stato lui, sono stata io a ronzargli intorno.
È disarmante la sua sincerità. Va bene, concedo, non è stato lui sei stata tu.
È una questione di scelte. Indovini adesso o no?
Il suo nome, la faccia, tutto di lui risale dal pozzo come tirato su da una carrucola, lentamente, con un cigolio di ferraglia, non può essere mi dico, non lui, non Alessio, mai l’avrebbe fatto di sua iniziativa. Penso che mia figlia sia un’ammaliatrice, forse è perché ci siamo lasciati, forse ne era innamorata a dodici anni e non le è mai passata, forse le piacciono quelli vecchi come ai tempi era capitato a me con Luca. Ma sant’iddio in nome di quali amori ci ficchiamo sempre nei casini?
Allora, fa lei, le gote rosse di una felicità senza pudore, allora, hai capito?
Io non oso pronunciare quel nome, non voglio dirlo, il mio unico, vero, grande amore, padre di mio/a nipote?
Mamma, stai invecchiando di brutto, una volta eri più veloce a indovinare, non è nessuno di quelli che pensi.
Ah no! faccio io con broncio sospettoso.
Dai, l’ho capito dalla tua faccia. Non nego d’esserne stata innamorata, ma come può esserlo un’adolescente, insomma mamma, mi consideri proprio una stronza, fa lei, però te la perdono.
Ok, niente incesto o simili, tiro un sospirone di sollievo, e allora?
E allora uno m’ha regalato un seme, ed eccolo qua, e si batte la mano sulla pancia.
Oh, madonna mia.
Mamma, lascia stare.
No, sì, hai ragione, le senti dalla nascita, certe parole ti scivolano fuori e manco te ne accorgi. Ma, ecco qua, il mio maschiaccio, come ti chiamavano, più donna di tante svampite che…
Dai, mamma, non è che se una è incinta è meglio di altre, no?
E chi lo pensa, dicevo per dire, erano le mamme delle tue compagne, a spettegolare.
Ah, mammuzza mia, tutto scorre e tu sei ancora lì. Per me tutto s’è sciolto, evaporato da anni e anni.
Anni e anni, esagerata! Sei ancora una ragazzina.
È da allora che l’amo. Vedi, è lì che aspetta, sul marciapiede.
Io prendo tempo. Attraverso le vetrine osservo l’uomo concentrato sugli occhiali esposti. I gusti sono gusti, penso. Ha un bel nasone, dico poi.
Mamma, cos’ hai capito. Guarda lì, accanto.
Ah, faccio io.
L’uomo dal nasone se n’è andato. La donna rimasta alza il braccio, ci cerca con gli occhi attraverso il vetro, tra i ripiani coperti di lenti e montature, e muove le dita in un saluto. Anche la mia “cipolla” gesticola. Mi ha preso alla sprovvista. Io non so che fare, dovrei essere contenta? Ci penserò. Dovrò imparare, farci l’abitudine. Ma quanti tipi di felicità esistono? mi chiedo ancora mentre schiaccio il pulsante, apro la porta e, invitandola con un gesto della mano, dico, venga.