Anche le 5 Stelle stanno a guardare
_L’Aiuto pubblico allo sviluppo grande assente nel programma “grillino” e nel dibattito pre e post campagna elettorale. In linea di continuità con il passato. Per il 2013 le risorse a disposizione della Dgcs sono 277 milioni di euro. Sui 24 paesi prioritari, 10 sono africani.
Nella stagione politica in cui molte certezze si sfarinano sotto i colpi della ramazza grillesca, un tema continua ad annegare in una solitaria indifferenza: la cooperazione internazionale. Non interessava nell’era ante-Grillum. Non interessa ora ai “cittadini” sfollati dai partiti tradizionali.
Le ondate di rigetto e di disincanto che hanno travolto le tende castali della politica italiana non sembrano neppure accostarsi al relitto quale appare oggi in Italia l’aiuto pubblico allo sviluppo. Se uno si va a leggere il programma in 20 punti del MoVimento 5 Stelle si accorgerà che neppure con la lente d’ingrandimento troverà la parola “cooperazione”. E “sviluppo” è citato tre volte abbinato alle “reti di piste ciclabili”, alle “tratte ferroviarie” e alle “strutture di accoglienza degli studenti”.
Pura dimenticanza? Non ne è graniticamente certo il mondo italiano delle organizzazioni non governative, che ha tentato in tutti i modi di coinvolgere qualche candidato “grillino” in campagna elettorale per capire quale idea abbia in testa sul futuro (se l’avrà) della cooperazione italiana. Zero risposte.
In gennaio è stata pure organizzata un’importante kermesse romana, nella quale è stato lanciato l’appello alle istituzioni e alla politica affinché «la cooperazione internazionale allo sviluppo diventi, per chiunque andrà al governo, la componente qualificante delle relazioni internazionali dell’Italia, più che l’impiego delle nostre forze militari all’estero». Un documento in dieci punti in cui si chiedono nuove politiche, nuovi strumenti e nuove risorse.
Hanno sottoscritto l’appello 46 candidati alle elezioni del 24-25 febbraio. Nessuna firma dal MoVimento 5 Stelle. Eppure i temi trattati (“lotta all’ingiustizia, promozione di un mondo più equo e sostenibile, affermazione della pace, della coesione sociale, dell’equità, dei diritti delle donne e delle bambine, dei partenariati condivisi…”) accarezzano la sensibilità sociale di molti sostenitori del comico ligure.
Non che negli altri partiti la cooperazione sia la stella polare del loro programma. Nei dibattiti televisivi, in campagna elettorale, mai un riferimento, un richiamo, un cenno. Dei 46 candidati che si sono impegnati a farsi paladini delle proposte delle ong nella XVII legislatura, nata zoppicante, sono rimasti in 16 a fine corsa (6 Pd, 4 Sel, 3 Psi, 3 Scelta civica di Monti).
La spietatezza dei numeri lascia intendere che anche nelle ringiovanite aule parlamentari il tema delle politiche di aiuto pubblico allo sviluppo sarà allegramente ignorato.
Del resto, la cooperazione è abituata, in Italia, a un ruolo ancillare. Neppure il grande evento del Forum di Milano (1- 2 ottobre) – voluto dal ministro Andrea Riccardi per rompere il silenzio catacombale che avvolgeva il non dibattito sul tema – è riuscito a trasformare la cenerentola della politica italiana in principessa. Il governo Monti, che per primo aveva introdotto la figura di un ministro della cooperazione, non è riuscito a portare a casa nemmeno la riforma della legge che disciplina questa infuocata materia e che risale addirittura al 1987, quando il muro di Berlino divideva ancora il mondo in due blocchi. Si era a un passo dalla firma. Il mondo della società organizzata e gran parte delle forze politiche erano d’accordo su tutto.
La riforma è saltata su una parolina di quattro lettere: “vice”. Il testo elaborato, e che ha visto tra i principali sostenitori il rieletto senatore del pd Giorgio Tonini, parlava di un alto referente politico alla guida della cooperazione, con delega ampia e piena. Non un ministro, tuttavia. Ma un vice-ministro, per evitare che la nuova figura fosse a capo di un’altra elefantiaca macchina burocratica. Soluzione che sembra non essere piaciuta a Riccardi, acceso difensore del ruolo ministeriale. E da quell’incaglio s’è frenato l’iter della riforma.
Riccardi ha avuto comunque il merito di imprimere un’inversione di tendenza nell’assegnazione dei fondi per le politiche di cooperazione internazionale. Il 2012 ha rappresentato il punto più basso nella storia dei finanziamenti assegnati alla Direzione generale per la cooperazione e lo sviluppo (Dgcs): 86 milioni di euro. Per il 2013, stando alle cifre aggiornate al 13 marzo e contenute nelle Linee-guida e indirizzo di programmazione della Cooperazione italiana per il triennio 2013-2015, le risorse complessivamente impegnabili come stanziamento ordinario sono 277,71 milioni di euro. Dei quali, 22,23 milioni andranno per il funzionamento della struttura ministeriale e 50,36 milioni in contributi obbligatori a organismi internazionali. Per gli interventi e investimenti restano 227,35 milioni di euro. A tali disponibilità si aggiungono i residui di stanziamento 2012, che ammontano a 8,9 milioni di euro.
«L’incremento di risorse», mettono le mani avanti i funzionari della Dgcs, «riguarda per il momento solo il 2013. Occorrerà operare affinché – a legislatura e governo re-insediati – il Documento di economia e finanza 2013 confermi, e non smentisca, tale tendenza».
Come area geografica sarà privilegiata l’Africa subsahariana, all’interno della quale i paesi prioritari sono dieci: Burkina Faso, Etiopia, Guinea, Kenya, Mozambico, Niger, Senegal, Somalia, Sudan eSud Sudan. In totale, i paesi prioritari passano da 90, della programmazione triennale precedente, ai 24 attuali.
Se le novità politiche scarseggiano, rilevanti cambiamenti si sono avuti sulla poltrona più importante della Dgcs: da gennaio il nuovo direttore generale è Giampaolo Cantini, 55 anni, ex ambasciatore ad Algeri. Nel suo primo editoriale pubblicato nel notiziario di febbraio della cooperazione italiana ha sottolineato che tra i punti da sviluppare maggiormente c’è la «partnership pubblico/ privato partendo anzitutto da un continuo flusso di informazioni, al fine di promuovere tra le nostre imprese la consapevolezza delle opportunità offerte dai programmi della Cooperazione Italiana, principalmente con i crediti di aiuto soprattutto nei paesi del bacino Mediterraneo e dell’Asia».
Una dichiarazione in linea con lo sdoganamento del settore privato come attore principe dello sviluppo. E che fa a pugni con uno dei dogmi sacri dell’aiuto allo sviluppo: separare la cooperazione dalla politica commerciale, per evitare di trasformare gli aiuti nel cavallo di troia delle imprese e del business e la cooperazione in una variabile del mercato.